(Accanto alla…)

Anche qui si dice che diventiamo un buddha nella misura in cui progrediamo in armonia con noi stessi, sedendoci con energia (19). Se non fosse così, anche zazen sarebbe una pratica di mortificazione ascetica. Lo zazen di “diventando un buddha” è detto l’insegnamento dello zazen della quiete nella pace.
Praticare nella concentrazione, senza distrazioni è quiete in pace.

Dal momento che zazen è diventare Buddha nelle proprie condizioni ordinarie, così come siete, non è semplicemente il Buddha che è solamente il Buddha. E dal momento che è una persona comune a diventare Buddha, non si tratta solamente di una persona comune, ordinaria. Sebbene sia Buddha non è Buddha (20). Questo insegnamento è riassunto nell’espressione: non uno, non due. Oppure, più semplicemente, è l’insegnamento del “non due”. La via di Buddha è l’insegnamento del non due.

Se parliamo del kendō (21) in termini di buddismo, possiamo dire che il kendō non è per uno né per due. Vi è solo un unico sforzo che è quiete nella pace. Se il kendō non è per uno né per due, per chi (o per che cosa) è? E’ lo stesso per ciò che riguarda lo zazen. Zazen non è né per i buddha né per le persone ordinarie (22). Per che cosa (o per chi) è lo zazen? Non di meno vi è semplicemente zazen. E’ da questo punto di vista che possiamo comprendere shikantaza, lo zazen che è “star semplicemente seduti”. In termini buddisti possiamo dire che anche il kendō è shikankendō: solamente, semplicemente non altro che kendō.

Il mio insegnante soleva dire: “Non risparmiate alcuno sforzo. Di solito, le persone mantengono qualche riserva quando compiono uno sforzo o un’impresa. Se trattenete in questo modo la vostra disponibilità qualsiasi cosa facciate i vostri sforzi saranno di poco conto. Mantenete questo tipo di riserve ogni volta che dite: “Non è giusto, non mi piace, non ce la posso fare”.

Quando dite: “Va bene! Ci voglio proprio provare!” ed esercitate lo sforzo necessario affinché “nove per nove ottantadue”, non vi è nulla che non possiate fare. Questo è possibile perché noi esseri umani, signori di tutta la creazione (23), siamo in grado di porre in essere sforzi che sono al di là delle nostre capacità normali. Nei termini dell’insegnamento buddista possiamo dire che il segreto che svela se una persona ha risvegliato dentro di sé la Mente di Buddha è la sua volontà di farlo.

Una sera, nel monastero di Shōrin (24),
al limitare del bosco coperto di neve
il freddo acuto che penetra nelle ossa, cosa rara tra gli uomini
si tagliò un braccio e raggiunse l’intima essenza.
Solo coloro che sanno, avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi
.

Bodhidharma viaggiò dall’India alla Cina. Siccome l’India si trova ad Ovest della Cina, quell’avvenimento è detto: “Il viaggio dall’Ovest”. Dopo aver viaggiato dall’Ovest, si stabilì in un’ala del monastero Shōrin. Dove si sedette con il volto verso il muro. Eka Daishi fu il primo a praticare sotto la direzione di Bodhidharma. Bodhidharma fu il primo patriarca cinese e Eka il secondo.

Nevicava la sera in cui, per la prima volta, il secondo patriarca si recò a Shōrin per incontrare Bodhidharma. Non fu ammesso al suo cospetto e tutto quello che poté fare fu starsene in piedi, fuori, nella neve. Si dice che venne la sera e che la neve avesse raggiunto l’altezza del suo petto prima che gli venisse rivolta la parola. In risposta alla replica di Eka che affermava di essere venuto in cerca del Dharma, il fondatore disse: “Non è una questione semplice”. Il secondo patriarca che aveva ben compreso ciò, come prova della sua determinazione si tagliò un braccio e lo offrì a Bodhidharma. Il quale disse: “In questo caso…” e lo accettò come discepolo. Questo è il racconto di come il secondo patriarca giunse alla realizzazione del Dharma, del vero insegnamento. Sebbene si dica “si tagliò un braccio” credo si tratti di un’espressione simbolica per “solo coloro che sanno, avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi ”. Mettere da parte il proprio corpo significa mettere in atto uno sforzo al di là delle proprie normali capacità. Dōgen, riferendosi a questo aspetto, dice “gettare via il corpo”, così come nove per nove diventa ottantadue. Nove per nove è ottantuno (25), ma noi pratichiamo la Via con l’energia che occorre per far sì che sia ottantadue. E’ l’energia che in termini buddisti è chiamata retto sforzo (impegno).

Nel buddismo l’impegno, lo sforzo, non è limitato a questa vita. Comprende la risoluzione di praticare per innumerevoli nascite e morti, per l’eternità. Anch’io devo avere la risolutezza di praticare in questo modo. Se sarò in grado di assumere questa risolutezza, un senso di pace trascendente sarà il risultato. Proprio perché questa mente in pace e il satori, la comprensione, sono uno, sono identici, non è questione di comprendere qualche cosa, di essere illuminati o risvegliati a qualche cosa, piuttosto è richiesta la risolutezza di praticare la Via di Buddha con il giusto impegno – ricavando ottantadue da nove per nove – per l’eternità. Se sarò in grado di vivere con questa saldezza dentro di me, io stesso sarò eterno. Ecco quindi che il satori, la mente e il cuore della pace, è diventare l’eternità: l’eternità universale senza limiti.

Quando nove per nove è ottantuno vi è una restrizione. Ciò che ha restrizioni è limitato (cfr. nota 24). Nel kendō, quando si dice “se raggiungi quel livello sarai al top”, ecco questo è kendō limitato. Così pure, se qualcuno si sente soddisfatto perché in un grande torneo è risultato essere il numero uno in Giappone, per quanto questo possa sembrare magnifico, dopo tutto non è che autolimitarsi. Per liberare il kendō dai suoi limiti dobbiamo praticarlo non solo per questa vita ma per l’eternità. Se faremo ciò, il kendō, come il buddismo senza limiti, perderà i propri limiti. Sarà kendō illimitato. Anche un bambino che impugni una spada di bambù per la prima volta sta praticando il kendō privo di limiti.

Poiché zazen è zazen eterno e senza limiti, è così anche per chi si sieda per la prima volta. Non è una pratica limitata ad un periodo che noi decidiamo con noi stessi pensando: “E’necessario sedersi per tot anni e così farò”. L’unico satori veramente effettivo, per così dire, è zazen eterno e senza limiti praticato con costanza ad ogni istante per sempre. Tutti gli altri ottenimenti e tutte le altre apparenze che puzzano di satori non valgono nulla. Quando qualcuno studia il buddismo perché vuole ottenere questo e quello, o vuole diventare così e cosà, stabilisce da se il proprio recinto. Questo non è il “senza limiti”.

Spero sinceramente di essere pronto a compiere lo sforzo necessario e ad avere la risolutezza di praticare la Via del Buddha. Una via in cui bisogna essere pronti a praticare per innumerevoli rinascite e uno sforzo che non si limiti a realizzare che nove per nove è ottantuno ma, piuttosto, a raggiungere l’ottantadue privo di limiti e di restrizioni.

Se volessimo porre una condizione limite a questa pratica, dovrebbe essere la risoluzione di proseguirla per l’eternità. Dal momento che questa è la condizione della pratica del vero zazen, che cosa ne pensa di prendere questa risolutezza come “limite” per la pratica del kendō?
Questo è l’illimitante limite.

Lettera al signor Masanori Yuno, vice presidente della federazione di Kendō di Tōkyō

Yokoyama Sodō

Komoro, 28 Febbraio 1977

Note alla traduzione:

19) Un altro modo di rappresentare quello che nella nota 11 è stato descritto come “retto sforzo”.

20) In questo passo Yokoyama dice due cose contemporaneamente; la prima è quella cui tentiamo di dare una spiegazione con la nota 9: «non bisogna pensare che “prima” vi sia un momento in cui siamo preda dell’illusione e “poi” l’illusione scompaia e vi sia l’illuminazione». Ovvero: la condizione di risveglio e illusione non appartengono a tempi diversi. La seconda è che Buddha non è illusione, un’idea o uno stato particolare. La contemporaneità di due è mutevolezza: è non due e né l’uno né l’altro. Anche l’ordinarietà, associata al risveglio, non è più tale. Quella contemporaneità è detta non due.

21) Il kendō, letteralmente “via della spada”, in Giappone ha (ha avuto?) un importanza particolare. E’ stata identificata, specialmente nel periodo del militarismo espansionista (1870-1945), con il bushidō, la via del guerriero ed ambedue sono stati equiparati allo Zen, tout court. Alla luce delle analisi odierne, appaiono chiari gli intenti strumentali di questa confusione, mirante a nobilitare la miserabile arte, detta guerra, di portare morte e distruzione ad altri popoli. Al di fuori delle strumentalizzazioni e delle deviazioni a livello delle umane tendenze, il kendō è una disciplina, profonda e rigorosa, che può contribuire in modo notevole alla formazione di un carattere nobile e di una personalità limpida. Al pari del judō (la via del cedevole), dell’aikidō (la via dell’incontro con l’energia vitale), del sadō (la via del tè) ecc.

22) Zazen (come pure il kendō) non è “per”, il suo modo di essere non è finalizzato. Come una rondine non esiste “per”, qualsiasi sia questo “per”. Inoltre, non si può distinguere tra buddha e persone ordinarie nell’insegnamento del non due, quindi, anche da questo punto di vista, non si può dire che zazen sia per i buddha o per le persone ordinarie: come tali non sono identificabili in modo univoco, né gli uni né le altre.

23) Formalmente è un’espressione affatto inusuale in uno scritto buddista. Di solito, in questo ambito l’eccellenza della condizione umana è celebrata da tutt’altra angolatura: tra i sei mondi della creazione (cfr. nota 5) la condizione umana è considerata la più adatta ad ascoltare e realizzare l’insegnamento del Buddha. Al di là della formula verbale utilizzata, anche in questo caso quello è il senso della frase.

24) Lettura giapponese di Shaolin, il nome del monastero nel quale Bodhidharma, una volta arrivato in Cina, praticò per nove anni, seduto, con il volto verso il muro ed in cui accolse il suo successore Shenguang Huiko (in g.: Shinkō Eka ed anche Eka Daishi).

25) Di solito pensiamo che nove per nove sia ottantuno ed in un certo ambito possiamo dire che sia realmente così. Tuttavia, nel buddismo Zen, nove per nove non è né ottantuno né ottantadue. A volte diciamo che nove per nove è nove per nove ma, a ben vedere, se così pensiamo non abbiamo capito nulla. Qualcuno sostiene che chiedersi “quanto è” nove per nove equivalga a chiedersi quanto pesi 24,3 oppure di che colore sia 51. Non sono grandi risposte ma anche tacere, in questo caso, non aiuta. Per questo Dōgen disse: “Nove per nove ottantadue”.

(Trad. dall’inglese e note a cura di Mauricio Yūshin Marassi)

In questa pagina, in giapponese, è possibile trovare varie foto di Yokoyama Sōdo rōshi, in una (oltre ad un giovane Uchiyama) compare Jōshin san, l’unica discepola di Sawaki rōshi.

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One Response to “Terza parte”

  1. Paolo Sacchi Says:

    Magnifico Yokoyama. Non manca nulla, nulla che ecceda. Complimenti a chi ha scovato e curato questa rara chicca di un autore così pudico nello scrivere…

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