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Come autore:
2000: Piccola guida al Buddismo Zen nelle terre del tramonto, Ed. Marietti.
2002: Intelligenza volse a settentrione – umorismo e meditazioni buddiste, prefazione di Enzo Bianchi, Ed. Marietti.
2004: Milarepa, prefazione di L. Cavani e E. Masetti, abbinato alla videocassetta dell’omonimo film di L. Cavani, Macroedizioni.
2005: La via maestra, Ed. Marietti.
2006: Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. India e Cenni sul Tibet, Vol. I, Ed. Marietti.
2009: Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. La Cina, Vol. II, Ed. Marietti.
2010: Buddismo e cristianesimo a confronto, CD nelle edizioni del monastero di Bose.

2011: Il sutra del diamante, la cerca del paradiso, a c. di Mauricio Y. Marassi, con un saggio filosofico di Gennaro Iorio, Marietti.
2013: La via libera, etica buddista e etica occidentale, con un saggio filosofico di Gennaro Iorio, Ed. Stella Del Mattino.
2016: Discorso di risveglio alla fede secondo il veicolo universale, Marietti.

Come coautore:
1998: Crisi e trasformazione, Ed. Vicolo del Pavone, Piacenza.
2002: La cultura del Buddhismo. Il valore della pluralità delle culture, Edit Faenza.
2003: E se un Dio non ci venisse a salvare? Sei conversazioni sul Buddismo Zen, prefazione di Luigi Alfieri, Ed. Marietti.
2004: L’Educazione Ambientale come dialogo interculturale, Reg. Marche, Min. dell’Amb.
2006: Il Vangelo secondo Matteo e lo Zen. Volume II, Ed. Dehoniane Bologna.
2007: Cinema e Buddismo, Ed. Centro Ambrosiano, Milano.
2015: Incontrarsi al cuore. Un dialogo cristiano-buddista sull’amore-compassione, Ed. Pazzini, Rimini

Come curatore:
1992: Eihei Dogen, Il Cammino religioso-Bendowa, Ed. Marietti.
2005: P. Sacchi, R. K. Pinciara, La forma dello zazen che è invito universale è accessibile a tutti?, Ed. L’equi-librista, Lodi

In questa pagina è possibile scaricare gratuitamente alcuni dei libri sopra elencati.

Un argomento sul quale potrebbe essere utile qualche considerazione, se non proprio una piccola guida o lista di consigli, è quello inerente la pratica ‘da soli’. In una società così intensa e laicizzata come l’attuale, l’occasione di sedersi da soli penso sia destinata ad aumentare: col diffondersi dell’interesse per lo ‘star seduti’, molte persone che desiderano praticare, pur seguendo una scuola o anche un insegnante, hanno poche opportunità di sedersi in modo formale e continuativo. Vuoi per questioni geografiche (ad es. chi non abita in città) o di orari (tra lavoro e famiglia infatti è difficile ritagliarsi lo spazio per ‘andare al dojo’). Nulla vieta naturalmente una pratica solitaria, e tuttavia sedersi da soli non è la stessa cosa che sedersi in compagnia. In cosa consiste questa differenza?

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Forse da un lato in un sapore, in una qualità leggermente differenti: da soli si è più rilassati ed a proprio agio; si è forse più portati a produrre pensieri autocentranti, o meglio centrati su una suggestione di auto-realizzazione; si è più facilmente preda di distrazione o sonnolenza e così via… Dall’altro lato dubbi e fissazioni, naturalmente diverse da un individuo all’altro, possono prendere più facilmente concretezza, mancando la funzione di specchio rappresentata dagli altri o da una guida: i dubbi tipo “che ci faccio io qui e perché” penso siano di solito salutari, altri relativi alla durata della seduta o alla postura un po’ meno; le fissazioni poi sono ancor meno auspicabili, specie se diventano ossessioni o auto-convincimenti che tendono ad incistarsi nel mezzo della pratica. Non credi che l’argomento sia di un qualche interesse? Perché tu, o lettore, o qualche altro autorevole rappresentante della ‘Stella’ non scrivete un commento, un articoletto, un editoriale sull’argomento?

PS

Gli interventi sul tema:

Questo testo è tratto dal libro Piccola guida al buddismo Zen nelle terre del tramonto, di M.Y.Marassi

L’immaginario occidentale attuale, riguardo allo Zen, è ancora in buona parte formato dall’immagine creata dal prof. Suzuki. Questo autore pose fine, apparentemente, all’epoca delle supposizioni: la sua opera venne considerata non più “parlare di” Zen ma, piuttosto, lo Zen medesimo.
Per parte occidentale questo avvenne soprattutto per un motivo. Mi riferisco a quello che Umberto Eco (Cfr. U. Eco, “Lo zen e l’Occidente”, in: Opera Aperta, Bompiani) ha definito la “vocazione dell’Occidente” cioè l’esigenza, nella nostra cultura, di rappresentare il mondo in un ordine leggibile dall’intelletto, una sorta di coazione a spiegare affinché tutto venga compreso. Il complesso dell’opera del prof. Suzuki, per sua stessa natura e apparenza “dice tutto” dello Zen e quindi può dar adito all’illusione di definirlo. In questa involontaria trappola sembra essere caduto, almeno al tempo dell’opera citata, lo stesso Eco che, infatti, chiama Zen anche situazioni da esso lontanissime perché, avendo visto e capito lo Zen, ne può parlare come di un’entità, descriverne le caratteristiche e quindi identificare analogie con situazioni, momenti “….epifanie-contatto..”.
Occorre, comunque, dare atto al professor Eco non solo di aver davvero capito ciò che vi è di comprensibile relativamente al buddismo Zen ma, soprattutto, di aver visto con eccezionale tempismo (il saggio sullo Zen inserito in Opera Aperta è del 1959) la mistificazione autoreferente del gruppo della beat generation, Jack Kerouak, Timothy Leary, Ginzberg, Borroughs, Ferlinghetti: “…i beatniks usano lo Zen come qualificazione del proprio individualismo anarchico…”.
Tuttavia, anche in questo autore, probabilmente contro le sue stesse intenzioni, dall’approccio descrivente un oggetto dato, in qualche misura fisso e che necessariamente è una raffigurazione arbitraria, discende l’aver ritenuto, per esempio, che il satori, l’illuminazione, sia “…vedere il mondo…in presa diretta…” oppure che i mondô, i dialoghi tramandati dalla tradizione, siano “….interrogazioni dalle risposte assolutamente casuali…”.
Eco, forse, non poteva andare oltre: proprio le sue fonti principali, da lui ampiamente citate, A. Watts e, appunto, D. T. Suzuki, non offrivano di più. In quelle opere, pur formidabili strumenti di attrazione e introduzione all’insegnamento della scuola Zen, non c’è lo Zen della tradizione classica, quello di Eihei Dōghen, di Lin-chi, di Bodhidharma, di Nagarjuna e Mahakasyapa, in ogni caso incontenibile da qualsiasi libro.
Ecco quindi che aspetti di religiosità importanti per ogni uomo, ma, ciononostante marginali nella assoluta peculiarità dello Zen, quali la consapevolezza del miracolo della vita, o icone comportamentali quali “…il sereno e affettuoso disimpegno del vero illuminato…” diventano lo Zen stesso o la sua immagine.
Considerando l’atteggiamento con cui sono stati letti i libri del professor D.T. Suzuki e vedendo la facilità con la quale vengono riempiti di affermazioni e definizioni le migliaia di siti Internet dedicati allo Zen, penso che continui tra noi occidentali l’ansia di far rientrare il buddismo, e persino lo Zen che ne è la sua proposizione più sconfinata, in qualche cosa che è già contenuto nel nostro retaggio culturale o che è comprensibile con gli strumenti da esso forniti: il ragionamento, le categorie filosofiche, la teologia, la psicanalisi, la scienza. Più recentemente, lo stesso meccanismo ha tentato di riproporsi, dopo un più o meno raffinato maquillage esotico, attraverso la conoscenza di una lingua, di una cultura, di una tecnica, presentate, con una forte componente sacrale, quali contenitori espressivi dell’Infinito.
Nel frattempo, vasta parte della chiesa della cristianità cattolica che si vorrebbe incarnazione vivente della religione che propone il passaggio attraverso la cruna dell’ago della completa accoglienza del tu, del fratello, dell’altro sino a farsi completamente e serenamente invadere, con questo altro, con questo mondo fratello che è il buddismo, continua a procedere con un’alterigia per nulla fraterna, più simile al fastidio di chi si occupa, per necessità storica, di qualche cosa che avrebbe volentieri ignorato con sufficienza. Questo è tanto più doloroso per chi, nato ed educato in Occidente, riconosce la propria identità e matrice nel respiro, nella cultura di questa parte del mondo pur avendo cercato altrove di placare la sete della propria anima. Come se quel cercare altrove fosse stato un tradire, da sancire con l’accusa di apostasia, accompagnata dal rifiuto della nuova spiritualità maturata.
In un libro di religiosità che ha avuto un grande successo editoriale negli ultimi anni si può leggere:
“…L’illuminazione sperimentata da buddha si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo [……] Il buddismo è in misura rilevante un sistema ateo […..] il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo [….] Salvarsi vuol dire prima di tutto liberarsi dal male, rendendosi indifferenti verso il mondo che è fonte del male. In ciò culmina il processo spirituale” (Cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994, 95 s.).
Negli anni sessanta/settanta del secolo ora trascorso, dopo una vampata ideale così intensa che “il sogno”, per chiunque ne avesse uno, pareva a portata di mano (e questa, fra molte, fu l’epoca più bella), d’un tratto la fatica antica del viver quotidiano emerse ineludibile e si abbattè come una tempesta di sabbia sugli slogan e sulla oramai stanca voglia di sognare la felicità dietro l’angolo. Fu una cocentissima delusione collettiva. Un implosione dalla cui successiva forza di espansione si partirono vari tipi di schegge. Lo svanire di un mondo di sogni ne generò altri, e questa volta non mancarono gli incubi.
Il fallimento dell’utopia rapidamente trasferì la frustrazione dal sociale al privato. Il mondo delle relazioni, non fornendo risposte fondamentali, deludendo crudelmente aspettative che sembravano più reali e legittime perché condivise da milioni di cuori, non conteneva né forniva più “senso”. Il senso andava cercato fuori dalle relazioni, dentro all’uomo. Ma non nel qui ed ora delle giornate quotidiane bensì in un altrove che le trasfigurasse, che facesse giustizia delle banalità e meschinità della vita immergendole in un bagno di mistero e di sacralità.
La nuova illusione era che fosse possibile partire lasciandosi a casa.
Tutto questo era realizzabile ad una sola condizione: che la meta del viaggio, del pellegrinaggio, fosse l’Oriente.
Grazie al lungo lavorio che, dall’inizio del secolo, per mille rivoli (Spengler, Hesse ecc.) aveva assecondato la convinzione che il Cercatore dovesse lasciare l’ormai avvizzito Occidente se voleva trovare il suo Graal, il fallimento del sogno di una generazione divenne, per alcuni, la conferma che l’errore, come novello peccato originale, fosse stato perpetrato irrimediabilmente dalle generazioni che li avevano preceduti e che si potesse porvi rimedio solo in quella terra favolosa dove la Conoscenza sgorgava abbondante e si faceva cogliere volentieri, quasi traboccasse ovunque.
Gli antesignani erano già tornati spargendo meraviglie, Kerouak aveva coperto con il mantello del satori, dell’illuminazione, la trasgressione e l’eccesso.
Il partire divenne un’urgenza. Partire era la risposta.
Alcuni non sono mai tornati: per non perdere l’illusione hanno cercato di fissarla per sempre con sostanze inebrianti a cui tutti, quasi tutti, prestavano tolleranza, se non simpatia. E quel sempre, quel fissare, sono diventati il sempre e la fissità della morte.
Per chi viaggiava con mezzi terrestri era subito percepibile e incombente l’enorme vastità e complessità dei territori e delle culture che iniziano alle porte del Bosforo.
Quell’enormità che un aereo apparentemente annulla in poche ore, sgomenta chi vi si immerga deciso a cercare e trovare.
Non stupisce allora che, col passare del tempo, molti abbiano perso l’orientamento rimanendo prigionieri di quell’Oriente in cui cercavano la libertà suprema. Catturati dalla loro privata liberazione. Come se tutta la ricchezza di quelle culture, in un lampo abbagliante, avesse fatto dimenticare ciò che ogni novizio sa riconoscere con semplicità: qualunque forma culturale può essere valida per esprimere l’Insegnamento del Buddha Shakyamuni, ma non è essa stessa quell’Insegnamento.
Ogni forma particolare di illuminazione (lascio il termine “illuminazione” perché così è nel testo da me scritto circa dieci anni orsono; ora nelle stesse circostanze uso “risveglio”. MYM) è una forma particolare di illusione. Certo, il mondo dell’illuminazione e quello dell’illusione non sono due, quindi, in realtà, ogni illuminazione nel suo esistere vive della stessa natura dell’illusione. Però sarebbe autolesionistico pensare che, per questo, illuminazione e illusione siano la stessa cosa o, addirittura, che l’illuminazione non esista dal momento che non vi è una formula che la rappresenti.
Occorre riconoscere con umiltà e realismo che, sebbene nei Paesi in cui lo Zen ha abitato e vissuto per secoli alcune forme abbiano un senso profondo, quel “senso” non è esportabile contenuto in quelle forme: il vestire tuniche o drappeggi di foggia cinese, tibetana, coreana o giapponese, il radersi i capelli, l’esercitarsi in complicati cerimoniali o in letture di testi in lingue ormai morte non ci avvicina (né ci allontana) di un passo dal vero insegnamento. Anzi è proprio quando crediamo che in questa o in quella forma particolare sia contenuto il buddismo, lo Zen: proprio allora formiamo l’ostruzione che ci impedisce di vedere quell’insegnamento.
Quando il partire si concretizzò nei primi itinerari, progetti, addii, lettere da posti sino a quel momento considerati irraggiungibili, ritorni improvvisi di occhi che pareva avessero visto l’invisibile, si produsse una sorta di effetto valanga che coinvolse le motivazioni più disparate.
In quel viaggio, per molti autentico archetipo del viaggio iniziatico, un gran numero di pellegrini si riversò nel mistero dell’Oriente.
Alcuni si imbatterono in maestri che li rassicurarono sul fatto che il buddismo era proprio ciò che loro immaginavano, volevano che fosse. Così, ben contenti dello scampato pericolo di doversi completamente spogliare della propria cara visuale privata, se ne accontentarono mitizzandoli per farli apparire a sé ed agli altri i più grandi possibile. Altri non si arresero di fronte alla realtà, non accettarono di riconoscere che la Via che conduce al superamento della sofferenza, alla redenzione, alla libertà assoluta passa proprio attraverso alla sofferenza senza rifiutarne neppure una briciola e scoprirono il buddismo in questa o quella pratica in questa o quella forma di cui fattisi esperti si fecero maestri. Ripetendo (in questo caso anche con un possibile calo di buona fede) in forma esotica, il tentativo di racchiudere lo Zen nella gabbietta del nostro zoo mentale per poterlo esibire, insegnare, con sicurezza di non sbagliare. Ignorando, o dimenticando, che proprio quando si chiude accuratamente la porta pensando finalmente di possederlo, abbiamo messo sotto chiave solo la pelle rinsecchita e polverosa del serpente. Che se la ride altrove. Magari proprio in quella pelle.
Il sogno di speranza che, come una molla, aveva proiettato tante “anime belle” in India ed in Nepal prima, in estremo Oriente poi, non prevedeva che occorresse faticare o soffrire più di tanto per ottenere ciò che, si sapeva, era sufficiente desiderare per averlo già ottenuto.
Per chi pensava di essere sfuggito alla croce di Cristo ed a quella più pesante caricataci sulle spalle, già nell’infanzia, dal penitenzialismo ecclesiale, una nuova Via significava soprattutto una via moderna, cioè facile. Ne nacque una via all’Oriente percorsa da eletti che si rassicuravano l’un l’altro perché, essendoci nulla da imparare, sapevano già tutto.
Gli orientali non furono da meno. Pochi religiosi resistettero alla lusinga di quel vero e proprio fiume di discepoli che si rivolgevano a loro con ammirazione piena di aspettative e che provenivano proprio da quel mondo che sino a quel momento li aveva umiliati, conquistati, battuti con la forza dell’economia e degli eserciti, imponendo poi la propria cultura e la propria religione. Erano i figli dei vincitori che accettavano di porsi sotto la guida dei vinti.
In molti casi, il denaro, il miraggio della fama e di un reale potere mondano, ingigantito dai media, fecero il resto.
In Giappone, per molto tempo, l’apparenza prestante o scaltra o incomprensibile o dissacrante del maestro del tempio, persino la sua potenza sessuale, furono il metro per valutare, tra noi occidentali, il suo grado di illuminazione:
“…Molti anni addietro, persone provenienti da tutto il mondo si ritrovarono a Kyôto per praticare il Buddismo. Alcuni si recavano al tempio della Pace e della Tranquillità spostandosi poi al tempio della Grande Virtù visitando poi il tempio della Sottile Conoscenza. Le conversazioni fra di noi erano: -Sono stato a colloquio con l’abate del tempio Del Niente Affatto: mangia la carne e sgrida i monaci, non può essere un illuminato! – Ti capisco, anche quello del tempio del Grande Sbadiglio non è un granché: ha cominciato subito a farmi domande inutili come: perché vuoi fare zazen? Perché hai lasciato Cristo? Certamente non è un vero Buddha. Invece, quel maestro, giù al tempio della Santa Rarefazione, deve proprio essere un illuminato. Anche se non sa l’inglese ha capito tutto quello che gli ho detto e mi ha offerto del macha (the in polvere, usato nella cerimonia del the) eccezionale-. Chiamavamo questo modo di fare “saltellare tra i templi”…….”. (Daitsu Tom Wright, inedito comunicato dall’autore).
L’epoca di cui parla il professor Wright è quella degli ultimi anni sessanta, inizio settanta.
Da allora molto tempo è passato ma pare che il buddismo occidentale sia la parte di questo mondo che più ha bisogno del buddismo per uscire da un malinteso, oramai epocale, così radicato da non riconoscersi più, come chi in sogno tema di guardarsi allo specchio perché questo lo farebbe scomparire. Ed invece proprio in quello scomparire, che non è estinguersi, in quell’esserci senza parere e senza un assetto fisso è quella autentica proposta di libertà chiamata Zen.

Questo testo è tratto dal libro Piccola guida al buddismo zen nelle terre del tramonto, di M.Y.Marassi

La strada, piena di pozzanghere in cui l’acqua rifletteva il cielo plumbeo quando non era intorbidata agitata dal passaggio dei rari veicoli, terminava all’incrocio con la statale numero sei. Dal lato opposto, pochi metri oltre le ultime case, si perdeva tra le erbe spinose di un terreno ingombro di materiali di risulta, assi da cantiere, una carcassa d’automobile. Un albero di ciliegio, solitario ricordo di un tempo in cui la terra non serviva solo per costruire o appoggiarvi rifiuti, allargava i rami spogli come tentando pudicamente celare lo sfondo di colline trasformate in quartieri senza sole. In una delle casette ad un piano, separate dalla strada da un giardinetto pieno di erba gialla e di spunzoni anneriti dal fumo delle fabbriche, vi era un movimento insolito di persone, adulti ma anche molti bimbi. Tutti vestiti come la domenica in chiesa; anche i ragazzetti più scalmanati tenevano la testa bassa ed il berretto in mano. Solo qualche rapido sguardo di sbieco tradiva la loro voglia di correre e fare banda. Medith sedeva sugli scalini freddi in cima al pianerottolo che dal giardino portava in casa. Salutava appena i visitatori che passandogli accanto gli davano chi una carezza sul capo chi una stretta alla spalla. Sentiva un peso doloroso allo stomaco; i pensieri, le sensazioni, i colori del giorno erano incupiti impregnati dalla percezione del dolore, a momenti pulsante a momenti più sfumata. Avrebbe voluto abbracciarsi da solo, essere in grado di dirsi parole tranquille e rassicuranti che lo conducessero fuori dalla gabbia penosa della sua vita. Ogni tanto gli tornava alla mente il momento in cui ieri, tornando da scuola, aveva visto tutta quella gente che fitta fitta attorno all’ambulanza bloccava il traffico sulla statale. E poi subito sua madre con gli occhi spalancati quasi guardasse ad un futuro che le scompariva davanti, con le mani premute sulla bocca, e la zia Dora che lo abbracciava piangendo e lui a poco a poco capiva che Luca, suo fratello piccolo, era morto. Medith aveva già conosciuto la rasoiata improvvisa e senza scampo della morte. Tre anni prima, al funerale di suo padre; ricordava come una spina angosciosa la fatica disperata che aveva fatto per cercare di non far entrare dentro di sé la consapevolezza che non lo avrebbe visto mai più. Ora era diverso, lo feriva il dolore della perdita sapendo che non vi era assolutamente scampo. Ma vi era anche dell’altro. Si sentiva definitivamente tradito dalla vita, dall’esistenza tutta, dal suo essere che mentre anelava la pace e un sorriso in una casa serena lo ripagava con la disperazione della morte che era, già lo vedeva, la morte di tutti. Anche la mamma, anche lui stesso. Non era più un dolore che schianta, quel dolore che dopo il pianto scompare come il temporale scacciato dai raggi del sole che riprende il suo dominio sul mondo. La lama fredda della pena che accompagna il cammino dell’uomo ignaro dell’ignoranza era già penetrata a fondo nel suo cuore.

* Nihonkyō, la religione della giapponesità

Il tema proposto da Paolo è interessante e complesso. Prima o poi occorrerà occuparsene in modo sistematico perché le implicazioni particolari (influenza diretta sul buddismo giapponese e perciò anche sullo Zen) e generali (concetto di religione) sono tutte in gioco ed hanno una valenza che non deve essere ignorata. Tuttavia da diverse, ma strette, angolature ci siamo già occupati del tema, per esempio in:

– Eihei Dōgen, Il cammino religioso-Bendōwa, a c. de La Stella del Mattino, Marietti, Genova 1992 p. 69 ss.
– M.Y.M, Piccola guida al buddismo zen, Marietti, Genova 2000, p. 135 ss., p. 169.
– M.Y.M., La via maestra, Marietti, Genova-Milano 2005, p. 62 ss., p. 114 ss.
– M.Y.M., Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L’India e cenni sul Tibet, Marietti, Genova-Milano 2006, p. 186 ss.
– M.Y.M., Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. La Cina, Marietti, Genova-Milano 2009.

Vi sono poi testi che hanno affrontato a fondo il problema sebbene senza abbracciarne tutte le implicazioni, mi riferisco a:

– Bhikkhu Satori Bhante, Shintoismo, Rizzoli, Milano, 1997.
– Brian Daizen Victoria, Lo zen alla guerra, Ed. Sensibili alle foglie, Dogliani (CN), 2001.

In modo più esteso ma meno specifico è interessante:

– Massimo Raveri, Itinerari nel sacro. L’esperienza religiosa giapponese, Cafoscarina, Venezia 1984.

Tempo addietro ho letto un testo pubblicato in America (Pruning the Bodhi tree, The storm over critical Buddhism, J. Hubbard & P.L. Swanson, University of Hawai’i Press, Honolulu 1997) che tratta il problema del buddismo giapponese mettendo in evidenza i legami di buona parte di esso con la religione della giapponesità, Nihonkyo o Nihonkyō, con analisi filosofiche e dottrinali esaustivamente svolte. Tuttavia, a parte la difficoltà di reperirlo, il testo è di lettura veramente ardua.

Nello scrivere il commento al film L’Arpa Birmana ho usato il termine religione in modo ampio ma non generico. Estendendo il concetto a un ideale ultraumano per il quale l’uomo è disposto in certi casi (certi uomini sempre) a mettere a repentaglio la vita. Sia in senso tragico, come il drappello di soldati che va incontro a morte certa per mantenere alto l’onore e la purezza del Giappone, sia in senso di offerta, come il soldato Nishijima, che rinuncia al bene più grande -i.e. il ritorno al corpo/gruppo/Giappone- per motivi di pietà, seppure limitata ad una etnia. Per questo oltre che di Shintō (letteralmente Via dei/del kami) si parla di Nihonkyō, perché non solo è praticabile solo dai giapponesi (o dagli assimilati, seppure in subordine) ma perché ha come indirizzo, potremmo dire idolo, il kami, lo spirito del Giappone, un’entità che si identifica con la terra, il popolo, la cultura ma anche gli usi e costumi di una sola nazione.

Si racconta che quando il buddismo fu introdotto in Tibet era comune credenza che un genio, una divinità ctonia abitasse sotto le montagne del Paese Delle Nevi ricoprendone, sotto strati di roccia, tutta l’area geografica. Il Giappone, invece, la sua terra il suo popolo la sua cultura sono la manifestazione visibile di quello che è anche chiamato lo spirito di Yamato, mitico fondatore della stirpe/etnia giapponese (di composizione genetica per nulla omogenea al suo interno), eroe sconfitto, progenitore di tutti gli eroi giapponesi. Eroi che per essere veramente tali devono morire nel compimento della loro impresa: sopravvivendo non sarebbero che degli uomini qualunque, con tutti i loro difetti (cfr. Ivan Morris, La nobiltà della sconfitta, Guanda Milano 1983. Inoltre: Donald Keene a c. di, Kenkō, momenti d’ozio, Adelphi Milano 1975, e: Vittorio Volpi, Giappone, l’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano 2002). Per questo si dice che, nel Paese del Sol Levante, una storia a lieto fine è quella dove il protagonista muore tragicamente.

Tutto ciò ha origini antiche ed è stato ribadito più e più volte nella ridefinizione dei miti nazionali a mano a mano che la cultura dell’arcipelago prendeva forma e si trasformava: il mito di Yamato (che risale ad età incerta ma non prima del primo secolo d.C.), all’epoca di Shōtoku Taishi (inizio settimo secolo d.C.) si affianca ai tre potentissimi kami del buddismo: buddha, dharma e sangha. Quando, all’inizio del sesto secolo, il buddismo viene introdotto dalla Corea l’imperatore coreano suggerisce al (o convince il) suo omologo giapponese che la potenza di questi tre kami era superiore a tutti gli altri e perciò, il Giappone incorporandoli sarebbe diventato ancora più potente. Nel tredicesimo secolo il monaco buddista Nichiren, fautore (inventore?) del nazionalismo messianico, quando nel 1281 un potente tifone affonda la poderosa flotta mongola già in vista delle coste meridionali del Giappone, diffonde la voce che si è trattato del kami-kaze, il vento divino o vento degli spiriti superiori, espressione dello spirito/kami di Yamato -o spirito del Giappone dal momento che Yamato o Yamatai è anche il nome antico del Giappone mentre il termine “nippon” o “nihon” deriva dal cinese Jih-pen-kuo – kami nazionale divenuto invincibile anche per merito della sua (di Nichiren, naturalmente…) predicazione del buddismo e in particolare della diffusione del Sutra del Loto. Da quel momento grazie a Nichiren, ma non solo, si diffonde la convinzione che il Grande Giappone ha una grande missione da compiere nei confronti dei popoli di tutta l’Asia e poi del mondo. Come (per ora?) sia finita la storia è testimoniato dai pochi che sono disposti a fare i conti con i massacri dell’esercito imperiale nipponico: solamente in Cina vi sono stati dieci milioni di morti tra i civili, per lo più “per rappresaglia” (cfr. Furukawa Tairyu, Franco Sottocornola, Tannisho, Incontro con il buddismo della Pura Terra, EMI, Bologna 1989 p. 31).

Certamente, considerando questi enormi disastri parlare di religione può fare accapponare la pelle. Però, allora che dire delle crociate, dell’inquisizione cristiana, delle guerre di conquista e massacro in nome dell’Islam tra il decimo ed il tredicesimo secolo, delle guerre di conquista e massacro compiute dalle truppe dei Giudei per occupare la Terra Promessa dal loro Dio, narrate dalla Bibbia e mai rinnegate e condannate?

La religione giapponese ha i suoi lati sublimi, sia in senso estetico che in senso spirituale. A mio parere, in questo L’Arpa Birmana è efficace nel darne delle coordinate abbastanza comprensibili anche per chi non ne possiede il “codice” d’accesso. Un tipo di spiritualità che ha caratteristiche tali che se non volessimo definirla “religione” ci creerebbe serie difficoltà nel trovare un termine più adatto e rischieremmo, sulla base di analoghi motivi, di non poter più definire religione tutte, o quasi, le altre religioni. E’ vero, non è una religione universale perché è riservata ai giapponesi “puri” per stirpe e per cultura (chi trascorre un periodo all’estero e ne assorbe la cultura “altra”, diviene un “apostata” anche se di famiglia giapponese), ma anche l’appartenenza al popolo eletto per gli ebrei è soprattutto un fatto di stirpe: diventare ebrei, da questo punto di vista, è quasi difficile quanto diventare giapponesi e il negare, per questo, lo status di religione all’ebraismo metterebbe in crisi la globalità del concetto stesso di religione nella cultura occidentale, considerando le conseguenze che si riverbererebbero anche sulla storia religiosa cristiana e islamica.

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* Errata corrige de Discorso di riveglio alla fede

* Alcuni stralci da La via libera. Etica buddista, etica occidentale:

\-Il bandolo della matassa

\-L’ingiustizia buddista

\- Dietro le quinte dell’agire

* Alcuni stralci da Il sutra del diamante, la cerca del paradiso:

\-Il paradiso perduto dal capitolo 1.

* Alcuni stralci da Il buddismo mahāyāna attraverso i tempi, i luoghi e le culture. La Cina:
\-Raccontando lo star seduti in quiete dal II capitolo
\Errata corrige

* Alcuni stralci da Il buddismo mahāyāna attraverso i tempi, i luoghi e le culture. L’India e cenni sul Tibet:
\- La religione buddista
\- L’universalità mahāyāna
\- A scuola di religione
Particolarmente utile per chi usa il libro per studio o consultazione, qui potete trovare l’indice analitico dell’opera suddiviso in:
\- indice delle opere e delle raccolte
\- indice dei nomi e dei termini.
e:
\- l’errata corrige

* Alcuni stralci dal libro La via maestra:
\-L’introduzione
\- ll maestro e il potere (dal cap. II)

* La prefazione al libro “E se un dio non ci venisse a salvare?” a cura di Luigi Alfieri dell’Università Carlo Bo di Urbino.

* La prefazione al libro Intelligenza volse a settentrione a cura di Enzo Bianchi, Priore di Bose.

* Alcuni stralci dal libro Intelligenza volse a settentrione:
\- Il tempo perduto
\- Il tempo ritrovato

* Alcuni stralci dal libro Piccola guida al buddismo zen:
\- Lo zen e il ’68 (dal I° capitolo)
\- A gennaio perché

L’Occidente di fronte al buddismo
Ovvero libri di autori occidentali che hanno compiuto riflessioni a proposito del buddismo:

* Stephen Batchelor, Il risveglio dell’Occidente. L’incontro del Buddhismo con la cultura europea, Ubaldini 1995.
Il titolo si ispira al famoso libro di Spengler: Il tramonto dell’Occidente (Ed. Longanesi, Milano 1981. Brevemente analizzato nel primo capitolo de Piccola guida al buddismo zen) al quale vuole anche essere una risposta. Non è un libro sapienziale, è un libro di carattere storico enciclopedico. A parte alcune imprecisioni sulla storia recente del buddismo in Europa è una fonte molto vasta di notizie, per lo più ben documentate, dal secondo secolo a. C. sino ai nostri giorni. Ha una buona bibliografia storica.

 

* E. Fromm, Avere o essere, Mondadori, Milano 1976.
Esattamente trentanni or sono, Fromm vide con lucidità quasi profetica il budello senza uscita in cui si è infilata quella parte dell’umanità che ha basato sulla produzione di beni, sul loro possesso e sull’accumulazione della ricchezza lo scopo principale della propria vita, finendo per contagiare, o prevaricare, il resto dell’umanità.
Sul piano etico e comportamentale le soluzioni proposte da quell’autore sono orientate al bene, al rispetto, al riconoscimento dell’interdipendenza individuale e globale, una sorta di buonismo radicale ante litteram particolarmente nel momento in cui delinea la struttura caratteriale che dovrebbe avere «l’uomo nuovo»[1] quale protagonista di una nuova società, nella quale «un nuovo oggetto di devozione prenda il posto dell’attuale»[2]. In questo non vi è nulla di male, l’ingenuità può generare stupore ma per definizione è innocente e, spesso, nobile ed anche esteticamente gradevole. Tuttavia nella parte del testo in cui sono elaborate le proposte di soluzione ad un problema ottimamente identificato e descritto, vi sono alcuni errori di impostazione che, se ignorati, rischiano di trasformare quel testo nel suo opposto: da strumento di liberazione dell’uomo a sue nuove catene.
Il problema è proprio alla base del discorso, Fromm nel suo libro concepisce solo due possibilità: avere o essere, e tenta di leggere tutta la realtà umana secondo queste due categorie. Per convincerci della completezza onnicomprensiva di tale sguardo dualista sulla realtà, fa addirittura ricorso a quelli che definisce “i Maestri di Vita”: «Pure, i Maestri di Vita hanno fatto proprio dell’aut-aut tra avere ed essere il nucleo centrale dei rispettivi sistemi. Il Buddha insegna che, per giungere allo stadio supremo dell’essere umano[3], non dobbiamo aspirare ai possessi. E Gesù: “Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per me, colui la salverà. Infatti che giova all’uomo l’aver guadagnato il mondo intero, se poi ha perduto o rovinato se stesso?” (Luca, IX, 24-25)». [4]. Chiamare in gioco Buddha e il Cristo, tirandoli per la giacca a sostegno della propria tesi è un metodo errato di procedere, in ogni caso, ma qui lo è particolarmente.
Tralascio di analizzare la frase evangelica –anche se si potrebbe agevolmente svelarne l’intento, che trascende non solo l’avere ma anche ogni contrapposizione tra essere e non essere[5]- e prendo in considerazione l’aver chiamato a testimone il Buddha: il riconoscermi tra “i suoi” mi motiva a intervenire.
È vero -ci mancherebbe altro- che il Buddha, come ogni essere umano sano di mente, non incoraggia l’avere per raggiungere il fantomatico “stadio supremo dell’essere umano”, ma questo non autorizza in alcun modo a supporre che, per questo, la sua proposta religiosa sia l’essere. Si può ragionare in questo modo solo se, in una sorta di riedizione di Parmenide, si è già deciso a priori che tertium non datur, per cui se vi dico di non investire nell’avere, va da sé che vi voglio indirizzare verso l’altra unica possibilità dell’uomo, l’essere.
Per sostenere ciò occorre ignorare proprio i fondamenti del buddismo, come il Discorso di Vārānasī dove Buddha insegna che la vita dell’uomo è intessuta di dolore, che il dolore ha la sua causa prima nella brama, nella sete, nel desiderio e principalmente: a) nel desiderio di avere, b) in quello di essere e c) in quello di non essere.
Fromm pare sostenere che è sufficiente essere purché in tutte le sue forme etiche, buone, affettuose, amorevoli, per risolvere per sempre il problema della sofferenza ed entrare nello “stadio supremo dell’essere umano”. Duemilacinquecento anni di linguaggio intenzionale, di insegnamento fuori dalla dottrina, fuori dal pensiero discorsivo e dalle parole, di “apofatismo ontologico” per dirla con Panikkar, potevano esserci risparmiati, assieme alle vite costruite sullo zazen, i kōan, lo dzogchen, il śamatha vipaśyanā… Perché è sufficiente essere, magari con «fiducia […] nel proprio bisogno di rapporti, interessi, amore, solidarietà per il mondo circostante»[6] e la sofferenza insita nella struttura stessa di questo mondo scomparirà.
Incredibilmente ad un certo punto Fromm ricorre ad una personale riscrittura delle Quattro Nobili Verità, dicendo di quest’ultime che «costituiscono il fondamento dell’insegnamento del Buddha relativo alle condizioni generali dell’esistenza umana»[7] ma che secondo lui –e chissà poi perché- non si applicano «a casi specifici di malessere umano dovuti a particolari circostanze individuali e sociali»[8] svuotandole così d’ogni valore: se la mia sofferenza “in particolari circostanze individuali e sociali” non fosse compresa nel programma di salvazione buddista, per quello che mi riguarda il buddismo potrebbe anche andare a ramengo.
Infine completa la frittata affermando: «Lo stesso principio di mutamento che caratterizza i metodi del Buddha, è sotteso anche all’idea marxiana di salvezza»[9]. Pur prescindendo dal fatto che il “principio di mutamento” qui affermato è in palese contraddizione con uno “stadio supremo dell’essere umano”, paragonare la proposta di salvazione del Buddha, individuale, interiore, fuori da ogni rapporto col possesso, la produzione, la distribuzione e l’utilizzo di mezzi materiali con “l’idea marxiana di salvezza” che verte essenzialmente sul sociale e la giustizia etica, è un errore imperdonabile. Perché porta a ritenere che libertà interiore e libertà sociale siano coincidenti. La negazione di una possibilità di salvezza secondo lo spirito anche per lo schiavo.
Il buddismo secondo Fromm si rivela un vero e proprio guazzabuglio. Perciò se prendessimo per scontato che chi si avvicina al problema di fondo della nostra era, ovvero il trionfo della religione dell’avere, tentando un contributo alla sua soluzione secondo il buddismo, lo faccia necessariamente sul solo fronte dell’essere, equivale a cadere nel guazzabuglio da lui improvvidamente creato.
Tanto è lucida, puntuale e acuta l’analisi dei problemi che affliggono la società attuale declinata secondo la religione del profitto, tanto è banale la soluzione pseudobuddista che viene proposta. Soluzione che, forse, sarebbe stata invece interessante e valida e di buona utilità se fosse stata da lui ricercata, studiata e collocata nel campo della psicologia, della politica, della sociologia, dell’antropologia, del diritto. Per proporre una soluzione religiosa occorre vivere e praticare –a lungo- una religione, l’imparaticcio in questo campo è un grave errore. Non sto attribuendo legittimità di interloquire nelle cose di religione ai soli addetti ai lavori o ai “dottori della legge”, tutt’altro. Però vivere in modo religioso significa mettere in gioco la propria vita, non è qualche ora o qualche anno di studio o una discussione accademica che passa e scompare.
Il desiderio che si annida alle spalle della religione della “crescita”, è una forza così potente che rischia di mangiarsi l’incauto apprendista stregone che intenda fargli argine con le sole armi della cultura, della civiltà, del perbenismo. Come ottimamente (a mio parere) mostra Golding, nel suo Il Signore delle Mosche[10], la cultura etica in quanto sovrastruttura è perdente di fronte alle pulsioni più “basse”, quali la brama[11], la quale non richiede alcun ragionamento e alcuno sforzo per manifestarsi ed affermarsi, anzi: è pronta all’uso in quantità industriali (quasi) in chiunque.
Poiché è fuori luogo (oltre che pericoloso) chiedere alla religione di risolvere il sociale oppure, ed è lo stesso, sovrapporre la religione al sociale, se si vuole intervenire in una deriva mondiale così vigorosa e irruente occorre porre in gioco armi della stessa potenza degli interessi che hanno scatenato il problema. La forza del desiderio egoistico è la forza dell’io che si afferma in modo irriducibile, non la si può contrastare con i pannicelli caldi di “un nuovo oggetto di devozione”[12] costruito secondo il bene proposto dalla ragione. Chi accumula enormi ricchezze a spese della sofferenza e della morte di migliaia di persone non sostiene che ciò che sta facendo è bene: semplicemente se ne frega, perché assecondare il suo desiderio egotico è tutto ciò che gli interessa. Spiegargli che ciò che fa è “male” lo annoierebbe tanto quanto ci annoiano le raccomandazioni della nonna.
L’unica forza che può contrastare il desiderio egotico è un altro desiderio egotico più forte, o almeno equivalente. Sul piano della cultura, dell’informazione, dell’educazione è possibile un graduale passaggio da forme di egoismo idiota, miope, a forme di egoismo più intelligente, che conduca, perseguendo il loro stesso interesse, gli oligarchi a rinunciare alle briciole del loro guadagno, permettendo una sopravvivenza dignitosa dei molti e, assieme, del pianeta che ci ospita. Garantendo così anche agli oligarchi un futuro che, altrimenti, rischia di non esserci per nessuno.
Non è la soluzione del problema della sofferenza: le scienze sociali non esistono per questo. Non è la soluzione del problema della Giustizia in terra: non è cosa di questo mondo. Ma è realistico: fuori dal piano dello spirito, in cui la proposta del Buddha è accolta e coltivata, l’unica forza in grado di contrastare il desiderio è un altro desiderio, più forte o equivalente. Se nella tabella dei guadagni riusciamo ad inserire valori sempre più ampi (ora si arriva a malapena a preoccuparsi della famiglia, a volte solo dell’amante), ovvero rendiamo più intelligente l’egoismo (se muoio di infarto, o di cirrosi, o intossicato da psicofarmaci, o di cancro da inquinamento con 10 milioni di € in banca sono più pirla rispetto al campare con “soli” 5 milioni, ma sano…) esiste una speranza di invertire il corso degli eventi. Altrimenti non ci resta che la catastrofe totale, irreversibile o… sperare in “un dio che ci venga a salvare”. (Questo commento è un estratto dall’articolo “Spazio vuoto, spazio invisibile: un altro passo nella critica alla religione della crescita”, Interdipendenza n°3.)

[1] Avere o essere, p. 221 ss.
[2] Ivi, p. 175.
[3] È errato ritenere che il Buddha proponesse di giungere ad uno stato o stadio particolare detto “stadio supremo dell’essere umano”, anzi, la proposta buddista è nel continuo abbandono di ogni stato o stadio. L’unica meta esplicita è sempre e solo la via di liberazione dalla sofferenza.
[4] Erich Fromm, Avere o essere, p. 31.
[5] Si veda per esempio: «L’essere è il peccato, nel riconoscerlo come tale, nel negarlo, nel cercare di estinguerlo […] si giunge alla fine del pellegrinaggio, che consiste appunto nello sfrattare l’essere» e: «Dio può stare al di là dell’essere soltanto se l’esperienza che si ha dell’essere non è quella di una positività ma semplicemente di una carenza», cfr. Raimundo Panikkar, Il silenzio di Dio, Borla, Roma 1972, 230 s.
[6] Erich Fromm, Avere o essere, p. 221
[7] Ivi, 218.
[8] Ivi, 218 s.
[9] Ibid.
[10] William Golding, Il Signore delle Mosche, Mondadori, Milano 1980.
[11] Interessante l’etimo di questa parola: viene dall’antico gotico bramōn, muggire, bramire, urlare (per il desiderio).
[12] Cfr. nota 2.

 

* Henri de Lubac, Buddismo e occidente, soc. ed. Vita e Pensiero, Milano 1958. (E’ ora disponibile nell’edizione Jaca Book, Milano, 1986. I numeri delle pagine del commento sono relativi all’edizione originale).
Ottimo lavoro di un ricercatore serio ed attento. Dal punto di vista dell’accuratezza e dell’ampiezza della ricerca, nonché della documentazione bibliografica, a mio vedere è il miglior lavoro prodotto ad oggi sull’argomento. Percorre tutte le tappe delle tracce, vere e presunte, sul rapporto tra il buddismo e l’Occidente a partire dall’antica Grecia, fornendo sempre tutti gli elementi necessari per distinguere le ipotesi, le fantasie, le falsificazioni dai fatti narrati da autori e testimoni autentici. Offre un’ottima analisi delle distorsioni a cui svariati fattori (credenze, ignoranza, fraintendimenti, prevenzione, finalità di potere, infatuazione, strumentalismi ecc.) hanno contribuito a far sì che l’Occidente, sino a tempi recentissimi, non avesse una percezione della cultura buddista e della sua origine basata sui testi originali. Stupiscono le affermazioni contenute nelle ultime dieci pagine del testo in cui si definisce: «Stolta follia» (p. 344) l’accostarsi al buddismo e si afferma che: «Nietzsche stesso non avrebbe osato mettere i Sutra sullo stesso piano del Vangelo». A mio parere, nonostante i grandi pregi, questo testo contiene due errori, uno di metodo e uno di contenuto, riscontrabili nelle affermazioni finali di De Lubac. Il primo, discende dal fatto che l’autore (sacerdote gesuita) pretende di dare un giudizio sul buddismo ignorando (?) che non ha alcun senso l’analisi dall’esterno di questa religione, presa come oggetto. Il secondo errore attiene al contenuto. Infatti l’Autore considera scontata la definizione (che diventa prossima ad un’accusa) di “ateismo” riferita al buddismo. L’atteggiamento non teista (ottimamente compreso e spiegato da Raimond Panikkar né Il silenzio di Dio, Borla, Milano 1992, vedi infra) della predicazione di Śākyamuni è tale senza avere alcunché di negazionista o nichilista, per cui non è associabile in alcun modo all’ateismo in quanto negazione, rifiuto di Dio.

 

* Martin Heidegger, Oramai solo un Dio ci può salvare, Guanda 1987.
È un’intervista ad Heidegger, pubblicata postuma. In essa si fa riferimento esplicito a un declino dell’Occidente culturale e religioso ma, a differenza di Spengler, Heidegger non vede nel buddismo e specialmente nel buddismo Zen una possibile via di soluzione al problema. Tra l’altro le motivazioni che Heidegger porta a questa chiusura o negazione dimostrano chiaramente il suo fraintendimento della reale consistenza e collocazione dello Zen nel processo evolutivo antropologico. Questo tema (Heidegger e lo Zen) è ampiamente valutato in E se un dio non ci venisse a salvare? Sei conversazioni sul buddismo Zen (vedi infra) e in L’Oriente di Heidegger (vedi infra).

 

* M.Y.Marassi, Piccola guida al buddismo Zen nelle terre del tramonto, Marietti 2000.
La valenza della scuola Zen per l’uomo oggi, occidentale o orientale che sia. Lo Zen comincia a parlare italiano.

 

* Giangiorgio Pasqualotto, Il Tao della filosofia, Pratica 1997.
Il professor Pasqualotto, che insegna filosofia all’università di Padova, in questo testo (che ha come sottotitolo Corrispondenze tra pensieri d’oriente e d’occidente) colleziona una serie di saggi, i più minuziosi ed interessanti dei quali sono quello su Nietzsche e lo Zen e su Heidegger e lo Zen. È soprattutto un raffronto fra la lettera dei due ambiti. È l’unico libro italiano del genere.

 

* G. Pasqualotto, Il Buddhismo, i sentieri di una religione millenaria, Bruno Mondatori, Milano 2003
Libretto agile e conciso. Ha due capitoli dedicati rispettivamente al Buddhismo e l’Occidente e al Buddhismo e l’Italia ambedue di buona fattura (soprattutto il primo). La bibliografia annessa è particolarmente interessante per l’ampiezza dei temi ed il numero dei testi elencati.

 

* Carlo Saviani, L’Oriente di Heidegger, il melangolo, Genova, 1998.
E’ un testo estremamente curato che percorre con molta attenzione tutti i contatti che Heidegger ebbe con gli esponenti della Scuola di Kyōto ed altri praticanti e studiosi del buddismo ed in particolare dello Zen.

 

* Mauricio Yushin Marassi, Il buddismo mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – La Cina, Marietti, 2009. Non ostante la mole -oltre 400 pagine- il libro è riuscito realmente ad appassionarmi: merita soffermarsi nella lettura, soprattutto nella prima parte, nei primi 5-6 capitoli. Sia perché impegnativi, sia perché per chi non ha avuto l’opportunità di confrontarsi direttamente con quella cultura, alcuni argomenti -come le considerazioni legate alle espressioni del linguaggio e del pensiero cinese- sono novità estremamente interessanti, esposte con un paziente esercizio di intelligenza. Rispecchiandomi in quelle considerazioni, intuisco ad esempio quanto – presumo in virtù della pratica buddista – il mio modo di pensare negli anni sia diventato inconsapevolmente più ‘orientale’. Questo, forse, spiega le difficoltà di comunicazione che incontro col mio prossimo, a volte rigidamente vincolato al pensiero ‘rettilineo’.
Ho apprezzato, e mi auguro sia altrettanto apprezzato tra i praticanti e gli studiosi, lo sforzo di esplicitare il percorso che nel tempo ha apparentemente ‘trasformato’ il buddhadharma: contaminazioni e inculturazione (assieme a sincretismi e credenze) nei secoli hanno dato vita a quelle forme cui noi occidentali con sicurezza attribuiamo il nome ‘Buddhismo’; in realtà esse sono modelli nei quali la rivelazione del Buddha ha, per così dire, trovato un ‘passaggio’ lungo le strade del tempo e della storia.
L’autore ha riconosciuto, dopo il suo iter monastico, l’ambiguità del binomio cinesità-buddhismo (o giapponesità-buddhismo) e ha lavorato di bisturi alla ricerca di un piano di clivaggio metaforico che li separi, nella prospettiva di ridare luce alle componenti essenziali dell’esperienza di Buddha. Con buona pace di tutti coloro che continuano a vendere un certo esotismo di maniera spacciandolo per una preziosa gemma…
La sezione successiva, che presenta il daoismo, le sue affinità e la sua influenza sul buddismo, è complessa per l’abbondanza di informazioni storico-letterarie intrecciate a questioni semantiche o di grafia nonché a qualche ambizione a dialogare con – o forse punzecchiare – gli studiosi del “settore”. Qui il procedere è più freddo, lontano da quello che noi lettori ordinari siamo soliti ritenere un aiuto, un contributo alla nostra sete di letture che ci chiarifichino e ci predispongano alla pratica, nel dojo e nella vita quotidiana. Ci si muove sul piano delle ‘questioni da studiosi’, letteratura dotta, insomma.
Anche questa parte, tuttavia, induce importanti riflessioni; segnatamente quelle che invitano a distinguere il contributo daoista da quello buddista nel dare forma a ciò che verrà definito chan/zen: riflessioni che hanno una ricaduta sul piano della pratica individuale e ci permettono di vedere con maggior lucidità quanto alcuni nostri riferimenti mentali, primo tra tutti come intendere il vuoto, possano essere ridiscussi, relativizzati o addirittura lasciati cadere.
Sul piano delle forme che ha preso e, soprattutto, che potrebbe prendere il buddhadharma in Occidente mi pare assai utile aver fatto chiarezza sulla ‘moda della illuminazione’, su che cosa voglia dire, da dove derivi il concetto e poi, anche, cosa può comportare in termini di controllo sociale: illuminazione come normalizzazione, adesione alle regole formali, rituali e sociali; come pretesto per rafforzare la logica delle gerarchie, della sottomissione; come mito o oggetto di cui appropriarsi ecc.
Infine la retorica del ‘maestro’ e l’ipotesi della ‘gratuità’ come fondamento e garanzia di un proficuo rapporto maestro-discepolo: argomenti scomodi in un mondo dove si vende oramai qualunque cosa; dove piovono le offerte, non solo sul web, di ‘lezioni di dharma’ a pagamento, insegnamenti di tecniche e scuole varie, organizzazione di ritiri e o di iniziative di vario genere a carattere spirituale. Il dharma di Buddha non fa eccezione nel mondo della mercificazione: sarebbe interessante valutare il giro di affari, prevalentemente ‘in nero’. Un argomento che meriterebbe maggiore trattazione; che tuttavia fatica ad avere risonanza perché – temo – nulla è più lontano da noi, moderni animali economici, dell’idea della gratuità.
Due sono a mio avviso i fili conduttori rilevanti, che vengono mantenuti sempre tesi man mano che scorrono i capitoli e gli argomenti: il primo, il ‘mantenersi’ del nucleo originario del buddhadharma nel peregrinare attraverso varie trasformazioni (rinascite) in ambiti culturali differenti nel cammino verso Oriente. L’autenticità del messaggio originario viene a tal fine monitorata, seguita, verificata nelle varie tappe del suo cammino verso Oriente.
Il secondo filo conduttore l’ho ravvisato nella cura a ‘preparare il terreno’ alla inculturazione/rinascita del buddhadharma in Occidente attraverso il parallelismo storico della nascita del buddismo cinese, in particolare del Chan.
Per contro ho anche rilevato come, per essere un libro sulla Cina, ci sia molto parlare di Zen, almeno in taluni capitoli. Anche se ci sono tanti buoni motivi per utilizzare il buddismo giapponese per chiarire, esplicitare, approfondire o mostrare dove condurrà nel tempo una certa scelta, un certo percorso, la formazione zen dell’autore potrebbe aver in qualche modo influenzato la lettura di riferimenti storici e culturali a favore di un certo orientamento piuttosto che di un altro.
Ci sono ripetizioni: episodi come quello del braccio di Huike sono citati più volte; le note esplicative sono a volte ridondanti (già lo si è detto – o si dirà – nel testo). Questo tradisce – così come altri mi ha suggerito – come il libro sia stato costruito sulla base di capitoli scritti volta per volta, a distanza uno dall’altro ed infine assemblati. Anche se, presumo, alcune riprese di argomenti o ripetizioni non siano state volutamente eliminate per timore di rendere monco questo o quel capitolo. C’è comunque una quantità di informazioni, di nomi, di riferimenti davvero impressionante, che trova fruibilità immediata nei due indici analitici di cui è corredato il volume.
Infine la questione del target: mi pare in buona parte un libro per ‘studiosi’, storici delle religioni e filosofie orientali. Anche se è evidente il tentativo di allargarne la fruibilità ad altre fasce, ai praticanti in primo luogo, non è un libro destinato al grande pubblico.
Il risultato finale della lettura è stato, per me, una sorta di benefico svuotamento: come se mi fossi liberato di tante ‘idee’ relative al buddhismo ed allo zen che sonnecchiavano nelle mie circonvoluzioni cerebrali. Al punto che, finito il libro, ci si ritrova a chiedersi: ma di cosa mi sono occupato in tutti questi anni? Cosa è questo buddhadharma?
Questo libro, più che il precedente, costituisce una base di partenza per una letteratura colta sul buddismo in Estremo Oriente prima ed in Occidente poi. Almeno in Italia, ma presumo anche fuori, se ne dovrà tener conto, non potrà passare inosservato. Il ‘re’ è stato ben spogliato e denudato.

(A cura di Doc)

 
* Mauricio Yushin Marassi, Il buddismo mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – La Cina, Marietti, 2009.
Il viaggio continua.
Dopo il volume Il Buddismo mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L’india e cenni sul Tibet; il viaggio del dharma, continua attraverso la sterminata Cina, e Marassi lo segue svelandocene le tappe fondamentali.
Questo lavoro, non a caso, riprende il titolo del primo volume, che sarebbe consigliabile aver letto prima di accingersi alla scoperta di questo ricco testo. Ma cosa dobbiamo aspettarci di trovare in un libro che tenta di descrivere l’incontro fra due mondi? Non troveremo un’esposizione storiografica del fenomeno Buddista, ma piuttosto una presentazione a spirale del Buddismo attraverso una serie di nodi cruciali.
La prima questione che viene affrontata nel libro è il problema centrale, della trasmissione – laddove ve ne sia una – di un “quid” originario di ciò che noi oggi denominiamo Buddismo. Al riguardo leggiamo queste righe (pagg. 17-18):
«Mentre mi accingo ad avventurarmi in territorio cinese, sulle tracce di un pesce dorato che nell’anno zero scavalcò l’Himalaya, nella curiosità che dirige il mio procedere la domanda che più mi coinvolge indaga proprio per capire se in quel mondo misterioso il limite senza limite sia stato violato o meno: c’è qualche cosa nei buddismi nati in Cina che già non sia contenuto nella cultura buddista indiana? Oppure: è possibile un buddismo così evoluto che possa prescindere anche dalla sua nascita?»
Come possiamo evincere da queste righe la questione è fondante e Marassi la pone in modo immediato. In questo modo ci vengono forniti degli strumenti ermeneutici indispensabili per seguire il viaggio del dharma dalla sua nascita (o “non nascita”), al suo incontro con la cultura cinese.
Queste pagine hanno una funzione storiografica, ovvero ci danno le coordinate indispensabili per seguire l’evoluzione storica del Buddismo, infatti, il secondo nodo affrontato nel testo, è volto ad evitare un’errore comune a quanti tentano di definire un’ermeneutica della storia del Buddismo: confondere ciò che è una forma, e quindi qualcosa d’impermanente, con ciò che è il fondamento, che poi sarebbe un non fondamento, del Buddismo. Se non si pone questa attenzione, non solo si rischia di scrivere cose inesatte, ma si trasmette un dharma “pericoloso”, potremmo dire che si “afferra il serpente in modo errato”.
Questa, che noi abbiamo definito forma di attenzione, emerge in vari luoghi in questo lavoro.
Queste righe di Marassi possono darci un’idea di questo particolare aspetto (pag. 20): «In termini funzionali, operativi, la condizione di vuoto che sottostà all’impermanenza è la peculiarità che rende riconoscibili – e perciò affidabili – i buddismi, i quali si manifestano con capacità/esigenza di esistere pur in assenza di una struttura fissa: in qualche modo il buddismo è obbligato a usare le strutture che incontra perché il vuoto intrinseco a ogni ente è anche la sua condizione. Così, se il buddismo non è mai la struttura in cui appare, essendo questa contingente, per vederlo occorre non confonderlo con la forma, con tutto ciò che riempie il vuoto che lo costituisce».
Una volta equipaggiati degli strumenti necessari per leggere il cammino storico del dharma, il testo affronta un’altra questione centrale, ovvero la differenza linguistica che vi è tra il nostro linguaggio fondato sul “logos” e il linguaggio cinese fondato sugli ideogrammi.
Non è distinzione da poco, infatti, da questa differenza scaturisce una differenza di cosmologie. Queste pagine sono molto dense e ricche di riflessioni filologiche, non mancano richiami a Semerano e Austin.
In Cina da sempre ciò che ha unificato le varie etnie non è mai stata una lingua bensì una scrittura. Una determinata “res” esiste solo se è rappresentata da un segno che la descrive; comprendiamo quindi come sia fondata, in questa cultura, l’esigenza posta da Confucio di ordinare i segni. Ordinare i segni significa ordinare la realtà. Quando il Buddismo arriva in Cina incontra una cultura con una tradizione filosofica secolare, ovvero incontra un universo di segni con delle radici molto profonde. Se questo incontro fosse avvenuto tra Buddismo e filosofia Greca avremmo detto comunque che tale confronto avveniva tra Buddismo e una tradizione filosofica secolare, ma ciò che muta è il senso che diamo a quel “filosofico”: mentre in Cina il “logos” , inteso come discorso, parola, suono, non è fondante, lo è, di contro, per la filosofia Greca, ma dovremmo dire con più esattezza per tutta la filosofia occidentale.
Una tale differenza non è astratta, puramente linguistica, ma è causa di differenze che oggi noi possiamo riscontrare con forza. Queste differenze, scaturite da una diversa concezione linguistica, devono essere continuamente tenute presenti, ma vediamo come scrive Marassi al riguardo (pag. 52): «Un interessante aspetto che – spero – in futuro venga accuratamente esaminato è il seguente: confucianesimo e daoismo hanno rilevanza culturale, religiosa, filosofica in un Occidente che pare in grado di considerare ammissibili solo i valori e i paradigmi nati e sviluppati all’interno della propria storia? Oppure, culture e religioni così radicalmente diverse non hanno nulla da scambiarsi e da giovarsi perché inapplicabili fuori dal loro contesto? E se invece questa radicale diversità fosse la sponda ideale dalla quale guardare al nostro mondo per meglio vederne i limiti e i contorni? Le parole “filosofia” e “religione” in quella parte del mondo non sono mai esistite sino a tempi recenti quando sono stati accostati appositamente ideogrammi per tradurle dalle lingue occidentali. Abbiamo così zhe xue, “studio della saggezza” per filosofia e zhong jiao, “insegnamenti di una setta/chiesa ” per religione. Ma è così anche per “politica”, “rivoluzione”, “costituzione”, “persona”, “diritti umani” e tante altre parole la cui assenza nel contesto antico di fatto costringerebbe a usare neologismi o approssimazioni nella “traduzione” di quelle categorie. Viceversa, e questo incide sul lavoro attuale, sono presenti numerosi elementi linguistici che rimandano a un significato del tutto o in parte assente nel nostro pensare e in questo caso la resa nella nostra lingua di quei termini rischia di essere fuorviante o sminuente; per esprimermi in “cinese”: la rana nel pozzo non sa parlare del mare».

Dunque il dharma proveniente da occidente giunge nella sterminata Cina. Due sono i pilastri culturali che il Buddismo incontra: il Confucianesimo ed il Daoismo. Sono molte le pagine che Marassi dedica a questi due universi di senso. Vogliamo definirli così: “universi di senso”, infatti, dalla lettura di queste pagine emerge proprio questo aspetto: il Confucianesimo, il Daoismo non possono essere definiti, non possono essere rinchiusi in determinati confini semantici. La potenza di Confucio, intesa come influenza diretta sull’evoluzione storica di un popolo, di una nazione, è palese e sconvolge in quanto ad efficacia e continuità. L’incontro del Buddismo con “un tale universo di senso” non è scevro di problematiche. E ancora dalle pagine di Marassi emerge una costatazione puntuale: in India l’Induismo alla fine ha assorbito il Buddismo, facendone una sua forma, allo stesso modo in Cina il Confucianesimo ha dissolto il Buddismo. Tale dissoluzione ha dato origine ad un Buddismo totalmente succube dell’efficacia sociale del Confucianesimo. Vogliamo leggere queste righe di Marassi che bene esplicano questo concetto (pag. 103): «Il confucianesimo finalizza il “lasciare andare”, l’esimersi dall’agire secondo la propria volontà o dall’imporla, all’assunzione della forma rituale perché considerata l’unica valida, o quantomeno la più valida. In questo mio non ergermi come soggetto autonomo, eccentrico, assumendo la forma “standard” c’è la realizzazione fattuale dell’ordine naturale, quindi l’ordine poggia sulla scomparsa dell’affermazione delle individualità in ogni ambito relazionale. Questa è la potenza e la malattia dell’Estremo Oriente: una capacità di omogeneità enorme che permette coesione e perciò efficacia a spese della rappresentazione delle pulsioni individuali, intese come dissonanti ossia fautrici del disordine».
L’incontro tra Buddismo e Confucianesimo e tutta la sua evoluzione è analizzato in modo dettagliato da Marassi. Non mancano prese di distanza da un Buddismo sino-giapponese che vorrebbe proporsi oggi in occidente, come l’autentico dharma.
Ma, non basta fare i conti con Confucio, l’autore affronta l’altro “universo di senso”: il Daoismo. Qui le difficoltà maggiori sono nel tracciare con chiarezza le differenze, per evitare equivoci di senso. Vi sono passaggi, specialmente, nel Zhuangzi molto vicini ad una sensibilità Buddista, su tutti i concetti di via e vuoto; al riguardo ecco cosa scrive l’autore (pag. 186): «Nel daoismo del Laozi e del Zhuangzi “via” e “vuoto” hanno una collocazione e un senso diversi dai loro omologhi buddisti: nel buddismo delle origini il termine “via”, “sentiero” non aveva una valenza particolare; mutuato dalla cultura indiana precedente indicava sì il procedere ma legato all’intenzione “dietro” al comportamento, è il procedere di chi usa la propria vita secondo un progetto religioso: il Nobile Ottuplice Sentiero è la vita dell’uomo secondo gli insegnamenti etici, gnostici e di pratica interiore impartiti dal Buddha. Non è l’ideale cosmico dell’assecondare il flusso naturale come inteso dai daoisti e neppure mantenere l’ordine e l’armonia attraverso la giusta forma di comportamento. Ancor più è marcata la differenza se parliamo del vuoto: l’aggettivo shunya qualifica tutta la realtà in quanto priva di vita propria, o svabhava, e il sostantivo shunyata è semplicemente il nome di questa condizione di assenza, non è – come nel daoismo – un luogo metafisico, la parte non ancora esistente del fenomeno, un’essenza così piena da essere più piena del pieno. L’identità profonda della gnosi delle due tradizioni, buddista e daoista, arriva sino alla realizzazione del vuoto interiore ma poi si divarica irrimediabilmente: l’identità col vuoto nel buddismo di Nagarjuna è la scomparsa del mondo nel mondo, è la vita privata del suo pungiglione: l’attaccamento alla vita stessa. Per il saggio daoista procedere verso il vuoto è la via, Dao, di identificazione con il latente, la radice, l’origine».
Dopo aver preso in esame queste argomentazioni, ricche di spunti di riflessioni e di ulteriori ricerche, il libro affronta temi più specifici sul Buddismo in Cina. Vengono prese in esame le prime scuole, la loro gestazione, i loro primi passi. Non mancano rimandi agli sviluppi che avranno in Giappone.
Troviamo riflessioni molto interessanti sulla costruzione dei lignaggi, elementi essenziali per legittimare storicamente una scuola. In Cina assistiamo ad una vera opera di architettura storica ex novo. Se vi è stata una costruzione storica è grazie all’opera di tanti pellegrini che affrontando viaggi, spesso mortali, hanno trasportato, trasmesso, attraverso i sutra quello che era il dharma autentico.
Incontriamo delle pagine che affrontano l’evoluzione storica della traduzione di tali sutra. Quindi Marassi si sofferma sulla figura del traduttore Kumarajiva, ma non solo su di lui. Avendoci fornito gli strumenti ermeneutici adeguati riusciamo a comprendere l’immensa opera di questi traduttori. Comprendiamo il tempo e la fatica necessaria per riuscire a trasmettere quel senso che è al di là delle parole, dei ragionamenti, ovvero la traduzione di ciò che è denominato “linguaggio intenzionale”. L’autore per facilitare una tale comprensione utilizza passi tratti dalla tradizione Cristiana.
Al koan è dedicato un capitolo specifico, ciò che è molto interessante in queste pagine dedicate al koan è l’utilizzo di Merton e del suo celebre Lo zen e gli uccelli rapaci. Merton è “manipolato” da Marassi per presentare questa scuola in un modo più diretto a chi, come noi, fa fatica ad afferrare determinati passaggi perché lontani dal nostro linguaggio, dal nostro modo di pensare. Tuttavia non mancano prese di distanza da Merton e queste sono ancora più importanti per comprendere ciò di cui si sta parlando.
Il capitolo XI è davvero interessante: vi sono presi in esame in modo dettagliato due trattati non molto conosciuti: Il trattato del risveglio della fede nel Mahayana e Il trattato delle due uscite e delle quattro pratiche. Questo capitolo riprende temi toccati nelle pagine precedenti, ma gli dà una luce diversa e molti argomenti trovano una nuova collocazione. Il trattato del risveglio della fede nel Mahayana è fonte di riflessioni sul rapporto tra individuo e autenticità del dharma.
L’appendice finale apre uno scorcio sui nostri giorni, sulle conseguenze, della cultura Cinese prima, Giapponese poi, sul Buddismo oggi presente in occidente.

(A cura di Gennaro Iorio)