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Raimon Panikkar, La gioia pasquale, la presenza di Dio e Maria, a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book 2007.

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Un libro scritto da un kalyānamitra. Panikkar è autore di svariate opere, alcune di esse sono complesse e richiedono impegno. Ci sono, poi, altre opere scritte con uno stile più colloquiale, che solo in apparenza chiedono meno impegno. La Gioia Pasquale può essere inserita in quest’ultimo gruppo. Abbiamo detto un libro scritto da un kalyānamitra, “il buon amico” che ci accompagna con l’esempio sulla Via religiosa (Suttanipāta 45 ss.). Spieghiamo…

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Di Uchiyama Kōshō

1. Come si fa zazen

Finora ho parlato del significato di zazen, ora esaminerò il modo di farlo effettivamente. Innanzitutto il luogo prescelto per lo zazen deve essere silenzioso e tranquillo il più possibile. Non deve essere né troppo luminoso né troppo oscuro: riscaldato in inverno e fresco in estate. Abbiate cura che sia al riparo da correnti d’aria, da fumi e odori sgradevoli: fate che sia un luogo sempre in ordine e pulito. Insomma, è necessario creare un’atmosfera in cui si possa stare seduti senza essere disturbati dall’esterno, un ambiente appositamente dedicato allo zazen. È bene, io credo, che vi sia un’immagine di Buddha, con un’offerta di fiori e di incenso. Una raffigurazione di Buddha è l’espressione artistica della tranquillità dello zazen e della compassione e saggezza che lo zazen manifesta: contribuisce a formare il carattere di un posto che è parte del mondo dello zazen, l’atmosfera che ci attende quando andiamo a sederci. Noi, persone di zazen, rispettiamo il luogo dello zazen. e anche il nostro inchino a mani giunte, ogni volta che entriamo, manifesta la stessa forma di rispetto. Non dobbiamo mai scordare di aver cura dell’ambiente che ci rende possibile e ci aiuta a fare zazen. Nello stesso spirito curiamo il nostro aspetto: indossando vestiti comodi, puliti, non sgargianti o vistosi. Ora spieghiamo come ci si siede. Mettiamo un cuscino quadrato e sottile o una coperta di fronte al muro e un cuscino tondo (zafu) alto e non morbido sopra di esso. Ci si siede sul cuscino tondo e si incrociano le gambe. Il piede destro sulla coscia sinistra, il piede sinistro su quella destra. È la posizione detta del loto. Se non è possibile assumere questa posizione, è sufficiente mettere il piede sinistro sulla coscia destra, nella posizione chiamata del mezzo loto. Non si deve sedere nel centro del cuscino tondo, ma quasi sul bordo, lasciandone libera la maggior parte dietro la schiena. Il peso del corpo dalla vita in su è così appoggiato su tre solidi punti: le due ginocchia (sul cuscino quadrato o coperta) e il sedere (sul cuscino tondo). Sedetevi e stirate la schiena come per affondare le natiche nel cuscino. Tenete il collo eretto e fate rientrare leggermente il mento. Le labbra e i denti sono chiusi senza essere contratti; la lingua poggia contro il palato, in modo che non vi sia aria né saliva nella bocca. Raddrizzate la testa come se voleste perforare il soffitto. Le spalle sono invece rilassate, sciolte da ogni tensione. La mano destra riposa appoggiata sulla pianta del piede sinistro: la mano sinistra è posata nel palmo della destra. I pollici si toccano leggermente senza toccare le altre dita: la forma delle mani disegna così una specie di ellisse.

La testa non deve inclinare né avanti né indietro, né a destra né a sinistra: quindi le orecchie sono allineate alle spalle e il naso all’ombelico. Gli occhi aperti come di consueto, guardate il muro e poi abbassate un poco lo sguardo. Una volta assunta la posizione, aprite la bocca ed espirate profondamente in silenzio. Per sciogliere muscoli e giunture è consigliabile fare qualche lento movimento ondulatorio, due o tre volte, a destra e a sinistra. Poi, sedete immobili. Si respira tranquillamente dal naso: non si applica alcuna forma di controllo della respirazione. Lasciamo che i respiri lunghi siano lunghi, che quelli brevi siano brevi, nel modo più naturale possibile, senza bruschi sbalzi e senza fare alcun rumore (1). Ho descritto a grandi linee la posizione del corpo in zazen. In verità questa posizione, una scoperta unica dell’oriente, possiamo ben dire che è qualcosa di straordinario. Fra quelle che il corpo può normalmente assumere, è infatti la più adatta per abbandonare i piccoli pensieri umani. Si può comprendere facilmente cosa voglio dire se confrontiamo la posizione di zazen con l’immagine che comunemente abbiamo in occidente di un uomo che pensa. La fronte appoggiata alla mano, la schiena curva, lo sguardo un po’ perso: ecco l’uomo immerso nei suoi pensieri: oppure la fronte corrugata, le spalle contratte, tutte le membra in tensione, ecco l’uomo concentrato su un pensiero particolare: in ambo i casi dimentico della realtà che gli è attorno. Una famosa statua dello scultore francese Auguste Rodin è intitolata appunto Il pensatore ed è un esempio emblematico: tutto il corpo è come ripiegato su se stesso, l’impressione è quella di un uomo immerso nelle proprie illusioni. Invece, quando siamo in zazen, il torso, la schiena, il collo, la testa. tutto è in posizione eretta. L’addome rilassato riposa sulle gambe solidamente incrociate, per cui il sangue decongestiona la testa e circola liberamente nel ventre. Grazie al decongestionarsi del cervello, l’eccitazione mentale diminuisce, e non è più possibile lasciarsi andare alle fantasie e all’immaginazione. Comprenderete quindi che fare zazen correttamente significa assumere fisicamente la posizione giusta e affidarsi ad essa lasciando perdere tutto il resto. Eppure, mentre è tanto facile dire a qualcuno: «Cerca di assumere e mantieni la posizione giusta, con il tuo corpo, e in essa abbandona tutto il resto!», in effetti non è così facile a farsi. Se pur essendo nella forma fisica dello zazen continuiamo a pensare, allora stiamo pensando e non facendo zazen. Se invece ci addormentiamo, allora, invece di fare zazen, stiamo dormendo.
Zazen non è pensare e non è dormire: fare zazen è sempre tendere con tutta la vitalità alla giusta posizione di zazen.

Se vi insonnolite durante zazen, il vostro modo di essere seduti perde energia e vi intorpidite. Se state a pensare, immancabilmente il vostro modo di essere seduti diventa rigido. Zazen non è ne irrigidimento né svuotamento di energia: deve essere invece piena vitalità.

(1) In zazen la cosa più importante è sedersi nella giusta posizione. È anche importante che il respiro e il battito cardiaco siano regolari. Nel buddismo Theravada ci sono due modi di praticare: uno è contare i respiri, l’altro è di meditare a proposito di un oggetto. In altre parole, un praticante del Theravada regola il ritmo della respirazione contando i respiri. La pratica dei Buddha e dei patriarchi è del tutto differente dal modo Theravada. In un sutra è scritto. “Non dovete mai seguire il sistema Theravada per mezzo del quale i seguaci cercano di migliorare se stessi”. Le scuole Shibunritsu e Kusha attualmente attive in Giappone esercitano questo tipo di controllo. Il modo Mahayana di avere una respirazione regolare è completamente differente: un lungo respiro è lungo, un corto respiro è corto. Il respiro parte dal basso ventre e lì arriva. L’inspirazione e l’espirazione sono differenti. Ma in ogni caso dobbiamo inspirare ed espirare dal basso ventre. Respirando in questo modo appare chiaro il fluire della vita e la mente e il cuore sono quieti. Tendo Nyojo disse: “Il respiro dell’inspirazione raggiunge il basso ventre. Però ciò non significa che giunga da qualche altra parte: per questo non possiamo dire né che è lungo né che è corto. Il respiro è espulso a partire dal basso ventre. Ma ciò non significa che vada da qualche parte. Perciò non possiamo dire che sia corto o lungo”. Il mio maestro Tendo Nyojo dava questa spiegazione e io stesso risponderei nel medesimo modo se qualcuno mi chiedesse come regolarsi a proposito della respirazione. In realtà non è una questione che può essere stabilita in termini di Theravada o Mahayana (di appartenenza a questa o a quella scuola). Se l’interrogante insistesse per saperne di più, direi che inspirazione ed espirazione non sono né lunghe né corte» (Eihei Koroku, sezione V). Nota del testo originale.

È un po’ come succede quando si guida un’automobile. Guidare da insonnoliti o da ubriachi è pericoloso, perché la vitalità è intontita, e altrettanto guidare contratti o immersi nei pensieri è pericoloso, perché la vitalità è irrigidita. Temo che non sia diverso il caso degli operatori sociali, dei dirigenti politici di una nazione: se guidano da insonnoliti o da ubriachi, se dirigono con eccesso di preoccupazione o seguendo solo i propri pensieri, può davvero diventare pericoloso. In qualunque attività, in ogni lavoro, è un guaio se la vitalità è intontita o irrigidita. È importante che la vitalità lucidamente desta sia viva. Zazen è la forma più concentrata, più asciutta di questa vitalità che vive lucidamente desta, è il modo più diretto, meno adulterato di metterla in opera. Dirlo a parole è estremamente facile, mentre metterlo effettivamente in pratica è la cosa più seria e contemporaneamente la più impegnativa e coinvolgente nella vita di una persona. Eppure, per quanto riguarda lo zazen, in pratica, noi tendiamo con tutto il corpo, in carne ed ossa, alla forma corretta dell’essere seduti, senza diventar intontiti, senza perderci nei pensieri, svegli in piena vitalità. . . però poi, in realtà, esiste il raggiungimento di quella condizione? È dato di raggiungere lo scopo, si può parlare di successo, di superamento del traguardo? Proprio qui risiede il motivo che rende lo zazen assolutamente inconsueto: in zazen noi dobbiamo senza alcun dubbio puntare con tutta la nostra vitalità ad assumere la corretta forma seduta, eppure in nessun modo accade che si centri il bersaglio, che si superi il traguardo. Quantomeno, la persona che siede in zazen non è consapevole di centrare il bersaglio. Il motivo è presto detto: se chi fa zazen pensasse «il mio zazen è divenuto un buono zazen», oppure «ho centrato il bersaglio dello zazen», di altro non si tratterebbe, evidentemente, che di un modo di pensare al proprio zazen, non dello zazen in sé, da cui così facendo ci si allontana. Perciò, mentre è assolutamente indispensabile tendere, mirare al vero zazen, bisogna anche dire che non è assolutamente possibile la consapevolezza di averlo raggiunto. C’è davvero in questo una così strana contraddizione? Solitamente pensare che se vi è «mirare» deve esserci anche un bersaglio fa parte del senso comune, perché proprio in quanto vi è un bersaglio si mira; qualora si capisse che non c’è nessun bersaglio, chi mai prenderebbe la mira? Questo secondo il modo utilitaristico di pensare, secondo un comportamento calcolato. Si tratta invece, ora, di interrompere il commercio, il calcolo utilitaristico basato sul rapporto con l’altro, e di fare solo se stessi tramite se stessi. Semplicemente zazen fa zazen facendo zazen. Semplicemente il sé fa sé stesso facendo sé stesso. Gettar via proprio il pensiero calcolatore che ci suggerisce che se vi è un tendere deve per forza esserci un traguardo: questo è zazen. Una cosa del tutto folle a pensarci con la piccola mentalità umana, solo tendere senza assolutamente aver coscienza di un bersaglio da centrare: nient’altro che una contraddizione. . . ebbene proprio nel mezzo, nel centro stesso di questa contraddizione, semplicemente soltanto sedersi. Però, che senso di incompletezza, di qualcosa che sfugge si prova in questo fare semplicemente zazen! Può succedere di sentirsi completamente perduti, di non saper più che fare.

Ma è davvero quando succede così che lo zazen è assolutamente meraviglioso! Il senso di soddisfazione, di tronfio appagamento che prova il piccolo io, l’io ordinario, altro non è che la prosecuzione di un modo d’intendere ordinario, che si appaga appunto di banalità senza interesse. Invece nello zazen, il piccolo io, l’insignificante io ordinario, si sente insoddisfatto, non sa più che fare: proprio allora, al di là del modo di pensare dell’io piccino, c’è all’opera l’infinita incommensurabile vita che è la vera grande natura dell’essere: oltre l’insulso ordinario modo di intendere è al lavoro la forza vivente di Buddha. Le persone che fanno zazen devono innanzitutto avere la conoscenza intellettuale che lo zazen è così fatto; perciò, quando lo si fa effettivamente, ciò che conta è una cosa soltanto: tendere non con la mente, ma con il corpo, in carne ed ossa al giusto modo di sedere, per affidare tutto di sé alla forma concreta di questo corretto zazen. Non è possibile vedere direttamente con i propri occhi nudi la nuda realtà del proprio viso: come ho già detto, lo zazen è rendere evidente così come è la realtà spoglia della vita del sé, per cui non è qualcosa da misurare con la consapevolezza. Bisogna comprendere fino in fondo che è soltanto la nostra mentalità utilitaristica, che vuole vedere il risultato delle azioni compiute, a sentirsi insoddisfatta e perduta. Comunque zazen è veramente la migliore posizione tendente alla realtà così come è: il tendere stesso, così come è, la posizione che tende alla realtà autentica è detto shikantaza (fare semplicemente zazen).

Lo scopo di fare zazen è zazen, in quanto tale; grazie alle parole di Dogen Zenji che cito qui di seguito, risulterà chiaro che assolutamente non si tratta di fare zazen allo scopo di far sbocciare un qualche speciale satori, tramite il fatto di fare zazen.

Fare zazen è in se stesso il satori, è sciogliere e abbandonare corpo e spirito, è la custodia della visione della realtà autentica del meraviglioso cuore della profonda verità (2); fare zazen è mettere in pratica effettivamente, qui, adesso, questo risveglio (satori), renderlo operante e realizzato. Se facciamo zazen con questo comportamento e atteggiamento dello spirito, allora sì che si può davvero parlare di zazen (shikantaza).

La giusta comunicazione della vera realtà da un buddha ad un buddha, da un patriarca ad un patriarca è sempre stata soltanto zazen [. . . ] è da sapere con chiarezza. Zazen stesso è la forma definitiva del satori. Ciò che chiamiamo satori non è altro che fare zazen (Eihei Koroku, sezione IV).

Il modo di essere e di operare dei buddha e dei patriarchi è la via concreta dello zazen. Ju Ching (Tendo Nyojo, il maestro cinese di Dogen) disse: “Sedere nel loto (a gambe incrociate) è l’autentico modo d’essere dei buddha antichi. Chi fa zazen scioglie e abbandona il corpo e lo spirito. Non è necessario fare offerte di incenso, prostrarsi, recitare il nome di buddha, provar rimorso e confessarsi, leggere i testi sacri. Basta zazen per raggiungere la via” (Eihei Koroku, sezione VI).

II patriarca venuto dall’occidente (Bodhidharma, che si recò in Cina dall’India) non si impegnò in varie pratiche, non fece sermoni sui testi e i commentari. Restando nel tempio di Shao-lin fece solo zazen per nove anni rivolto verso il muro. Il semplice sedersi è “la custodia della visione della realtà autentica del meraviglioso cuore della profonda verità”. (Eihei Koroku, sezione IV).

II maestro, l’antico buddha (appellativo con cui Dogen chiama il suo maestro Tendo Nyojo) disse: “Chi fa zazen scioglie e abbandona [si libera di] corpo e spirito. Non è necessario fare offerte di incenso, prostrarsi, recitare il nome di buddha, provar rimorso e confessarsi, leggere i testi sacri”. Negli ultimi quattro, cinque secoli solo il mio maestro ha strappato l’occhio dei Buddha e dei patriarchi e si è seduto all’interno di quell’occhio. Persino in Cina sono pochi i suoi pari. Pochi sono coloro che sanno chiaramente che zazen è la norma di Buddha, e che la norma di Buddha è zazen. Per esempio, benché vi sia chi sa per esperienza che zazen è la norma di Buddha, ora non vi è chi sa che zazen è zazen. A maggior ragione non vi è chi mantiene e preserva la norma di Buddha come norma di Buddha. (Shoboghenzo: Zanmai O Zanmai) (3).

Il mio maestro Sawaki Kodo roshi diceva sempre: «Fare zazen. Questo è tutto». È davvero la stessa cosa che dire: «Aver chiaro che zazen è la norma di Buddha e la norma di Buddha è zazen». Perciò riguardo allo zazen, è del tutto sufficiente fare solo zazen: però dato che noi abbiamo molti dubbi a proposito del fare zazen e che frequente è il caso di uno zazen che non è zazen, da qui in avanti lo scopo delle mie parole sarà quello di spiegare «lo zazen». Ma vi prego di comprendere che la conclusione da trarre da questo libro nel suo insieme è una sola, quella indicata dalle parole di Dogen Zenji che ho appena citato: vale a dire «davvero fare zazen, di fatto».

Note alla traduzione:

2) Shoboghenzo Nehanmyoshin: è un’espressione usata da Dogen più volte nelle sue opere. Shoboghenzo indica il vedere e il preservare l’autentico insegnamento, l’essenza della realtà espressa sotto forma di insegnamento dal Buddha Sakyamuni (ed è anche l’espressione che dà il titolo all’opera maggiore di Dogen); nehanmyoshin è, letteralmente, “il meraviglioso cuore del nirvana”, l’ineffabile fondamento della verità più profonda.

3) Koho Watanabe così traduce questo passo della sezione dello Shoboghenzo intitolata Zanmai O Zanmai (letteralmente: Il samadi re dei samadi = Zazen come valore supremo): «II maestro Tendo Nyojo Zenji (1163-1228) disse: “Queste parole esprimono in modo chiaro e diretto la vera essenza dell’insegnamento iniziato da Sakyamuni, comunicato da una generazione all’altra da persone che seguono effettivamente la direzione della via di Buddha. Inoltre, fra coloro che hanno fatto zazen con atteggiamento devoto, solo il mio maestro negli ultimi quattro o cinquecento anni lo ha assimilato ed espresso nel modo corretto: in Cina pochi sono alla sua altezza. Sono rari coloro che hanno detto esplicitamente a parole, oltre ad averlo realizzato come totalità della propria pratica, che l’atto stesso di fare zazen è la norma di Buddha (il vero modo di essere, la realtà essenziale dell’insegnamento di Shakyamuni) e che la norma di Buddha è fare zazen. Anche se vi è chi sa che la pratica di zazen è la norma di Buddha nella sua interezza, nel momento in cui si sta facendo zazen non vi è alcun bisogno di evocare appositamente la categoria ideale norma di Buddha, e comunque ad averlo detto compiutamente con chiarezza non vi è che il mio maestro. Infatti, zazen non è uno strumento, un metodo graduale per avvicinarsi e raggiungere, far propria la norma di Buddha: l’atto dello zazen è istantaneamente la norma stessa di Buddha. Per cui sono più uniche che rare le persone che hanno chiaro oltre ogni dubbio che l’essenza dell’insegnamento di Buddha è il modo d’essere come sopra esposto, e che lo mettono in atto”».

« La realtà della vita
Aprire le mani del proprio pensiero »

La comunicazione mediale nel buddismo:

Le immagini della realtà e la realtà delle immagini.

Un chilo è pesante o è leggero?

Se qualcuno vuole capire, afferrare che cosa pensano “i buddisti” di una certa cosa (per esempio della storia, del cinema, del ruolo della donna…), o come si comportano rispetto ad una data situazione complessa (l’amore, il sesso, la politica), oppure quale sia il loro approccio cognitivo nei confronti della fede, della religiosità, della filosofia o della psicologia… O che tipo di rapporto abbiano con le altre religioni o che cosa pensino del cristianesimo, occorre contestualizzare.

In pratica bisogna decidere “chi” dovrebbe rispondere e quando: cioè se ci rivolgiamo a un buddista indiano del quarto secolo avanti cristo. A un buddista giapponese dei nostri giorni. A un birmano di mille anni fa. A me, ovvero a un buddista di cultura cattolica, italiana, del XXI secolo. Con ogni probabilità ognuno risponderebbe, in modo estremamente diverso a ciascuna di quelle domande e laddove le risposte combaciassero ben difficilmente si potrebbe farne risalire il motivo alla comune appartenenza religiosa.

Il motivo è molto chiaro: i buddisti non sono una categoria antropologica speciale. Non si può parlare di loro in blocco.

Anche se l’indicazione di base è chiara, e con le parole del Dhammapada la possiamo esprimere con: “Si deve essere rapidi nel bene, dal male si deve ritrarre la mente! Infatti, se un uomo compie il bene in ritardo, la sua mente si diletta nel male”[1] tuttavia, sin dall’antichità, secondo il buddismo bene e male non hanno una collocazione dogmatica. Vi sono momenti mondani che è bene vivere e in altre circostanze -temporali, culturali…- i medesimi comportamenti sono sconsigliati.

A volte mi si chiede se “nel buddismo” vi sia il problema del maschilismo: il buddismo si è diffuso particolarmente nei Paesi dell’Estremo Oriente che da molto tempo hanno una cultura che secondo il punto di vista corrente potremmo dire maschilista. Ora che si sta diffondendo in Occidente penso si possa dire che la media dei buddisti occidentali è meno maschilista della media dei loro colleghi cristiani. Questo perché il buddismo ha preso piede soprattutto nelle aree culturali progressiste della società occidentale.

Così mentre lo guardiamo, ecco che il buddismo scompare, ci appare ri-velato dalla cultura nel quale vive, mai con una fisionomia a sé stante. Sembrerebbe essere un recipiente vuoto.

In un senso è certamente vero che sia un recipiente vuoto, ma se fosse letteralmente così il buddismo sarebbe una tecnica dialettica, una forma di criticismo a 360 gradi oscillante tra lo scetticismo ed il nichilismo.

Il punto focale da cui tutto si origina va identificato nel momento in cui Sakyamuni, diviene il Buddha, il “Risvegliato” oppure “Colui-che-ha-compreso” secondo un’altra scelta traduttiva della parola buddha. Chiariamo che non è un risveglio “da” con il conseguente uscire da tutti i sogni per entrare in una sorta di realtà vera priva di sogni e illusioni, diversa da quella che ciascuno di noi vive. E neppure buddha è “colui che ha compreso qualche cosa”, il contenuto di un pensiero di tipo concettuale o discorsivo o una concatenazione logica: questo sarebbe facilmente enunciabile e definibile proprio perché nel momento in cui “qualcosa” è concepita come pensiero lo è già in una forma riproducibile alla portata di altre menti.

Il primo fatto che occorre notare è che prima, dopo e soprattutto “in quel momento” il Buddha era seduto. Non passeggiava assorto per il bosco, non era concentrato nella lettura di un testo sapienziale.

Quello star seduto è il punto culminante della tradizione precedente, proprio dove questa passa il testimone al futuro: il risveglio avviene all’interno della forma base dello Yoga/Dhyana che poi sarà Chan/Zen/Zazen… ovvero la forma della meditazione seduta.

E questo star seduti non è al modo delle tradizioni che lo avevano prodotto, ossia una tecnica per realizzare qualche cosa: la conoscenza, la libertà dal dolore, la purificazione… ma è già la forma del risveglio.

Sul finire della notte, all’impallidire della Stella del Mattino si compie l’identificazione tra 1) colui che siede, 2) lo star seduti e 3) il risveglio.

Abbiamo accennato alla forma del risveglio, vediamo ora qualche cosa riguardo al “contenuto” intendendo con ciò non tanto il gusto ovvero ciò che non si può trasmettere, dell’esperienza vissuta dal Buddha: quello è scomparso con lui e si rinnova ogni qualvolta qualcuno entra nella via. Ci riferiamo alla sua rappresentazione simbolica, ovvero una narrazione in termini trasmettibili agli altri uomini.

Ricorrendo alla tradizione, su questo punto univoca sia nelle sue articolazioni nazionali che nello sviluppo temporale, a livello di contenuti l’apporto originale del Buddha alla religiosità universale consiste nella completa penetrazione di pratityasamutpada, la visuale del vuoto e dell’impermanenza che da quel vuoto deriva, che è di fatto l’elaborazione dinamica (nel tempo) e articolata (nello spazio) di “anatman”, ovvero la negazione dell’assunto base della religione vedico-bramanica, negazione dell’esistenza di un fondamento, un sé individuale, eterno, immutabile, dotato di vita propria.

In termini simbolici, da pratityasamutpada si origina quella che generalmente viene considerata la cultura buddista: il Cammino di Mezzo, le Quattro Nobili Verità, l’Ottuplice sentiero.

Da essa nascono tutti i sutta del Canone Pali, e poi via via la Madhyamaka o Madhyamika di Nagarjuna, la scuola Yogacara, il tantrismo vajrayana, le scuole cinesi Chan e Tiantai, lo Zen giapponese, vietnamita e coreano.

In tutta la storia del Buddismo solo un altro elemento si aggiunge -meglio: si esplicita- accanto a pratityasamutpada: è l’atteggiamento benevolente, amorevole e sereno, senza scopo né interesse, verso ogni creatura mahakaruna (ahimsa, maitri, mudita) [2].

Così, parafrasando Aryadeva, discepolo di Nagarjuna, l’intero buddismo esprimibile si può riassumere in due elementi: esperienza-consapevolezza del vuoto-impermanenza e amore fraterno.

Assieme al “sedersi nella quiete”[3] del Buddha, questa piccola dotazione è sufficiente a realizzare tutti gli obiettivi gnostici e pragmatici che si propone il buddismo ovvero, nelle parole del Discorso della messa in moto della ruota del dhamma di fornire: «Una via chiara, luminosa ed intelligibile, una via sapiente che conduce alla pace, alla conoscenza, all’illuminazione, al nirvana»[4].

Ma quella stessa piccola attrezzatura si rivela insufficiente a soddisfare l’esigenza di fare, capire, credere, congetturare, venerare che accompagna l’animo umano volto alla conversione.

In tutta la storia del buddismo vi è stata solamente la scuola indiana Yogacara/Vijñanavada[5] nata nel quarto secolo, a farsi carico di parte dell’esigenza di soddisfare l’intelletto dell’uomo di religione. Prima, dopo, altrove rispetto agli espedienti parametafisici proposti da questa scuola, queste funzioni sono state e sono assolte dalle culture religiose ospitanti.

Così ogni buddismo, a seconda della famiglia culturale nel quale viene allevato, sviluppa forme di culto, riti di passaggio, divinità da venerare rappresentazioni di forze spirituali da invocare o fuggire, persino rappresentazioni cifrate della realtà sottile, personale e cosmica.

Tuttavia, come è evidente nelle marcate differenze nel tempo e nelle diverse aree culturali, ogni apparato ed ogni suo componente non è che un aggregato provvisorio, senza alcuna forza vincolante che lo determini come il buddismo: è solo un buddismo e come tale ha una nascita, un periodo di fulgore, l’invecchiamento e la fine.

Mentre la fenice è già rinata altrove, in modo affatto inaspettato.

Anatman/pratityasamutpada, vacuità e impermanenza dicono di un fondo senza fondo così radicale che nessun fenomeno vi può sfuggire, neppure la storia: non sarà mai possibile determinare se il bruco è solo bruco e la farfalla è solo farfalla, ossia con una storia solo individuale o se è il bruco che diventa farfalla; cioè se esiste una storia complessiva. In senso essenziale non c’è né bruco né farfalla e perciò nulla che si possa trasformare, nulla che possa avere una storia autonoma.

Ovvero: proprio perché il bruco non ha un’esistenza in senso ontologico proprio per questo può trasformarsi in farfalla. Così è per la ghianda e la quercia, il bambino e l’adulto.

Torte e ricette. Non confondere la ricetta con la torta

Kukai, il monaco giapponese che nel nono secolo trasmise il buddismo tantrico/vajrayana dalla Cina in Giappone, afferma: «Gli insegnamenti del buddhismo segreto[6] sono tanto profondi da sfidare qualsiasi espressione scritta; soltanto la pittura può rivelarli[7]». Quello che Kukai intendeva dire è che l’estremo limite della comprensione tramite le facoltà umane non si raggiunge attraverso l’uso del pensiero razionale ma è prerogativa di un altro tipo di percezione. Quel tipo di facoltà che esercitiamo quando ascoltiamo musica oppure osserviamo un quadro, una scultura.

L’esigenza di interporre una mediazione nel processo di apprendimento tra parte insegnante e parte discente è ben presente in ogni scuola buddista sin dall’antichità. Tuttavia la situazione complessiva della trasmissione da persona a persona nell’insegnamento buddista è molto diversa da ciò che comunemente si intende con trasmissione del sapere. Per esempio, se noi prendiamo in considerazione una scuola di qualsiasi tipo, il passaggio del sapere da una generazione all’altra avviene attraverso parole che si fanno carico di concetti analogici e numerici, nonché della loro combinazione; penso alla letteratura ed alla matematica per esempio. Si tratta per lo più di questioni che il pensiero umano è solitamente in grado di maneggiare e proporre, come pure di comprendere e poi riprodurre.

Con le opportune istruzioni vengo messo in grado di tradurre il greco antico, distinguere la prosa di Virginia Woolf da quella di Jane Austen oppure apprezzare ed applicare le regole della geometria euclidea. Si può sostenere che tutto ciò di cui si tratta nelle materie insegnate nelle scuole di ogni livello è già sotto forma simbolica prodotta dal pensiero e perciò da questo comprensibile e riproducibile.

Perciò nel caso della trasmissione che avviene in una comune scuola, la possibilità di rappresentare i vari piani di realtà tramite simboli, immagini o parole che riproducono pensieri, permette ad una enorme quantità di sapere di essere trasmessa da una generazione all’altra in forma pensabile; è un pregio, una qualità positiva; infatti viene detta patrimonio intellettuale, culturale ecc.

Invece per ciò che concerne la trasmissione essenziale del buddismo questo tipo di patrimonio può costituire un vero e proprio ostacolo, un’occlusione che impedisce il fatto stesso che si vuole realizzare: il passaggio da una generazione all’altra dell’identità buddista.

La fiaba della verità

Apparentemente il buddismo è la religione che più si presta ad essere rappresentata, dipinta, illustrata. La sua plasticità è tale da essere un vero e proprio invito affinché un artista si misuri con essa. Per esempio nel capitolo VII del Saddharmapundarikasutra, o Sutra del Loto compare una parabola che, come tutte le allegorie di questo sutra pare un vero e proprio abbozzo scenografico: una guida conduce un folto gruppo di persone all’Isola dei Gioielli e sul loro cammino incontrano una grande ed intricata foresta: «Il folto gruppo di persone […] dice: “Maestro, guida, condottiero, noi siamo stanchi, impauriti, ansiosi ed esausti. Torniamo indietro, quest’impervia foresta è troppo lunga”. Ma la guida, abile nei mezzi […] pensa tra sé: “È un peccato che questi infelici non raggiungano la grande Isola dei Gioielli”. Per compassione verso di loro utilizza allora l’abilità nei mezzi salvifici. Nel cuore della foresta […] fa apparire una magica città […] Quei tali, pervasi da meraviglia, sorpresa, stupore, dicono: “Siamo fuori da quella impervia foresta; qui abbiamo ottenuto il nirvana e vi rimarremo”. […] In seguito sapendoli riposati, la guida fa sparire la magica città e dice loro: “Venite signori, la grande Isola dei Gioielli è vicina. Io ho fatto apparire questa città per darvi un poco di riposo»[8].

Fuor di metafora qui si dice che ogni discorso, ogni ragionamento che abbia per oggetto il buddismo è una piccola grande magia, destinata ad essere svelata, superata al passo successivo: l’Isola dei Gioielli è il passo successivo che quando sarà nel presente sarà la “magica città” che nel fare un altro passo scomparirà divenendo passato. Proprio questo, che è l’atto di considerare reale e, insieme, fondamentalmente illusorio il mondo nel quale siamo immersi è il fare dei buddisti: affinché sia reale non ne costruiamo fantasie.

Lasciando scorrere senza aggrapparci ci armonizziamo alla sua impermanenza, illusorietà.

Raffigurare vuoto

Nel buddismo l’esigenza di mantenere un medium tra l’oggetto del discorso e l’ascoltatore non è realizzata solo tramite la letteratura, si riproduce anche nelle altre arti. L’arte figurativa buddista si è evoluta, a partire dal V secolo avanti Cristo, seguendo diverse fasi che partono dai monumenti funerari e passano poi attraverso la rappresentazione della Comunità Universale che ascolta l’insegnamento del Buddha.

Inizialmente però questi non è raffigurato, in sua vece viene lasciato un posto vuoto al centro, attorniato da semidei, re, santi discepoli, animali e spiriti. In questo caso il simbolo è il vuoto rappresentato come tale: simbolo inafferrabile per un messaggio che è “non afferrare”[9].

In altri casi, al posto centrale invece di un vuoto vi è un segno che rimanda alla vicenda della biografia iconografica del Buddha: l’albero di ficus religiosa seduto sotto il quale si dice che Sakyamuni sia giunto al risveglio; oppure la ruota del dharma, il cui avvio è l’inizio della trasmissione agli uomini della nostra era dell’insegnamento universale…

Nel Gandhara, l’influenza ellenica successiva alla conquista di Alessandro e dei regni indo greci succedutisi dal IV secolo a.C. al I secolo d.C., portò alle prime raffigurazioni umane del Buddha: un indiano nella postura, negli abiti e nell’acconciatura ma con le fattezze del dio Apollo.

Però, a partire dal II secolo a.C. si era compiuto il processo di spersonalizzazione della figura fisica del Buddha: quelle statue -più tardi i dipinti che raffiguravano per lo più una persona seduta a gambe incrociate- non erano ritratti del signor Sakyamuni, ma erano un tentativo di rappresentare la realtà della via di salvezza con fattezze umane.

Anche in quel tipo di arte quindi, ciò che è raffigurato non è il vero soggetto, che resta sì evocato ma va percepito senza immaginarlo, senza costruirne un’immagine privata. Che sarebbe un idolo.

L’arte di non raffigurare

L’esigenza di non dare forma col nostro pensiero immaginativo al “vero soggetto” la ritroviamo anche quando prendiamo in considerazione il significato di “fede”.

Nel buddismo aver fede significa non dare alcuna forma costruita da noi all’oggetto della nostra fede. Altrimenti il nostro credere sarebbe diretto ad un idolo da noi stessi fabbricato. La vera fede nel buddismo è vuota, priva di immaginazioni. Però crediamo ugualmente.

Ecco, nel meccanismo attivato dal linguaggio intenzionale si sviluppa un processo analogo: il simbolo (sia esso il vuoto, una forma, una metafora) ci avverte che si sta parlando d’altro; a quel punto, come nel credere senza oggetto, lasciamo che lo spirito si espanda libero e privo di contenuto, privo di oggetto. Oppure: senza assumere alcuna forma.

Comprendiamo meglio l’importanza decisiva di questa operazione, all’apparenza inutile e oziosa, se consideriamo che l’insegnamento buddista è volto ad innescare un processo, un movimento spirituale, non ad impossessarci di un’immagine o di un qualche tipo di conoscenza.

Quando il buddismo entrò in Cina, a partire dal I secolo della nostra era, trovò ad accoglierlo una cultura religiosa e filosofica estremamente sviluppata, profonda, ampia e orgogliosa.

Anche in quell’antica cultura si parlava di “vuoto”. Il senso però era sottilmente e profondamente differente dall’omologo termine buddista. Nel daoismo di Zhuangzi e Laozi e poi in quello dello Studio del mistero, il vuoto è il non ancora manifesto, l’apice di potenzialità “prima” che il fenomeno venga in essere. Ossia per gli antichi cinesi il vuoto era il massimo del pieno.

Fu la forza dell’insegnamento base del Buddha sull’impermanenza -rivisitato secondo Nagarjuna che pone (o ri-pone) il vuoto al centro della scena- ciò che permise al buddismo di smarcarsi dal daoismo, evitando di esserne fagocitato. Nagarjuna, il monaco indiano del secondo secolo riconosciuto come sommo da tutte le scuole buddiste, insegnò il vuoto inteso come qualità della manifestazione, la qualità fondamentale di ogni esistenza fenomenica, non come condizione previa alla manifestazione del fenomeno.

Quando i monaci buddisti cinesi nell’ottavo secolo vollero rappresentare quello che in mancanza di un termine migliore potremmo chiamare il “vuoto sotteso all’impermanenza del reale” naturalmente si mossero all’interno del canone estetico cinese, usando le forme e le atmosfere che già caratterizzavano le rappresentazioni degli eremiti del Dao. Ma vi aggiunsero, se così si può dire, l’espressione del vuoto e della volatilità di ogni esistenza. Questo diviene vero soggetto di quei dipinti a china, nei quali brandelli di panorama, un ciuffo d’erba, un sasso, un fiore fungono da contrappeso per evidenziare ancor di più la quantità di vuoto che copre quasi per intero la tela, e contemporaneamente sono irridenti testimoni del mistero di un intero cosmo che vive, nasce muore e cambia continuamente in ogni sua più piccola molecola senza alcun fondamento che lo sostenga: spazio nello spazio, nel tempo senza tempo. Il sasso, il ciuffo d’erba, l’uccello in volo sono allusioni ad una qualità del fenomeno, incongruente eppur vitale.

Nel tredicesimo secolo quell’arte fu introdotta in Giappone dove trovò una sensibilità ed un terreno adatti per essere apprezzata ed elaborata per quasi tre secoli. Tuttavia, col passare del tempo, quel sasso, la rana sul punto di saltare, il drago che occhieggia dal fondo di un anfratto cessarono di essere i “marcatori” di qualche cosa d’altro, divennero il vero soggetto: nacque il manierismo. Quasi altrettanto bello, ma muto, in qualche modo privo di vita profonda.

Seguire le indicazioni

Perciò ogni forma di rappresentazione mediale originatasi nel buddismo necessita da parte dei suoi autori (e possibilmente anche da parte degli interpreti) di una lunga pratica e studio e sequela per poter essere realmente espressione di un’esperienza originale: sebbene le parole scritte o parlate dei buddisti non siano altro che “un dito che indica la luna”, qualora il dito indichi una direzione errata esso non può neppure svolgere la sua funzione mediale. L’indicazione è data anche dalla qualità del dito.

Poi deve poter dire alludendo, senza che ciò che è rappresentato sia mai afferrabile in quanto “contenuto” perché l’opera è esplicitamente un velo, una metafora. Contemporaneamente deve poggiare sulla consapevolezza che non vi è alcun messaggio, comunicazione, soggetto autenticamente buddista: chi pensa di sapere che cos’è il buddismo è il meno adatto per comunicarlo.

Essendo il buddismo il fatto religioso –o più semplicemente “quello che i buddisti fanno”- raccontarlo correttamente significa negare al racconto stesso -ma anche all’immaginazione che nasce dal racconto- la possibilità di sostituirsi al “vero soggetto”. Quello che dico non è il buddismo, è il racconto mio personale del buddismo…

Finalmente al cinema

Per questo nel rappresentare il buddismo, particolarmente per mezzo del cinema, è molto difficile mantenersi lontani dal manierismo, in ogni sua forma. Dico “particolarmente per mezzo del cinema” perché, assieme alla televisione, il cinema è una forma di comunicazione che, nell’immersione/identificazione che induce, fa apparire le cose narrate, ovvero la finzione, come se fossero ciò da cui la narrazione è nata. In questo caso l’opera di mistificazione è potentissima: basta mettere assieme una piccola statua del buddha con accanto un fiore scarlatto, un indiano immobile e smagrito, coperto da una veste ocra in una capanna nella foresta, seduto a gambe incrociate ed ecco che il buddismo è ascesi solitaria. Oppure: sarebbe magnificamente scenografica la rappresentazione del Buddha sul Picco dell’Avvoltoio, a lungo immobile in silenzio davanti ad una grande folla in attesa, poi con un gesto della mano accenna verso un fiore di campo davanti a lui e Mahakasyapa con un leggerissimo sorriso mostra di aver capito… ed ecco che il buddismo è la trasmissione di una sapienza misteriosa ed ineffabile. Oppure: si rappresenta un monastero cinese con monaci atletici avvolti in ampie vesti gialle che compiono salti mirabolanti ed ecco che il buddismo “è” le arti marziali. Oppure: in una casa, circondata da un piccolo giardino muscoso, una donna dai tratti orientali è devotamente assorta, prega inginocchiata davanti ad un immagine di Kannon-Avalokitesvara, così simile ad una statuetta di Maria da essere difficilmente distinguibile: ecco che il buddismo è devozione all’immagine della compassione. Identico discorso possiamo fare sulla storia di un bambino tibetano riconosciuto adatto, qualificato per essere istruito come lama o riguardo alla rappresentazione del rigore della vita monastica in una comunità birmana che vive del cibo raccolto nella questua, consumando un solo pasto al giorno.

Il buddismo vive in molte forme e ciascuna può dire di essere il buddismo ma non lo può rappresentare in toto. Se tentiamo di raffigurarlo in uno di quei modi il nostro messaggio diviene uno stereotipo: dipingeremo una rana avendo come soggetto una stupida rana, non il mistero della vita.

Negli Udana, antichissime narrazioni del Canone Pali, vi è la storia raccontata dal Buddha[10] su coloro che, non vedenti dalla nascita, per la prima volta si avvicinano ad un elefante ed a seconda della parte dell’animale che toccano descrivono l’elefante come una colonna, uno scacciamosche, una liana. Siccome è inevitabile trovarsi sempre in questo caso, ovvero rappresentare una piccola parte del grande articolato buddista, è indispensabile la volontà di palesare la marginalità del proprio discorso, affinché non venga visto, creduto come rappresentativo del tutto.

Il dolore

Tutti questi distinguo, queste avvertenze e cautele danno conto del perché nella società moderna siano relativamente scarse le opere narrative o filmografiche nate dal buddismo. Non penso ai film commerciali in stile hollywoodiano, nati e proposti senza alcuna pretesa religiosa.

Mi riferisco a opere di narrativa, poesie, film, teatri che tentino fondatamente di far parlare il buddismo. Opere agiografico/edificanti a parte, penso si possa dire la stessa cosa del cristianesimo: per esempio le lettere di Paolo a volte hanno anche una struttura narrativa, ma sono molto difficili da “riprodurre” in un racconto, in un film o in un teatro. Infatti, per quello che mi consta, in duemila anni nessuno ci ha ancora provato.

Un film che volesse essere autenticante cristiano o che volesse dire il cristianesimo a chi non lo conosce incontrerebbe quasi le stesse difficoltà di un suo confratello buddista: dico “quasi” perché il buddismo non è una religione del Libro, non ha una trama pronta e da tutti accettata.

Per terminare

Fondamentalmente “il Buddha non ha detto neppure una parola”, questo significa che nulla di ciò che ha detto può essere inteso in modo dogmatico, come fosse una legge da non trasgredire. Il punto di partenza della sua predicazione[11] che nasce, lo ripetiamo, dal risveglio descritto come pratityasamutpada è la constatazione che la nascita è dolore, la malattia è dolore, la vecchiaia è dolore, la morte è dolore, il non raggiungere ciò che vorremmo è dolore, l’essere costretti a convivere con ciò che non amiamo è dolore.

La sua testimonianza fu:che esiste una causa del dolore, che il dolore può essere vinto, che esiste una via che conduce alla fine del dolore. Che questa via è la via mediana, così detta perché non si aggrappa a nessuna teoria, a nessuna affermazione a nessuna negazione. Che nella vita di ogni giorno la via mediana si manifesta con naturalezza, inconsapevolmente come retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di sostentamento, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione.

Dedicò 45 anni della sua vita alla testimonianza nei fatti, giorno per giorno, della realtà della “via che conduce alla fine del dolore”. In questo tempo lunghissimo ebbe modo di condividere la vita e la via con due, tre generazioni di discepoli, suoi compagni di cammino. A chi gli chiedeva consiglio su come questa via vada percorsa rispondeva secondo circostanza. Ogni sua risposta era diretta ad una certa persona in quel momento in quella situazione: se noi prendessimo le sue risposte come indicazioni generali, avulse dalla vita del momento che le aveva generate compieremmo un tradimento.

Allo stesso modo sarebbe un inganno rappresentare “il buddismo” attraverso una o più delle sue manifestazioni nel tempo e nelle culture: ognuna è la risposta che quegli uomini in quel luogo, in quel tempo hanno dato, danno con la loro vita all’invito a percorrere la via che conduce alla fine del dolore.

mym

[1] Dhammapada 9.1 (116).

[2] Cfr. M.Y.M. Il Buddismo mahayana attraverso i luoghi i tempi e le culture, 99. (D’ora in poi : Vol. I)

[3]Dhyana (s.) “assorbimento nel silenzio e nella pace” che in p. è jhana, in cinese fu traslitterato chanding e channa poi chan, in giapponese zenna e zen, in coreano son. Samatha “quieto dimorare” (da sama “calma, quiete” e tha “dimorare, riposare, fermarsi”), samadhi “completezza profonda” (da sam “con, assieme, unione” e adhi “unire, mettere assieme”.

[4] Cfr. M.Y.M. Vol. I, 95 ss.

[5] Ivi, 207 ss.

[6] “Buddismo segreto” è una traduzione di mikkyo, uno dei termini giapponesi con cui si designa il buddismo esoterico, di scuola tantrica o vajrayana.

[7] Cfr. P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano 2003, 579.

[8] Cfr. Luciana Meazza, a c. di, Sutra del Loto, BUR, Milano 2001, 193 s.

[9] Nekkhamma in pali, naiskramya in sanscrito.

[10] Cfr. Udana 6.4.

[11] Cfr.Dhammacakkapavattanasutta, o Discorso della messa in movimento della ruota del dhamma, e Saccavibhangasutta, o Discorso della esposizione dettagliata delle verità.

Approfondimenti

* Arthur Schopenhauer, Sulla religione [estratti dai Parerga e Paralipòmena, cioè “opere collaterali”], trad. Alessandro Miliotti, Piano B edizioni, Prato 2009, pagg. 102, euro12
Picchia giù duro contro la religione, Schopenhauer, tanto per sfatare il pregiudizio ideologico che lo vede come un misticoide reazionario. La carica rivoluzionaria della sua filosofia l’aveva invece giustamente difesa Nietzsche. Su un tema così delicato è difficile dire se “si consiglia la lettura” di questo libro o no. Certo vale la pena leggerlo per apprezzare l’intelligenza dell’autore che già un secolo e mezzo fa, nel valutare i pro e i contro dell’esistenza delle religioni, in particolare il cristianesimo, mette sul tavolo una serie di problemi che fanno discutere ancora oggi. Ad esempio:

– Le religioni contribuiscono al bene della società o la danneggiano?
– Fondano l’etica o la affondano?
– Promuovono o inibiscono la conoscenza?
– Fede e potere: un’alleanza sacra, di convenienza…?
– I monoteismi sono intrinsecamente violenti?
– C’è un’analogia tra il messaggio di Cristo e le religioni orientali, induismo, buddismo?
– Creazione, o l’uomo discende dalla scimmia?
– La religione ha i giorni contati?
– Il cristianesimo è colpevole della strage di specie animali?
– Qual è stato il messaggio di Lutero? (Nel 2017 si celebra il cinquecentenario della Riforma)
– La teologia aggiornata (noi diremmo: il Concilio Vaticano II) sta “annacquando” e “svendendo” il Vangelo?

(A cura di dhr)

* Bikku Satori Bhante, Shintoismo, Rizzoli, Milano, 1997.
Un testo molto interessante anche se purtroppo pieno di refusi editoriali e con qualche errore nelle didascalie. Dà conto della complessità dello sviluppo dello Shintō nei secoli e contemporaneamente offre uno spaccato della storia religiosa del Giappone come non ho trovato in nessun altro libro occidentale. È l’unico libro, tra quelli a me noti, in cui si parla correttamente di buddismo-confucianesimo a proposito della mistura che, penetrata in Giappone, è spesso considerata buddismo tout court. Inoltre questo libro aggiunge una nuova consapevolezza, una nuova luce dal momento che mostra come in quello che ho già descritto come un intreccio di culture formatosi nei secoli, ad un certo punto si sia aggiunto anche lo shintoismo, complicando ancor più le cose.

* A c. di Sironi, Vijñānabhairava. La conoscenza del tremendo (prefazione di Gnoli), Adelphi, Milano, 1989.
Essendo un testo vishnuita apparentemente è un intruso in questo elenco. Tuttavia l’ho inserito ugualmente perché è un libro di tantra e, nella prefazione è un libro sul tantra. Ora sebbene si tratti di tantra vishnuita (ovvero non sia un libro buddista) essendo il tantra un sistema in qualche modo uguale a sé stesso sia quando lo si applichi all’induismo shivaita o vishnuita sia quando lo si applichi al buddismo, è a mio parere molto utile vedere il funzionamento di questo sistema anche all’interno di un’altra tradizione religiosa. La prefazione del Gnoli, in particolare, è ottima anche nel descrivere la genesi delle dottrine tantriche.

* G.Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, 2005.
I presocratici, questi sconosciuti. In definitiva, esistono due modi di base per affrontare il loro pensiero. O li si descrive come degli scimmioni che in modo abbastanza goffo tentavano di accozzare qualche idea a proposito del mondo; e questa è la chiave di lettura adottata da Aristotele, quindi da Hegel e ancora adesso, in genere, dai libri di testo per la scuola. Oppure si afferma che, semmai, è stato Aristotele a non capire niente, o a fabbricare false prove contro i suoi predecessori, i quali avevano una filosofia infinitamente più sviluppata della sua. E questa è la posizione di Giovanni Semerano nel suo L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, 2005.
Un saggio che rappresenta il canto del cigno del grande filologo, scomparso anzianissimo proprio nel 2005; quarant’anni di studi raccolti in forma compatta, affascinante e toscanamente sferzante. L’equivoco a cui si riferisce il titolo riguarda il termine greco apeiron, di solito tradotto con “illimitato” o appunto “infinito”, e da Platone in poi è sicuramente così… ma prima? C’è infatti una famosa sentenza di Anassimandro che, nelle usuali versioni, suona: “Tutto nasce dall’infinito e torna all’infinito”, dando la stura agli sberleffi o all’ammirazione mistica degli studiosi. Ma, lingue mesopotamiche alla mano, Semerano dimostra che il significato originario del termine anche in Ionia era “polvere”, per cui Anassimandro veniva a formulare la semplice verità: tutto nasce dalla polvere e alla polvere ritorna.
Tutto qui? Anzi, addirittura “tutto qui”. Perché, reinterpretato a partire da questa chiarificazione terminologica, il pensiero frammentario di Anassimandro, snobbato dai “grandi”, si rivela come una lucida riflessione sulla condizione umana e sulle leggi dell’universo. Molto più significativa di tanta fuffa dei secoli e millenni successivi.
Semerano, grazie al cielo, non è un filologo di quelli con le ragnatele indosso ma di quelli con il martello, come Nietzsche, e con il vantaggio di possedere una serenità mentale che Nietzsche non poteva neanche immaginare. Questo libro è probabilmente uno dei più formidabili saggi sulla cultura greca antica, pieno di folgoranti rivelazioni quanto La nascita della tragedia. Semerano non si limita affatto a collegare infinite parole greche a infinite radici sumeriche o accadiche, ma, armato delle proprie scoperte, rilegge non solo la filosofia dei presocratici ma l’intera storia della civiltà occidentale. Così, miti arcinoti assumono un colore diverso che ce li fa ammirare come fossero nuovi splendenti, e personaggi che credevamo arcinoti, tipo Eraclito, diventano quasi eroi da romanzo, che ti inchiodano alla lettura pagina dopo pagina. A proposito, sottolinea Semerano: solo chi del pensiero di Eraclito non aveva la più pallida idea poteva permettersi di bollarlo come “l’oscuro”.
Dalla Grecia antica l’autore prende l’abbrivio per riflessioni, a volte articolate, a volte sotto forma di lampi, sulla filosofia in generale, la letteratura, la scienza. Incantevoli, in particolare, le riprese di tanti versi di Dante. E poi avanti, fino alla fisica di Einstein e oltre, alla teoria astronomica delle “corde a dieci dimensioni”.
Una filologia militante, che a partire da Anassimandro si introduce nell’ironia di Senofane e di lì negli aforismi di Eraclito, e trova il suo culmine nella filosofia di Parmenide, considerato il vertice assoluto del pensiero, umiliando Platone e Aristotele. Con doverosi omaggi a Emanuele Severino, il quale in quarta di copertina si scappella e restituisce la cortesia (“I libri di Semerano sono una festa dell’intelligenza”).
Questo “infinito in polvere”, con la sua impermanenza e la sua inafferrabilità, strizza a volte l’occhiolino alla visione buddista delle cose. Però Semerano non si sbilancia mai con paralleli forzati, e Shakyamuni compare solo per qualche fuggevole cenno.
Ogni tanto viene da fare qualche piccola pulce. La celebrazione dell’universo “parmenideo” si basa infatti sull’adozione di un pensiero, quello di Parmenide, sulla cui autenticità non è facile mettere la mano sul fuoco; lo ha rilevato criticamente Salvatore Natoli proprio a proposito della filosofia di Severino. A me sembra che la filosofia – non solo filologia – di Semerano potrebbe in modo pertinente appoggiarsi a quella di Baruch Spinoza. E qui, il busillis: Spinoza viene citato solo a pag. 158, attribuendogli una frase che dice l’opposto di quanto ci si aspetterebbe: “La visione del mondo sub specie aeterni è la visione di esso come un tutto-limitato”, N.B. limitato. In nota, come fonte della citazione viene indicato “Tractatus 6, 45”. Ora, al capitolo 6 del Trattato teologico-politico di Spinoza, che si occupa di tutt’altro (la polemica contro i miracoli), la frase non compare, né si capisce a che si riferisca il numero 45. Oh l’è bellina codesta, oh mica si sarà fatta confusione con il Tractatus di Wittgenstein?! (1)
Un altro punto che lascia un minimo perplessi è l’etimologia dei termini “Dio” e “Zeus”. Secondo Semerano, Dio deriva dall’accadico di’u, pietra sacra (pag. 40); Zeus proverrebbe invece dall’accadico zinu, pioggia (pag. 74). In questo modo però si stacca la parola Zeus dalla parola Dio, eppure lo stesso autore ricorda che il genitivo di Zeus è Dios (pag. 130); perfino il “Dio” iniziale di Dioniso deriva da di’u (pagg. 136-136), e allora perché Zeus no? Difficile raccapezzarsi.
Infine, qualche slabbratura nella visione del cosmo proposta da Semerano sulla scorta di Parmenide. A pag. 212, il nostro autore crea un parallelo da brivido, in senso positivo, tra la celebre “sfera” di Parmenide e l’universo di Newton, il quale prevede “un osservatore onnipresente e unico che può scorgere nella loro contemporaneità tutti gli eventi del mondo, nella loro distanza spazio-temporale, in un tempo assoluto che scorre uniforme”. A pag. 224, tuttavia, pone i due pensatori su fronti opposti: “Parmenide non avrebbe potuto concepire un tempo assoluto”.
Frammenti, frammenti infiniti. Pulviscolo di nomi, di particelle, di polvere, da cui proveniamo e a cui torniamo. In mezzo a questo pulviscolo, ecco quello luccicante prodotto dal martello di Giovanni Semerano. Anche lui, come tutto, destinato ad accendere qualche bagliore per poi reinabissarsi. Ma averne tanti, di questi bagliori!
(1) La citazione è effettivamente dal Tractatus di Wittgenstein, esito a pensare però ad un errore di Semerano: o è uno stranissimo refuso oppure non escludo che l’Autore abbia voluto lasciarci un piccolo enigma. mym

(A cura di Dario Rivarossa)

* Chaim Cohn, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, Giulio Einaudi, Torino 2000.
Il testo di Chaim Cohn è un testo di Fede. Mi spiego: esso provoca lo svuotamento di tutte quelle sovrastrutture che si costituiscono quando l’individuo si pone in relazione con l’Assoluto. Quali sono queste sovrastrutture? A mio parere una, forse la principale, è la storia: il credente sente l’esigenza dell’appoggio della storia, di sapere che quello che si legge – in questo caso nei Vangeli- sia davvero accaduto e proprio in quel modo. Ed è proprio qui che interviene questo testo: e se tutto ciò non fosse mai accaduto in quel modo? Un uomo di fede cesserebbe d’essere tale? Non ho l’autorità di rispondere, anche perché la risposta andrebbe proprio nella direzione opposta a ciò che voglio dire. Una risposta sarebbe un’altra sovrastruttura, un’altra garanzia, un altro supporto per la nostra Fede. Cristo invita a lasciare tutto e seguirlo, in questo tutto c’è anche la storia. Questo testo fa chiarezza sulla vicenda del processo a Gesù per tutti coloro che si ritengono uomini di fede. L’autore è un ebreo e può dare un angolatura originale all’analisi; esso rivela che determinati eventi, che sono narrati nei Vangeli, non possono essere accaduti. Gesù era un ebreo, amato dagli ebrei, questa è la tesi che l’autore vuole dimostrare. E infatti il testo è ricco di note e rinvii al testi Sacri. Un’ altra domanda, fra le tante, che nasce dalla lettura di questo testo è: che esigenza abbiamo di rapportarci alla figura di Giuda? Che significato ha? L’autore dà sull’argomento delle risposte particolarmente interessanti. Lo stesso vale per altre figure, come Pilato; queste due figure hanno a tal punto influenzato la nostra cultura da essere diventati “modi di dire”. Con Giuda vogliamo dire traditore; con Pilato, vogliamo indicare l’ atteggiamento di chi non vuole prendere una posizione e “se ne lava le mani”. L’autore dimostra come queste figure non possono aver fatto quelle cose in quel determinato modo. Ed in questo continuo smantellamento delle nostre sovrastrutture che il testo alla fine si rivela fastidioso, come un tafano, insetto, che grazie a Socrate, ha acquistato un valore simbolico.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Michele Aramini, Bioetica e Buddhismo, Ed. Paoline, 2007.
Che succede se due realtà enormi si incontrano? O che nasce un’aquila bicipite, o che si fa una frittata. Pare purtroppo questo il caso del libro Bioetica e religioni, di Michele Aramini dell’Università Cattolica di Milano (edito da Paoline, 2007, pagg. 178, euro 11). Aramini è un esperto di bioetica, e la Cattolica non è l’ultimo buco dell’universo didattico; e tuttavia…
Lo scrivente non ha nessuna autorità per decidere che cosa è buddista e cosa no, quindi mi limiterò poco più che a selezionare alcuni testi esemplificativi.
Per introdurre il tema “Bioetica e Buddhismo” (pagg. 105-112), l’autore parte da un capitoletto dal titolo impegnativo: “La concezione buddhista della vita”. E vede subito l’impasse: “Non è facile offrire in pochi tratti un quadro esauriente della dottrina contenuta nell’enorme massa della letteratura nata alla scuola del Buddha”. Del resto, con quali fonti? A naso, a giudicare dai nomi indicati in nota, tutti studiosi cristiani o perlomeno di formazione occidentale: P. Desai, D. Keown, e soprattutto J. Martin, autore del saggio Il Buddismo e il diritto al rispetto della persona di fronte ai rischi legati al progresso delle biotecnologie.
L’autore introduce quindi il discorso in modo sostanzialmente onesto: “Nella sua vita Buddha insegnò una sola cosa: come riconoscere la sofferenza per liberarsene. Ciò che noi chiamiamo Buddhismo è la via spirituale che egli ha insegnato con la sua dottrina” (pag. 105). In altri casi, il tentativo di esplicitare dà adito a espressioni imprecise (“illuminazione” è termine spurio per “risveglio”) e dualistiche (la pratica non ha uno scopo esterno ad essa): p.es. lo scopo delle pratiche buddiste sarebbe “trasformare l’uomo illuminandolo e pacificandone lo spirito, ed eliminando gradualmente le tendenze negative che scaturiscono dal credere in un io permanente e sostanziale” (pag. 107). Più si vuole specificare, più ci si impegola: “Il sistema di pensiero buddhista è privo di dogmi. La dottrina buddhista si può comparare, secondo una notissima metafora, a una nave che si usa per passare da una riva all’altra, ovvero dalla confusione alla lucidità trascendente, e che va abbandonata all’arrivo” (pag. 107).
Nel frattempo vengono attribuite a un generico e universale “Buddhismo” affermazioni tratte da chissà quale scuola, anche se mai si fa cenno all’esistenza di scuole diverse. Mischiando il tutto con concetti occidentali, ne derivano effetti grotteschi. Per esempio: “Nella concezione buddhista dell’esistenza, è la qualità dello spirito che determina le esperienze felici o dolorose, e che determina il periodo trascorso dagli esseri in uno dei sei piani che caratterizzano i cicli della vita” (pag. 105). Fino – almeno per me – all’incomprensibile: l’etica buddista “non ha alcun valore in sé; è parte integrante della triade fondamentale del cammino spirituale: etica o disciplina morale, meditazione o concentrazione, saggezza che ne è il fondamento” (pag. 107). L’etica non ha valore solo quando è realizzata in modo naturale, spontaneo ossia quando abbonda senza affettazione: questo è il vero senso di “abbandonare la nave”.
Il discorso sulla Via Media diventa: “La ricerca dell’illuminazione prende la via spirituale descritta da Buddha, una via di giustizia e di equilibrio, di saggezza e di compassione, che raccomanda di evitare comportamenti estremi, quali il dar libero sfogo ai desideri sessuali, da una parte, o l’ascetismo austero, dall’altra” (pagg. 106-107). Si banalizza il concetto di “media”, che invece indica “in mezzo” nel senso di “né l’uno né l’altro”.
Con queste premesse, si vanno a illustrare i vari temi della bioetica. “La posizione del Buddhismo di fronte ai problemi legati alle biotecnologie” viene spiegata a partire dall’assunto: “La biologia dimostra che un embrione è il risultato della fusione dello sperma con l’ovulo, ma il Buddhismo postula che, oltre a questi due elementi, ne è necessario un terzo per la vita, ovvero il continuum della coscienza… I testi riportano così le parole di Buddha”, segue una citazione dal Suttapitaka del canone pali: “O monaci, quando i tre elementi si trovano in combinazione, viene piantato un seme della vita…” (pagg. 109-110). In realtà non serve “un terzo” per la vita: è necessario e sufficiente che i gameti siano vivi.
Senza affastellare troppe citazioni, arriviamo alle “Indicazioni specifiche sui temi bioetici” (pagg. 111-112). Dove si legge, tra l’altro: “Sterilizzazione. Tutto ciò che modifica in modo irreversibile il corpo umano, va evitato. Quindi, per non incorrere nel problema dell’irreversibilità, si deve rifiutare la sterilizzazione”. Strano – tra l’altro – che si adombrino modificazioni reversibili di qualche tipo, a maggior ragione del corpo umano: il vecchio non tornerà mai ad essere bambino.
E per finire, una chicca: “Contraccezione. La contraccezione è accettata. L’uso del preservativo è il metodo preferito”.

(A cura di Dario Rivarossa, col contributo di MYM)

* Henri J.M. Nouwen (1), L’abbraccio benedicente, meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Ed. Queriniana, pagg. 216, Euro 11,36.

Un abbraccio che benedice, un perdono che salva. Questo potrebbe essere un sottotitolo di questo libro. Un testo che si presenta come un viaggio, viaggio che l’autore compie attraverso un icona: “il figliol prodigo” del pittore Rembrant .In alcuni passaggi forse si avverte un eccesso di protagonismo, tuttavia la lettura è resa piacevole da uno stile cordiale e nello stesso tempo stimolante. Nel testo si affronta il tema del perdono e lo si fa attraverso l’analisi minuziosa delle tre figure centrali del quadro e della parabola: il padre e i due figli.Ognuno di essi è un simbolo, un icona che dischiude universi di significati totalmente altri.
L’autore s’immedesima in tutte le figure della parabola rappresentata su tela. C’invita a riflettere su quante volte nella nostra vita siamo come il figlio che getta via tutto e si perde ma che infine trova il coraggio di tornare indietro per chiedere perdono.
Quante volte , invece, siamo il figlio invidioso, che non capisce perché all’altro venga dato di più che a noi, che siamo sempre stati corretti e ligi alle regole.
Questo viaggio si conclude con la figura del padre; l’autore ne descrive i tratti, che il pittore olandese, con grande bravura rappresenta. Raramente si può essere come il padre, perché questa figura è in sé salvifica e implica una forte presa di responsabilità: richiede la forza di perdonare.
(1) Henri J.M. Nouwen (1932-1996) è uno dei più grandi autori spirituali del nostro tempo. Dopo aver insegnato nelle Università statunitensi di Notre Dame, Harvard e Yale, ha dedicato gli ultimi anni di vita agli handicappati mentali di una comunità presso Toronto, in Canada. Tra i suoi libri più noti, presso l’Editrice Queriniana: Sentirsi amati. La vita spirituale in un mondo secolare; L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Ishmael Beah, Memoria di un bambino soldato, Neri Pozza, 2007, Pagg. 256, Euro 15,50.
Bambino soldato, un’aporia e una vergogna del nostro tempo. S. Agostino, analizzando il tema della memoria nella sua opera “Le confessioni”, si chiedeva quali fossero i limiti di questa facoltà, quali i suoi scopi e poteri. Ancora oggi non possiamo dare una risposta esaustiva alle domande del santo. Però, sul suo potere e sul suo significato possiamo continuare a riflettere e il testo di Ismael ci fa proprio compiere questo viaggio. Un uomo racconta la sua esperienza: non si tratta di leggere un’avvincente autobiografia, fatta di vittorie e sconfitte, ma è il racconto della sua infanzia. Come il titolo mette in luce è l’infanzia di un bambino soldato. Lo stile con cui è scritto è molto narrativo: le parole, le frasi, scivolano in modo piacevole; tuttavia, se ci si ferma sul testo le sensazioni cambiano e le riflessioni si fanno oscure. Ci sono pagine dure, dove si racconta di bambini che uccidono uomini, di uomini che insegnano ad uccidere a dei bambini. Bambini costretti a torturare, plagiati dall’odio che li circonda. Lo ritengo un testo profondamente religioso, perché sono presenti temi come il male, la salvezza, il perdono, l’esistenza e la sopravvivenza. Perdonare questi bambini del male che hanno fatto, cercare di far riconciliare questi ragazzi con se stessi è uno dei temi centrali del testo. L’autore racconta la sua riabilitazione e qui ci dà degli scorci su dei personaggi davvero straordinari; una delle frasi più ricorrenti che i responsabili del centro riabilitativo ripetevano era: “non è stata colpa tua”. Alcuni hanno trovato la via della propria salvezza partendo proprio da questo perdono incondizionato che gli veniva donato dall’esterno; non tutti, però… Il testo è un monito: se lasciamo questi ragazzi con il proprio male non ci sarà per loro altra via che il male.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Ricordo che esiste, ad opera del grande studioso indiano Sarvepalli Radhakrishnan il testo in due volumi, edito dalla Ashram Vidya La Filosofia Indiana, un’opera ottima sotto tutti i punti di vista, in cui le varie scuole di pensiero buddista dell’India sono minuziosamente rappresentate, come pure, e questo è importante, anche la parte di pensiero indiano che ha preceduto di secoli la nascita del buddismo.

* Dizionario di Buddhismo, a cura di Philippe Cornu, Bruno Mondadori, Milano 2003.
È corredato da ben cinque glossari (sanscrito, pali, tibetano, cinese e giapponese). L’unico difetto che ho trovato, è la limitatezza della bibliografia. Un collaboratore di Cornu mi ha riferito che è in (lenta) preparazione una nuova edizione che include anche le scritture nei caratteri cinesi e giapponesi: nell’edizione ora disponibile le parole giapponesi e cinesi compaiono solo nelle traslitterazioni Hepburn e Pinyin. Cornu è uno studioso partecipe della tradizione Vajrayāna per cui il taglio, l’inclinazione delle visuali da lui espresse -lo si percepisce chiaramente- sono colorati dall’insegnamento di quella scuola. Penso che un appartenente al Vajrayāna direbbe la stessa cosa nei riguardi dello Zen ascoltando le mie parole o leggendo i miei scritti.

* Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964. Titolo originale: Eichmann In Jerusalem.
La filosofa affronta, in questo libro, un problema ancora oggi irrisolto: la mancanza di un diritto internazionale, riconosciuto da tutti i paesi. Il processo Eichman, che lei racconta, è solo lo sfondo sul quale vengono proiettate una serie di problematiche come il male, la pace, la responsabilità.
Chi è Eichmann? Uno spietato criminale nazista, oppure un semplice funzionario che obbedendo agli ordini faceva partire in orario i treni per la deportazione degli ebrei ?
La risposta dell’autrice va oltre Eichmann – che viene assunto come modello per affrontare il problema del male.
Dal titolo italiano si evince la sua tesi, ovvero, la natura banale del male. Bisogna fare attenzione, il termine banale potrebbe trarre in inganno. La banalità non è sinonimo di non sussistenza del male, non si sminuisce il male come atto in sé, ma lo si colloca su di un piano diverso, appunto, banale.
Eichmann era un uomo mediocre, un uomo avido di successo personale, tutte caratteristiche che lo possono accostare ad un numero altissimo di persone. Nel sistema nazista il male si è frazionato nei singoli individui, ognuno dei quali ne è responsabile, senza però avere la percezione di questa responsabilità.
La stessa responsabilità – che è mancanza – di non aver colto l’occasione, dopo la shoah, di capire le origini del male e le reciproche responsabilità. Il processo di Norimberga, richiamato in vari punti, e il processo ad Eichmann sono state due occasioni perse di far salire sul tavolo degli imputati oltre ai criminali, tutti i protagonisti di quegli anni terribili.
Il libro si conclude con una interessante serie di approfondimenti su ogni singolo paese europeo e il loro rapporto con il progetto della soluzione finale. In questo escursus si scoprono verità storiche estremamente interessanti e si dimostra che con un po’ di coraggio il massacro nazista poteva essere evitato, perché alcuni paesi, come la Danimarca e la Bulgaria, lo hanno fatto.
La shoah ha scosso le coscienze ed ha aperto un dibattito sul male e la sua origine finanche sul suo stesso senso. Sono tanti i pensatori che hanno esposto una propria teoria, molti hanno posto in relazione questa manifestazione del male in rapporto con Dio: perché un essere onnisciente, onnipotente, immensamente buono – per citare tre aspetti tradizionali che il pensiero occidentale attribuisce a Dio- ha permesso un simile massacro?
La Arendt, senza entrare mai in campo religioso, affronta il problema del male da un angolatura spiccatamente antropologica e dà una serie di interessanti spunti di riflessione, utili anche per una riflessione religiosa.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, Rizzoli, 2005.
Ma 9×9 farà 81?
Ho riportato la battuta di Massimo Troisi in un suo celebre film per sintetizzare uno dei significati di questo libro di Panikkar.
Vorrei spiegare il motivo di questa scelta: quella domanda divertente sottintende l’ipotesi di una logica diversa. Ovviamente se non per Troisi, almeno per tutti noi 9×9 fa 81, ma ne siamo proprio certi?
La scienza ha un proprio linguaggio che la rende una cosmovisione, come sostiene Panikkar, questa cosmovisione deve misurarsi e confrontarsi con la cosmovisione religiosa. Questo dialogo è il nucleo del libro.
L’autore utilizza un linguaggio ricco di termini religiosi, presi anche da tradizioni diverse da quella Cristiana, e di termini scientifici. La lettura è impegnativa e richiede una certa attenzione.
Il testo è una revisione di vecchi articoli che rimessi insieme e rivisti hanno dato alla luce questo lavoro interessante.
Uno degli obiettivi dell’opera è presentare una concezione molto originale dell’autore, la teofisica: “Mezzo secolo fa incominciai un progetto cui diedi il nome di teofisica per affrontare questo problema. Non avendolo potuto continuare in forma sistematica ne darò qui un riassunto. Si trattava di prendere sul serio la cosmovisione cristiana non tanto adattando la fisica alla teologia quanto elaborando una visione della realtà nella quale le intuizioni cristiane non fossero né un’appendice né un supplemento della realtà, ma una presa di coscienza della “natura” stessa delle cose: l’esistenziale cristiano. Va ricordato che la fede non è né fiducia né va contro la ragione, ma una forma diversa di conoscenza – come il nostro titolo suggerisce. La sfida rimane comunque aperta.
Non posso trattenermi dall’esprimere un sospetto: che il “pensiero cristiano” avendo preteso di monopolizzare l’ambito del pensiero religioso ora lo stia pagando a caro prezzo, perché è stato praticamente spiazzato dal pensiero scientifico. Il contributo di altre culture sarebbe di importanza capitale. Si vedrebbe allora che molte delle intuizioni cristiane, che sembrano incompatibili con la scienza moderna, risultano accettabili ad altre visioni del mondo. Forse la vita, lo spazio, il tempo, la materia, ecc. non sono ciò che descrive la scienza moderna, ma molto di più e la scienza descrive solo un aspetto delle realtà che chiamiamo con questi nomi. Forse ci dobbiamo emancipare dal dominio della scienza sul pensiero umano. E non si dica che le altre erano (o sono) concezioni pre-critiche della realtà perché non si tratta di “tornare indietro”, ma di lasciarsi fecondare da altre visioni del mondo senza dimenticare le scoperte della modernità”.
Ho scelto questo passo perché presenta tutti, o quasi, i punti toccati dall’opera. La scienza ha raggiunto dei risultati di efficacia notevole, oggi c’è chi pensa che il sapere scientifico sia l’unica e vera forma di sapere.
L’autore si oppone a questo monismo culturale e pone, come fa in altre sue opere, l’interculturalità come l’elemento costruttivo e pluralistico.
Non esita a criticare l’atteggiamento teologico nei confronti della scienza, tuttavia è nel Cristianesimo stesso che si trovano gli elementi per dialogare con la scienza.
L’opera ha una struttura molto schematica e i problemi della scienza e quelli della religione vengono analizzati in primis con un metodo analitico, successivamente si tenta una sintesi.
Per seguire bene il percorso proposto da Panikkar è, e forse questo è un punto debole dell’opera, necessario conoscere il pensiero dell’autore. Infatti, non mancano rinvii ad altri suoi lavori, necessari per una maggiore completezza.
Il dialogo -o lo scontro- tra religione e scienza attraversa tutta la nostra cultura occidentale, pensiamo a Galileo, a cui Panikkar spesso fa ricorso. Pensiamo alla difficoltà che scientificamente c’è nello spiegare l’eucarestia: ovviamente la scienza oggi non ha nessuna intenzione di spiegare ciò che esula dal proprio campo, tuttavia vediamo come scrive Panikkar: “Gesù muore e viene sepolto. Poco dopo, il sepolcro appare vuoto e nemmeno i suoi nemici contestano il fatto. Gesù appare parecchie volte, mangia con i suoi e si fa toccare. La Resurrezione è la trasformazione di Gesù nel Cristo. Cristo è il Gesù risorto. Di Gesù non ci rimane se non il ricordo. Cristo, invece, è vivo e reale. Questa realtà non è solamente anamnesica o psichica; è anche fisica e corporale: è una presenza reale, tanto reale come quella di un pezzo di pane o quella di un povero che soffre la fame. Non è che nell’Eucarestia, il pane si trasformi in Cristo, ma è Cristo che si trasforma, si manifesta in pane, e come tale lo si riconosce nella liturgia eucaristica. Questo Cristo unigenito, primogenito, corpo mistico, vita, alfa e omega, luce, principio, corpo, materia, è il simbolo centrale del reale per i cristiani. Forse il “corpo” è molto di più di quello che dice la scienza. Esistono altre dimensioni della realtà che esulano dal campo della scienza.”
L’ultima affermazione è la chiave di lettura dell’intero libro ed è, per Panikkar il punto da cui può partire un dialogo.
Forse la stesura che risale a vari decenni fa, forse la difficoltà dell’argomento, ma manca ogni riferimento alle problematiche eugenetiche che tanto oggi sono al centro di un vero scontro tra cosmovisione religiosa e cosmovisione scientifica.
Comunque il testo ci offre una serie di strumenti concettuali per affrontare anche questi temi.
Il fine dell’opera è: “Né il cristianesimo né la scienza sono idee o teorie disincarnate che esistono solo in un mondo ideale. Non stiamo discutendo di ipotesi matematiche, ma di realtà umane; non di due astrazioni, ma della vita stessa dell’umanità. Alla simbiosi non si giunge né con la vittoria di una delle due parti, né mediante compromessi benintenzionati o dimostrazione di tolleranza civile. La simbiosi si vive – come il funzionamento sano di ogni organismo vivo, sia esso biologico, sociologico o culturale. Non si tratta di privilegiare un sapere denigrando l’altro, né di stabilire una gerarchia più o meno a priori. Si tratta di aprirsi alla luce, da qualunque parte venga, che, per ricorrere alla frase evangelica, è la vita dell’uomo – dell’ homo sapiens. Insisto nel dire che la situazione attuale ci porta a riconsiderare radicalmente il senso dell’avventura umana degli ultimi millenni. Per questo l’apporto interculturale è necessario.”
Appare evidente che l’interculturalità è l’elemento, anzi, il presupposto necessario per realizzare questa simbiosi.
Potremmo concludere questa scheda con una domanda al testo: esiste una cosmovisione religiosa, con una propria storia un proprio simbolismo; esiste una cosmovisioe scientifica, anch’essa con una propria storia ed un proprio simbolismo; ma esiste anche una cosmovisione del potere nel suo senso più pienamente politico-economico che non ha nessun interesse al dialogo tra religione e fede. Come ci si può rapportare a questa realtà?

(A cura di Gennaro Iorio)

* Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi 1989.
Atomo o non atomo questo è il problema.
Lo scienziato Capra è dotato di uno stile piacevole e chiaro; questa dote dona al libro una piacevolezza alla lettura.
L’autore affronta un argomento notevolmente complesso: l’epistemologia e il suo rapporto con la religione. Capra, grazie al suo humus scientifico, riesce ad avere una prospettiva ed una conoscenza elevata della scienza e dei suoi metodi. Spinto dalla curiosità, che uno scienziato non può non avere, allarga il suo sguardo al mondo delle religioni, nello specifico alle religioni orientali.
Non c’è nessun riferimento alle religioni Abramitiche infatti, la comparazione è tra la cultura, nel suo senso più ampio, occidentale e la religiosità -nello specifico la mistica- orientale.
La parte iniziale del testo presenta un’analisi storico-sociologica dell’evoluzione del pensiero occidentale, leggiamola:
La filosofia di Cartesio non fu solo importante per lo sviluppo della fisica classica, ma ebbe anche un’enorme influenza su tutto il modo di pensare occidentale fino ai giorni nostri. La famosa frase di Cartesio “Cogito ergo sum” ha portato l’uomo occidentale a identificarsi con la propria mente invece che con l’intero organismo. Come conseguenza della separazione cartesiana, l’uomo moderno è consapevole di se stesso, nella maggior parte dei casi, come un io isolato che vive «all’interno» del proprio corpo. La mente è stata divisa dal corpo e ha ricevuto il compito superfluo di controllarlo; ciò ha provocato la comparsa di un conflitto tra volontà cosciente e istinti involontari. Ogni individuo è stato ulteriormente suddiviso in base alle sue attività, capacità, sentimenti, opinioni, eccetera, in un gran numero di compartimenti separati, impegnati in conflitti inestinguibili, che generano una continua confusione metafisica e altrettanta frustrazione.
Questa frammentazione interna dell’uomo rispecchia la sua concezione del mondo «esterno», che è visto come un insieme di oggetti e di eventi separati. Si considera l’ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate che devono essere sfruttate da vari gruppi di interesse. Questa visione non unitaria è ulteriormente estesa alla società, che viene suddivisa in differenti nazioni, razze, gruppi religiosi e politici. La convinzione che tutti questi frammenti – in noi stessi, nel nostro ambiente e nella nostra società – siano realmente separati può essere vista come la causa fondamentale di tutte le crisi attuali, sociali, ecologiche e culturali. Essa ci ha estraniati dalla natura e dagli esseri umani nostri simili. Essa ha provocato una distribuzione delle risorse naturali incredibilmente ingiusta, che crea disordine economico e politico: un’ondata di violenza, sia spontanea sia istituzionalizzata, che cresce sempre più, e un ambiente inospite, inquinato, nel quale la vita è diventata fisicamente e spiritualmente insalubre.
La separazione operata da Cartesio e la concezione meccanicistica del mondo hanno quindi portato nello stesso tempo benefici e danni; si sono rivelate estremamente utili per lo sviluppo della fisica classica e della tecnologia, ma hanno avuto molte conseguenze nocive per la nostra civiltà
.”
L’autore assume una posizione netta e, per noi, non del tutto condivisibile. Non bisogna confondere la filosofia di Cartesio con il cartesianesimo che da essa si è sviluppato. Se si leggono le opere del filosofo francese si può dedurre che questo dualismo, posto nell’opera Meditazioni sulla metafisica, viene spiegato e, in un certo senso, ridotto nelle lettere che il pensatore scrisse alla principessa Elisabetta. Cartesio, vedi Il Discorso sul metodo, era consapevole che il suo pensiero, inevitabilmente, sarebbe stato tradito.
Nell’evoluzione del pensiero occidentale, che ci ha portato alla situazione attuale, non vi è solo Cartesio, ma una molteplicità di eventi, pensieri, che hanno costituito la società attuale.
L’autore si serve di una tale argomentazione per proporre il confronto con il pensiero orientale.
Nel libro si possono ritrovare delle schede, riassuntive e schematiche, delle religioni con le quali il pensiero scientifico viene messo in parallelo, ovvero, l’induismo, il buddismo e, soprattutto, il taoismo.
L’autore vede una analogia tra l’osservazione del mistico e l’osservazione dello scienziato, infatti scrive:
La corrispondenza suggerita tra gli esperimenti scientifici e le esperienze mistiche può sembrare sorprendente, data la natura molto diversa di questi modi di osservazione. I fisici effettuano esperimenti che richiedono un complesso lavoro di gruppo e una tecnologia altamente raffinata, mentre i mistici ottengono la loro conoscenza semplicemente attraverso l’introspezione, senza alcuna macchina, nell’isolamento della meditazione. Gli esperimenti scientifici, inoltre, sembrano essere ripetibili in qualsiasi momento e da chiunque, mentre le esperienze mistiche appaiono riservate a pochi individui in situazioni particolari. Un esame più approfondito mostra tuttavia che le differenze tra i due tipi di osservazione consistono soltanto nel modo in cui esse affrontano il problema e non nella loro attendibilità o nella loro complessità.
Chiunque desideri ripetere un esperimento della moderna fisica subatomica deve intraprendere molti anni di studio e di addestramento. Solo allora sarà in grado di porre alla natura domande specifiche attraverso l’esperimento e di comprenderne la risposta. Analogamente, una profonda esperienza mistica richiede, generalmente, molti anni di esercizio con un maestro esperto e, come nel caso della preparazione scientifica, il periodo di tempo dedicato all’apprendimento non garantisce da solo il risultato. Tuttavia, se ha successo, l’allievo sarà in grado di «ripetere l’esperimento». La ripetibilità dell’esperienza è in effetti essenziale per ogni apprendimento mistico ed è lo scopo reale dell’insegnamento spirituale del misticismo.

Questo passaggio dell’opera ci lascia perplessi: la mistica si può considerare un esercizio?
Lasciamo a chi leggerà questo lavoro di Capra il notare, o meno, questo problema che noi abbiamo riscontrato nel leggerlo.
Il testo ha, per noi, nell’analisi dell’evoluzione del pensiero della fisica e nel confronto con un altro modo di vedere il mondo, come quello del pensiero orientale, la sua parte di maggiore interesse. La fisica classica, che ha in Galileo uno dei suoi padri, è stata del tutto rivoluzionata dalle scoperte del secolo scorso, su tutte, potremmo citare la teoria della relatività di Einstein, la scoperta del modello atomico, ecc. Tutte scoperte che hanno fatto rivedere l’intera metodologia scientifica, come scrive Capra:
Tutte le volte che la natura essenziale delle cose è analizzata dall’intelletto, essa non può non apparire assurda e paradossale. Ciò è sempre stato riconosciuto dai mistici, ma solo recentemente è divenuto un problema interno alla scienza. Per secoli, gli scienziati sono andati alla ricerca delle «leggi fondamentali della natura» soggiacenti alla grande varietà dei fenomeni naturali. Questi fenomeni facevano parte dell’ambiente macroscopico degli scienziati e quindi erano direttamente accessibili alla loro esperienza sensoriale. Le immagini e i concetti intellettuali del linguaggio che essi usavano, dato che erano stati tratti da questa stessa esperienza mediante un processo di astrazione, risultavano sufficienti e adeguati per descrivere i fenomeni naturali.
Nella fisica classica, le domande sulla natura essenziale delle cose trovavano risposta nel modello meccanicistico newtoniano dell’universo il quale, in modo molto simile al modello di Democrito nell’antica Grecia, riduceva tutti i fenomeni al moto e all’interazione di atomi duri e indistruttibili. Le proprietà di questi atomi furono ricavate dalla nozione macroscopica di palle da biliardo e quindi dall’esperienza sensoriale diretta. Non ci si chiedeva se questa nozione si potesse effettivamente applicare al mondo atomico. In realtà, questo fatto non poteva essere indagato sperimentalmente.
La fisica contemporanea ha posto e pone nuovi paradigmi i quali, effettivamente, hanno dei paralleli in alcuni passaggi del pensiero orientale. Oggi abbiamo un affascinante problema, ovvero, il linguaggio come mezzo espressivo della teoresi. Ci siamo accorti, e Capra è bravo a metterlo in luce, che il nostro linguaggio ha dei limiti oggettivi nell’esprimere concettualmente determinate categorie fisiche. Quale sarà l’evoluzione del linguaggio e di conseguenza della visione del mondo e se si riuscirà ad attingere ad un altro modo di esprimere e vedere il mondo; è una sfida che l’opera di Capra ben mostra.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Mircea Eliade, Tecniche dello Yoga, Bollati Boringhieri 2007

Il testo si apre con una premessa dello studioso Piantelli che propone una gestazione dell’opera e una breve biografia dell’autore.
Piantelli riconosce la bellezza espositiva dell’opera in grado, come scrive, “di far vibrare le corde dell’anima”.
L’autore ha dedicato un’altra celebre opera a questa tematica, ovvero Lo Yoga. Immortalità e libertà, Piantelli suggerisce una lettura parallela tra questi due lavori.
Continuando la nostra lettura incontriamo un’ulteriore prefazione a cura di Eliade stesso. In queste pagine l’autore ci presenta tutte le difficoltà che si possono incontrare nella stesura di un simile lavoro.
La prima riflessione che Eliade sviluppa è sulla radice del termine Yoga, ovvero hyuj, i cui significati sono: legare insieme, tenere insieme, soggiogare. Partendo dalla terminologia si sviluppa una riflessione sull’origine di questa tecnica-filosofia. L’autore ritiene che lo yoga abbia un ruolo panindiano poiché ogni ambito dello sterminato orizzonte culturale indiano ha subito, in modo diverso, l’influenza dello yoga.
Non esiste un solo tipo di yoga e non esiste alcuna corrente che si possa autodeterminare come l’autentico yoga. Noi aggiungiamo a questa riflessione di Eliade una nostra osservazione: il medesimo fenomeno può essere osservato nello sviluppo storico del Buddismo.
Eliade specifica come vi sia lo yoga classico, ma nello stesso tempo esistano altre correnti come quella mistica. Tuttavia riconosce la grande importanza metodologica che ricopre la corrente classica che vede in Patanjali uno dei principali protagonisti.
Eliade fa delle osservazioni molto interessanti su questo pensatore: non è l’ideatore di una tecnica o filosofia. La sua principale caratteristica è d’essere stato un sistemizzatore di un insieme di riti e tecniche che esistevano già da tantissimo tempo.
L’antichità dello yoga è messa in relazione con la più antica visione filosofica indiana (darsana), ovvero Samkhya.
Il fulcro di questo darsana è la liberazione del purusha (spirito) dalla praktti (materia).
Il rapporto tra praktti e purusha e messo in evidenza dall’autore.
La filosofia Samkhya lo Yoga convergono nel vedere lo spirito come autonomo e in un certo senso imprigionato dal mondo delle forme.
Per un occidentale questo passaggio richiama molto da vicino tutta la filosofia platonica. Eliade sottolinea che nel panorama filosofico indiano su questo punto non vi è una convergenza completa. La filosofia vedantica, per esempio, non ha del mondo una visione negativa. Ricopre un certo interesse la riflessione sulla doppia valenza del mondo: se l’ignoranza è creatrice delle forme, questa stessa realtà è la via per affrancarsi dalla sofferenza.
Nell’affrancarsi vi è una differenza forte tra filosofia occidentale e filosofia orientale. Un darsana che non abbia come suo scopo l’affrancarsi dalla sofferenza per la cultura indiana non avrebbe alcun senso.
Il Samkhya e lo Yoga non negano l’esistenza ontologica del mondo, a differenza della filosofia Vedantica, pongono solo una divisione netta tra purusha e praktti. L’affermare io soffro, io amo, io odio, io penso, ecc. e credere che quell’io sia il purusha è l’origine del dolore per questa darsana. Questa divisione fa si che il dolore esiste, ma si raggiunge la consapevolezza che questo dolore non tocca il proprio spirito. Per il Samkhya e per lo Yoga non esiste un purusha universale, ma ogni singola persona è un purusha. Eliade utilizza il termine monade. Questo termine a noi occidentali richiama la filosofia di Leibniz.
Il samkhya non ha alcun interesse nel capire qual è l’origine del legame tra purusha e praktti, s’interessa solo di rompere questo legame. L’agire di chi ha compreso tutto ciò sarà un agire completamente disinteressato: gli effetti del suo agire non hanno più nessuna importanza, un tale essere è nel mondo, ma non è del mondo.
La prima parte del lavoro si chiude sul rapporto tra Samkya e Yoga. La seconda parte del testo si apre con l’osservazione di Eliade: “laddove finisce il Samkya inizia lo Yoga classico”. Il Samkya è esclusivamente gnosi, lo Yoga vuole essere fondamentalmente pratica.
Sorprende, nell’analizzare questa filosofia, la profondità delle argomentazioni psicologiche. Secoli prima di Freud lo Yoga ha posto la sua attenzione sul subconscio. L’attività di questa parte latente della nostra coscienza ostacola l’affrancamento dell’uomo dai suoi stati mentali. Un abisso da cui continuamente emergono ostacoli all’uomo che decide di liberarsi. La vita della coscienza è l’alternanza di tre guna, ovvero, sattva (illuminazione) (1) rajas (energia) tamas (pesantezza o tenebra).
Lo yogin deve cercare di liberarsi da questo “gioco della coscienza”. La prima tecnica presa in considerazione è la respirazione. Lo yogin tramite il controllo del proprio respiro può attraversare i vari gradi di coscienza. Lo yogin, per esempio, può rallentare il proprio respiro come se dormisse, ma si trova in uno stato di veglia con la capacità di vivere uno stato di coscienza da dormiente. Il respiro diventa il primo strumento di realizzazione del processo di liberazione dello yogin.
Eliade giustamente non manca di evidenziare un presupposto essenziale per chi decide di praticare lo Yoga: il tempo, ovvero, apprendere le tecniche dello Yoga significa investire molto tempo ed energie. Ci permettiamo di osservare la difficoltà intrinseca in questo passaggio. La nostra cultura, il nostro tempo, sembra volgere in direzione opposta. Il termine stesso consumismo è di per sé esplicativo di tutto ciò che vorremmo dire.
Il testo poi si sofferma sul rapporto tra Yoga e Tantrismo e tra Yoga e Buddismo.
Questa parte, molto tecnica, ha il merito di proporre riflessioni interessanti sulle tecniche meditative all’interno di cosmologie religiose come il Buddismo.
L’opera si chiude con un glossario, strumento sempre utile per una più ampia comprensione.
(1) Tradurre sattva con “illuminazione” è una forzatura di Eliade. Sattva significa “essere/esistenza”, “realtà” (mym).

(A cura di Gennaro Iorio)

* Aldo Natale Terrin, Introduzione allo studio comparato delle religioni, Morcelliana, Brescia 1991.

Il testo si apre con un piano dell’opera.
Terrin presenta il lavoro che svilupperà nelle pagine successive e le difficoltà che vuole affrontare.
Il tema, come si evince dal titolo, è letteralmente sterminato.
Quest’aspetto si nota in modo immediato nei primi capitoli dell’opera: si affronta in maniera sintetica lo sviluppo teoretico della disciplina “storia delle religioni”.
Si presentano le varie scuole, ovvero: Marburgo, Chicago, Lancaster, la Scuola Italiana ecc.
Di ogni scuola si tracciano le linee guida; si affrontano, brevemente, i maggiori esponenti ed in fine si presentano alcune riflessioni critiche.
Terrin non nasconde la sua collocazione: egli, infatti, s’inserisce e sostiene la scuola fenomenologica. Indirizzo, questo, che vede in Otto il fondatore, con l’ opera Il sacro del 1917, ed in Eliade uno dei suoi più alti esponenti.
Una riflessione che emerge da questo escursus è il rapporto che vi è tra metodo storico e metodo fenomenico. L’approccio storico è indispensabile al fenomenologo: conoscere il contesto culturale, conoscere l’evoluzione storica della religione presa in esame, sono presupposti essenziali per una ricerca seria e fondata. La ricerca storica, nota Terrin, di contro, è limitata e limitante. Il metodo storico presuppone un parametro alto di specializzazione ed un alto grado di specializzazione ostacola uno sviluppo comparativo.
Il metodo fenomenologico, di contro, presuppone che vi sia un “quid” che lega ogni religione; ciò non significa ipotizzare un sincretismo tra i vari culti, ma significa interogarsi sul senso profondo di ogni religione. Nello stesso cercare una risposta a questo interrogativo, per il fenomenologo, si presenterà come evidente quel “quid” che accomuna ogni religione.
Potremmo portare l’esempio del tema della salvezza. Elemento, questo, presente in tutte le religioni e che, seppur modulato in modo diverso, è un qualcosa che lega tutte le cosmologie religiose.
Nel testo incontriamo un capitolo dedicato ad autori che si sono chiesti il perché della religione, ovvero, perché da sempre l’uomo è aperto a questa dimensione trascendente?
Terrin analizza varie teorie, tutte di sfondo evoluzionistico; incontriamo Miller, Durkheim, Freud, ecc.
Anche per questo capitolo l’autore adotta lo stesso metodo: presentazione della teoria e successiva critica.
Prima d’introdurre argomenti come la spiritualità, la preghiera, il sacro, Terrin apre una parentesi sull’ateismo.
Il capitolo è breve, ma ricco di spunti di riflessione, su tutti il rapporto tra scienza e religione. Sullo sfondo mi pare di cogliere la Teologia liberale e il pensiero di Bonhoeffer.
Il tema della preghiera trova il suo spazio in un capitolo. L’autore osserva come il pregare sia un antico rito presente, in maniera differente, in tutte le religioni.
La preghiera è un rito che vede nella gestualità, più che nella parola, la sua più alta epifania.
Il gesto dell’inginocchiarsi è manifestazione ricca di senso.
Se la dottrina differenzia i vari credi, la preghiera è un qualcosa che li riunisce.
Il lavoro si sofferma su altri aspetti: la mistica, la rivelazione, il rapporto Dio-mondo, Dio-storia, Dio-uomo.
Ognuno di questi punti è analizzato in modo trasversale.
La rivelazione, per esempio, è un tema letto attraverso varie religioni.
Viene dedicata una parte alla figura di Gesù. Si evidenzia un dato esclusivo di questa figura: il suo presentarsi alla storia come il figlio di Dio. Nessuna religione pone una tale caratteristica nel suo atto fondativo.
Questa caratteristica presenta una prospettiva totalmente diversa del rapporto trascedenza-immanenza.
In religioni come l’Ebraismo o l’Islam, Dio è posto come totalmente trascendente, ma nello stesso tempo presente nella storia.
Nel Cristianesimo Dio si è fatto storia, il Verbo si fece carne, per citare Giovanni.
Tutti questi discorsi perdono di senso se si entra nella cosmologia Induista.
Per Terrin si dovrebbe parlare di pan-en-teismo, ovvero, tutte le cose sono in Dio. Tutte le cose, tutti gli esseri sono la manifestazione del divino.
Continuando la lettura del testo possiamo incontrare due capitoli dallo sfondo ermeneutico.
L’autore affronta il problema delle Sacre Scritture nelle varie religioni. Il libro Sacro non è semplicemente un libro, magari come noi oggi siamo abituati a pensare, ma è un vero microcosmo di senso.
La Sacra Scrittura è come un ponte gettato tra ciò che non si comprende e ciò che si comprende. La parola, in questo contesto, assume un potere performativo. La Sacra Scrittura manifesta un vero circolo ermeneutico, ovvero, la parola si fa scrittura e la scrittura, a sua volta, ridiviene parola intesa, qui, come trasmissione.
Ovviamente ogni religione dà una determinata centralità ai testi canonici, tuttavia sono imprescendibili per una piena comprensione di quella determinata religione.
Scorrendo il testo emerge sempre più la prospettiva fenomenologica abbracciata dall’autore. I capitoli sul dolore e sulla riconciliazione, sono, al riguardo, emblematici.
Interessante è la riflessione sul senso di riconciliazione e la comparazione che viene fatta con il pensiero orientale.
Il senso di riconciliazione presente oggi in occidente manifesta, per Terrin, l’antropocentrismo occidentale. L’uomo si è posto al centro del mondo, l’io è diventato la realtà sostanziale su cui fondare ogni sistema di pensiero.
Affermazioni in cui s’invita all’armonia con la natura, con il cosmo, vengono rilegate in una nicchia dal pensiero occidentale.
Mentre nel pensiero orientale viene data all’armonia con il cosmo un’importanza fondante per la vita stessa dell’individuo.
La cultura dell’Io ha creduto di nascondere sotto di un velo i drammi della morte e della sofferenza.
Al riguardo possiamo leggere delle pagine molto interessanti nelle quali si analizza il rapporto tra morte e religione.
Potremmo quasi dire che la ricerca di un senso al dolore e alla morte è l’embrione della religione stessa.
La sofferenza, il male, porta naturalmente, potremmo dire, a trattare della provvidenza.
Il tema della provvidenza è un tema centrale nella storia delle religioni. Viene ad essere la risposta di senso all’esistenza stessa dell’uomo come essere finito.
Nelle religioni Abramitiche possiamo osservare come la provvidenza Divina sia una costante presenza storica.
Storicità che non si coglie in religioni orientali, dove comunque si cerca nella religione quella risposta di senso che possa dare all’esistenza una direzione, una Via.
Un successivo capitolo ci presenta un tema oggi molto attuale: la violenza. Sappiamo che molte cosmologie religiose pongono come primo atto un atto di violenza.
Ad esempio citiamo Tiamat e Marduk per la cosmologia babilonese e Cronos per quella greca.
L’atto violento sembra un qualcosa di necessario per colmare la distanza che sussiste tra Sacro e Profano.
Terrin dedica due brevi paragrafi al concetto di violenza nell’Induismo e nel Buddismo.
Il paragrafo sul Buddismo presenta una riflessione interessante: l’autore propone di sostituire il termine dolore con quello di violenza e con tale cambio rileggere Le nobili quattro verità.
Potremmo quindi leggere: la nascita è violenza, la morte è violenza, ecc.
Questa interpretazione serve a Terrin per porre al centro del suo discorso l’Ego. Per l’autore il Buddismo vede nella sete dell’Io la radice di ogni dolore o di ogni atto di violenza.
Se non si guarisce questa radice di sofferenza non scomparirà mai la violenza.
Il discorso poi si ricongiunge all’antropocentrismo cotemporaneo che sta conducendo la nostra civiltà in una direzione di autodistruzione.
Terrin sposta la sua attenzione su di un tema specifico: il paradiso.
L’aldilà è presente in svariate religioni da millenni.
Con tanti nomi diversi, ma con una medesima realtà: un luogo dove il dolore, la sofferenza, lo scorrere del tempo non ci saranno più.
Ed è affascinante osservare questa dinamica religiosa attraverso il Libro dei morti tibetano, oppure, il libro dei morti Egiziano.
E ricopre un notevole interesse il rapporto tra “aldiquà” ed Aldilà. Per ottenere una vita priva di sofferenza l’uomo deve compiere e perseguire una determinata via nella sua esistenza.
Il tema dell’Aldilà cambia di connotazione se si affrontano religioni come l’Induiso o il Buddismo.
Il discorso riportato sull’Induismo si rifà principalmente all’Upanishad in cui si vede nell’atman una manifestazione del brahaman, ponendo nella comprensione di questa non dualità la via per la cessazione del samsara.
Quando si affronta il Buddismo l’autore, per noi, manca di segnalare la riflessione complessa e articolata di Nagarjuna, ovvero che tra samsara e nirvana non vi è alcuna differenza.
Probabilmente l’inserire questa riflessione avrebbe richiesto una parentesi esplicativa troppo ampia.
In seguito il testo cambia oggetto d’analisi. Sono presi in considerazione problemi come il multi-culturalismo, la nuova realtà sociale, il dialogo tra le varie religioni, i nuovi movimenti religiosi e in particolare la New Age.
Questi capitoli sono molto interessanti, non c’è nessun giudizio di merito su questo variegato universo religioso, ma vi è un tentativo di comprensione della loro realtà.
Sono fenomeni che coinvolgono milioni d’individui e durano da decine d’anni, perché tutto ciò?
Questi capitoli cercano d’abbozzare una risposta.
Non mancano parti che potremmo definire di bioetica. Interessante la riflessione sulla scienza come disciplina in cui il pensare è assente, totalmente sostituito dal tecnicismo del saper fare.
L’opera si chiude con un capitolo su Dio, sulla storia di questo lemma e come esso viva in ogni religione. Interessante la riflessione sull’aspetto sociologico che ritroviamo nelle religioni Abramitiche,mentre, in quelle orientali possiamo ritrovare traccie di quelle che si definisce mistica.
Il testo si chiude con un glossario molto interessante.

(A cura di Gennaro Iorio)

* Anselm Grün, Che cosa c’è dopo la morte? L’arte di vivere e morire, Paoline, pagg. 196, euro 16.
Tutta la tensione interna a questo nuovo libro del monaco benedettino Anselm Grün è espressa dal rapporto tra il titolo “Che cosa c’è dopo la morte?” e il sottotitolo “L’arte di vivere e morire” (traduzioni fedeli del titolo e sottotitolo originali tedeschi). Il tema più delicato e più intrigante è “L’arte di vivere e morire”, però evidentemente gli editori e/o l’autore hanno pensato che non fosse sufficiente, e soprattutto che avrebbe fatto poco colpo sul mercato, quindi in bella evidenza è venuta la frase “Che cosa c’è dopo la morte?”.
Quest’ultimo punto di forza, nell’ottica del mercato, corrisponde però al punto debole sul piano contenutistico. Di per sé padre Grün è una persona colta, attenta, spiritualmente matura. Precisa fin dall’inizio che l’aldilà, per definizione, è inconoscibile e indescrivibile. Quindi le categorie con cui se ne parla, anche in ambiente cristiano (paradiso, Gerusalemme celeste, banchetto ecc.), sono solo immagini che non hanno lo scopo di descrivere alcunché, ma di consolare, di introdurre la persona alla modalità positiva di porsi di fronte all’evento della morte. Ciò non toglie che in varie occasioni l’autore cada nella tentazione di “quantificare” il regno dei cieli, sciorinandone le meraviglie paesaggistiche e gli impagabili benefici. Con un triste scivolone qualunquista a proposito del buddismo.
Dietro queste – poche – note un po’ stridenti, si avverte tuttavia una melodia di fondo ben più raffinata, quella appunto in cui Grün lascia indicazioni di percorso relative a “L’arte di vivere e morire”. Dove la congiunzione “e” non separa due concetti, ma congiunge due aspetti della medesima realtà. Due modi complementari di avvicinarsi al mistero della non/esistenza, in cui ognuno dei due illumina l’altro. Parole nutrite degli insegnamenti del Vangelo, di san Benedetto, della tradizione cristiana e anche dell’esperienza personale, in quanto padre Grün è attivo come consulente per l’elaborazione del lutto.
Disciplina antica, quella dell’ars moriendi o “apparecchio alla morte”; oggi caduta un po’ in disuso, ma senza motivo, perché la morte fa ancora tenacemente parte delle nostre vite (e viceversa). Grün la impreziosisce con acuti riferimenti a opere d’arte, o aspetti del folklore, o collegando tra loro in modo inedito i versetti della Bibbia. Ad esempio una frase di Gesù che nessuno cita mai: “Se il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere parte alcuna nelle tenebre, tutto sarà nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore”.

(A cura di dhr)>