Il buddismo cioè i buddisti come istituzione, chiesa (if any), gruppo, nome o quant’altro non dovrebbero -a parte eccezioni le più estreme, momentanee e sempre criticabili- mai propugnare, schierarsi con, intervenire in, aggrupparsi secondo o comunque elaborare qualsivoglia idea, tendenza o proposta politica. Soprattutto non dovrebbero definire “buddista” qualsiasi tipo di forma politica.

A parte gli inequivocabili segni del passato e del presente che ci mostrano quanto sia deleterio che le religioni, per tramite di persone che se ne dicono i testimoni, si azzuffino usando come carne da cannone proprio le masse che dicono di essere intervenute a salvare, è proprio nella differenza inconciliabile tra politica e buddismo (religione tout court?) che trovo motivo a questa posizione.

Far politica “da buddisti” o “in quanto buddisti”, ovvero tentare una via buddista alla politica, sarebbe come sarchiare le insaltine di un orticello con un cingolato da quaranta tonnellate. O tentare di sfamare un cavallo con un sottile filo d’erba. Operazioni non sorprendenti -si è visto di peggio, si è visto di meglio- nel paradossale mondo dei buddisti, ma certo sopra le righe in qualsiasi accezione politica.

Il buddismo è la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, dalle angosce di questo ed altri (se del caso) mondi. In particolare il buddismo zen è l’aspetto più radicale in questa storia; la via diretta, spietata perché non c’è posto neppure per la pietà. Verso sé stessi, naturalmente. La posta in gioco è tale per cui la disposizione a porre la propria (attenzione: la propria) vita letteralmente in bilico tra riuscita e sconfitta, è il minimo indispensabile per accedere alla partita. Per esempio se, per tutte le cause o i motivi di cui chiunque si sia cimentato in questa via è ben al corrente, proprio all’inizio si è sbagliato nell’associarci ad una persona, ad un gruppo, ad una pratica o a un modo di praticare e non ci si è accorti in tempo dell’abbaglio: ffffhh, la nostra vita è andata, sprecata, buttata al vento. E non c’è un’altra chance: tutto finito. E così pure -tutto finito, andato, irrecuperabile- è, alla fin fine, anche nell’altro caso, quello in cui avessimo scelto le giuste compagnie e la buona pratica.

Questa radicalità, sia di posizione sia di scelta, per quanto naturale e necessaria in ambito buddista (religioso?) non può essere esportata come proposta di vita ad altri ambiti; non può divenire “politica” ossia, tendenza orientativa o presupposto per compiere scelte, da parte di un governo, che coinvolgano tutti. Né tantomeno può divenire legge.

A meno che non si ritenga che il fondamento religioso sia una possibilità politica legittima, che l’adesione alla legge, alla regola di una religione o l’appartenenza religiosa siano la condizione per vivere in una certa nazione, o per esservi ammessi. Per ottenere la nazionalità israeliana occorre dimostrare di appartenere ad una famiglia ebraica. Una donna, per vivere in Iran, anche se non è mussulmana deve rispettare alcune regole che discendono da questa religione, non da un compromesso politico sociale. In Italia la Chiesa Cattolica tenta continuamente di condizionare il parlamento italiano affinché approvi regole basate sul magistero cattolico e vincolanti per tutti. Mi auguro che i buddisti italiani non pretendano mai, in nessun caso, di condizionare la società in questi modi.

La politica è l’arte del possibile, del compromesso, del mettersi d’accordo in un modo o nell’altro. “Tutto s’aggiusta” era il motto di uno dei politici più longevi della prima repubblica, in Italia. Occorre che gli interessi di tutti siano ascoltati e rappresentati, anche poco ma presenti.

Non penso che fra i due mondi, quello buddista e quello della politica, fra gli ambiti nei quali intervengono, tra gli strumenti che legittimamente vi sono ammissibili, vi possa essere contatto, se non casuale, o apparente.

Diverso, rispetto alla politica buddista, è il discorso dei buddisti che fanno politica. È un diritto dovere. Vediamo di non farci turlupinare, perché alla fine del mese dobbiamo arrivarci anche noi; respiriamo anche noi la stessa aria inquinata da questo e da quello.

Si può fare zazen anche nell’indigenza, con i figli attorno che piangono per il freddo, fra il sibilo delle pallottole, e la cosa deve essere accettata in quanto realtà, nulla più. Ma come cittadini (padri, mariti, lavoratori, esseri umani) abbiamo la possibilità di contribuire negli ambiti da noi “occupati” affinché la convivenza civile possa avvenire nel modo più pacifico e libero possibile, con attenzione a coloro che sono più deboli culturalmente, numericamente, socialmente, economicamente. Il cittadino buddista, se vuol essere sia l’uno che l’altro, non può dimenticare né il senso di cittadino né quello di buddista. Libero comunque di dimenticare entrambi, assumendosene la piena responsabilità.

Per questo abbiamo scritto che l’uscita organizzata dei monaci birmani dai monasteri è stato un errore. Tuttavia, e siamo in un’area opinabilissima, il fatto che potrebbe far rientrare l’atto dei monaci birmani in una sfera religiosa è la motivazione (presunta, ma abbastanza chiara): se non lo avessero fatto loro non c’era nessun’altra entità in grado di uscire in quel modo. É assumersi la responsabilità di un errore per obiettivi religiosi. Chiamiamola compassione, purché scevra di sentimentalismo. Ma resta un errore. Dōgen nel XIII secolo scrisse: «Quando la “grande funzione” si manifesta non esistono regole». Si spera, si pensa che i monaci birmani abbiano manifestato la grande funzione. In questo caso avrebbero trasgredito alla norma -e ne subiranno tutte le conseguenze- pur di essere dei buoni buddisti. Un’indicazione dello stesso segno ce la offre Milarepa: «Respingete tutto ciò che l’egoismo fa sembrare buono e che nuoce alle creature. Al contrario, fate ciò che sembra peccato ma è di profitto alle creature, perché è opera religiosa» e poi: «Agite in modo di non arrossire di voi stessi […] quand’anche [in questo modo] vi opponeste ad alcuni libri».

Anche il cristianesimo, in quanto religione autentica, pratica lo stesso principio, esposto in Matteo 12; 3-10: «Non avete letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significa: /Misericordia io voglio e non sacrificio/, non avreste condannato individui senza colpa. […] «Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in una fossa, non l’afferra e la tira fuori? Ora, quanto è più prezioso un uomo di una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato».

M. Yūshin Marassi

5 Responses to “Incubi del terzo millennio: la politica buddista”

  1. Paolo Sacchi Says:

    Temo di dire di essere d’accordo con Yu Shin. Non lo siamo quasi mai.
    Tuttavia curiosando sul Web si è rinnovata in me una preoccupazione che nutro da tempo, quella cioè che il Buddismo, manipolato da noi occidentali (ma non solo) e filtrato dalle nostre categorie, stia assumendo il vero carattere di un –ismo, sulla falsariga di altre religioni, dottrine ecc.
    Il rischio che il Buddismo prenda una forma, segnatamente quella di una ideologia, è stato messo a mio avviso in risalto da quanto accade in Birmania (mi rifiuto di usare quell’altro nome imposto dai miltari) e dalle conseguenti reazioni emotive di molti occidentali…
    Continua qui

    doc

  2. rolando Says:

    Non capisco la divergenza, mi pare che entrambi negate legittimità all’uso politico della religione,e nel caso specifico, del buddhismo: sono completamente d’accordo con questa impostazione, che però molti buddhisti spesso dimenticano.
    Dopo di che ognuno ha il diritto dovere di agire politicamente, ma certo un grosso problema si pone per coloro i quali la religione rappresenta il loro modo totale di vivere, come i monaci, nel caso buddhisti.
    Si tratta di questioni delicate, ma io credo che i religiosi di professione debbano essere forza di chiarimento interiore,di pacificazione, di dialogo, ma non i protagonisti della battaglia politica, altrimenti dovrebbero dedicarsi ad altro, rinunciare al loro status formale di religiosi.

  3. rolando Says:

    Che ne pensate di Bernie Glassman, a proposito di buddhismo e impegno sociale? Sul fatto che i religiosi non debbano fare politica, sono del tutto d’accordo col redattore di questo splendido sito.

  4. Yushin M. Marassi Says:

    “Splendido sito”? Wow! Grazie, troppo buono. Gli errori sono tutti del webmaster, i meriti… si sa: meglio non caricarsi di troppo bagaglio o dalla porta senza ingresso non si passa… :-).
    Su Glassman preferisco non dir nulla, qualcuno si potrebbe offendere.
    Ciao,
    mym

  5. Paolo Sacchi Says:

    Sì, non c’è stata op-posizione. Avrei letto con interesse l’esposizione di una tesi divergente. Per non correre il rischio di adagiarsi su posizioni di comodo.
    Ciao
    PS: non conosco Glassman.

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