(Scontro di civiltà o…)
IV. A che serve la religione
Sono ancora debitore a Panikkar di molti spunti in questa direzione. Nel suo libro “Pace e disarmo culturale” a pag. 58 egli scrive: «Per “disarmo culturale” io intendo l’abbandono delle trincee nelle quali si è barricata la cultura “moderna” di origine occidentale che considera acquisiti e non negoziabili valori come il progresso, la tecnologia, la scienza la democrazia, il mercato economico mondiale, nonché le grandi organizzazioni sopranazionali. Si comprende quindi perché l’espressione non è fuori luogo. Il disarmo rende vulnerabili e deve essere realizzato a poco a poco, ma è condizione essenziale per poter stabilire un dialogo in condizioni di parità con tutte le culture della terra. Ci si deve rendere conto che il dialogo, dal quale tanto ci si aspetta, è assolutamente impossibile se non si parte da condizioni di uguaglianza. E’ persino vergognoso parlare di dialogo a che sta morendo di fame, a chi è stato privato della dignità umana o a chi neppure sa di che cosa si sta parlando, perché la sofferenza o la diversa cultura lo mette nell’incapacità di capirlo. E’ opportuno insistere su questo punto. Con “disarmo culturale” o “disarmo della cultura moderna” intendo alludere a un cambiamento radicale del mito predominante dell’umanità contemporanea, di quella parte dell’umanità che più alza la voce, che è più influente, ricca e che regge i destini della politica. Non è questo un lavoro né di tipo giornalistico né tantomeno storico. Il nostro punto di riferimento non è la politica di cui si legge sui giornali e nemmeno la coscienza storica, dato che ciò che si mette in discussione è il mito stesso della storia. Si può pensare che ciò che propongo sia un’utopia. Può darsi; però più che il valore delle utopie in questo caso bisogna tenere presente che l’alternativa è la catastrofe umana e planetaria».
Ma non è questione di utopia, perché non si tratta di realizzare una società ideale, un mondo perfetto, una civiltà definitivamente felice. Il disarmo non è il punto di arrivo della pacificazione alla fine dell’ultima guerra, è il prerequisito, la precondizione della pace.
Per questo penso si debba parlare di disarmo religioso, piuttosto o quantomeno prima di parlare di disarmo culturale – perché solo il disarmo religioso può essere lo stimolo e la traccia, il coefficiente di fattibilità del disarmo culturale che attua la pace.
Le culture non hanno il disarmo nel loro bagaglio genetico, anzi, per potersi affermare come portatrici di senso e di valori sono semmai indirizzate a dimostrare la propria vitalità attraverso il conflitto. In particolare la cultura oggi dominante, che alimenta il mito di essere portatrice di valori universali e ottimali, e che giustifica dunque la propria aggressività come mezzo per portare l’annuncio e la diffusione di quei valori fino ai confini del mondo, per il bene di tutti. Non si può dunque chiedere alla cultura (a nessuna cultura) di disarmare, facendo appello solo a se stessa; né la paura della catastrofe può essere un deterrente sufficiente: lo è soltanto quando già la catastrofe è irreversibilmente in atto, come insegna la storia.
Per comprendere il valore e la necessità del disarmo, bisogna attingere a un’altra visione del mondo, a una visione che abbia la stoffa del disarmo. La religione è il solo ambito umano in cui il disarmo sia la norma: ecco perché di disarmo religioso credo sia più appropriato e proficuo parlare.
Intendo dire che la religione, nel suo aspetto più intimo, peculiare e essenziale, è in sé disarmo, resa incondizionata, unilaterale – non però al nemico, al vincitore, al più forte, dopo la sconfitta. Quale che sia il riferimento “ultimo” di una fede (Dio, Nulla, Cosmo, Natura, Assenza o non attribuzione di riferimento ultimo…) il dato che caratterizza il fenomeno religioso è proprio l’abbandono incondizionato a “quella realtà” – tutte le religioni sembrano concordare almeno su questo punto.
Ora, se questo disarmo è solo un atteggiamento interiore, intimistico, che non ha però riscontro nel comportamento pubblico, sociale dell’individuo, allora l’uomo diviene alienato, scinde la realtà in due ambiti (privato e pubblico – religioso e sociale) ed è già in un’atmosfera di conflitto (perlomeno interiore). Se invece è l’impronta di tutto il comportamento umano, dentro e fuori di sé, allora il disarmo religioso diviene il parametro del disarmo culturale, economico, militare…. il parametro di una cultura di pace.
Credo che questa sia la peculiarità della religione, ciò che contraddistingue il fenomeno religioso: la religione ci indica un percorso e ci dimostra un’esperienza in cui il disarmo non è il segno della sconfitta, l’umiliazione del vinto e l’imposizione del vincitore, ma una scelta di vita e di libertà, la finestra su un modo nuovo di concepire se stessi e la relazione con gli altri.
Oltrettutto la religione (qui, le religioni) ad altro non serve: tutto il resto, la cura del mondo, l’avventura del pensiero, la relazione fra gli esseri, la scoperta del vecchio e del nuovo, conviene lasciarlo alle varie discipline delle tante culture umane. Che di queste materie pretenda occuparsene la religione è solo il segno della cattiva coscienza dei religiosi e della loro radicale sfiducia nell’uomo.
Il carisma della religione (di nuovo, delle religioni) è il tutt’altro dal mondo: non perché ci sia un altro mondo, ma perché la religione è la funzione non mondana nel mondo. Questo e nient’altro le religioni raccontano.
Mi limito a citare qui due riferimenti tradizionali religiosi che mi sono famigliari. In un testo buddista del XIII secolo, troviamo la seguente descrizione della Via che Buddha ha indicato nel percorrerla: “Apprendere la Via di Buddha è apprendere se stessi – apprendere se stessi è dimenticare se stessi – dimenticare se stessi è essere inverati da tutte le cose – essere inverati da tutte le cose è libertà nell’abbandono di sé e di altro da sé”. Sono molte le implicazioni di questa espressione, ma per quello che interessa il nostro tema essa ci dice che è esattamente nel disarmo, nell’abbandono della rivendicazione di un’identità separata che si rivela la nostra autentica identità e si avvera l’incontro fra sé e altro da sé che è costitutivo di tutta la realtà.
L’indicazione evangelica “Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” non è certo un invito a farsi mangiare, a farsi vittime sacrificali, a diventare facile preda dei violenti per esorcizzare la violenza – se così fosse in breve tempo non resterebbero che lupi pronti a sbranarsi fra loro. E’ invece l’indicazione di un modo di fare inconcepibile, perché non può essere un pensiero a sostenerlo, è la testimonianza di una possibilità inaudita, perché tutta la storia va in direzione opposta: ma è l’unico segno possibile e inequivocabile di pace. “Il tema della pace, scrive ancora Panikkar, è una sfida alla logica e alla storia. Ma né la logica né la storia costituiscono l’intera realtà”.
Entrambe le espressioni, quella buddista e quella cristiana, indicano chiaramente il cuore dell’atteggiamento religioso. E questo, io credo, dovrebbe essere il contributo della religione alla vicenda umana, dischiudendo le porte alla speranza concreta della pace.
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