Gli occhiali di Dōgen
Ancor più di oggi in Occidente, nel Giappone del XIII secolo la trasmissione del buddismo si era stratificata, accumulata in modo scolastico e parziale. Poiché nessuno lo aveva ancora mostrato con un esempio di vita chiaro e lampante, non vi era alcun modo per riconoscere -neppure in termini approssimativamente attendibili- la natura essenziale del buddismo distinguendolo dalle incrostazioni sedimentatesi in India, Cina, Corea e Giappone in mille e ottocento anni di storia, sincretismi, aggiunte, inculturazioni e fantasie.
L’elemento oggettivo più interessante nell’utilizzare Eihei Dōgen(1) nel presentare il Buddismo nel suo complesso e non solo come buddismo giapponese, risiede proprio in questo: l’India era assai lontana culturalmente e linguisticamente prima ancora che nella geografia, Dōgen non conosceva né il sanscrito né il pāli e neppure risulta abbia mai avuto occasione di incontrare un religioso indiano; per la conoscenza/studio del “buddismo” dipendeva interamente dai testi cinesi e poteva attingere solo a resoconti di seconda o terza mano per ciò che riguarda la realtà del buddismo indiano che, per di più, a quel tempo era già praticamente scomparso.
Come nel “telegrafo senza fili”, quel vecchio gioco dove i bambini in fila travasano nell’orecchio del vicino una frase e paragonano poi la frase di partenza con quella d’arrivo, così, dopo cinque secoli di evoluzione indiana e tredici secoli(2) di inculturazione cinese, se il buddismo che giunge a Dōgen fosse ancora quello espresso 1800 anni prima da Śākyamuni nella lontana valle del Gange, senza dubbio ci troveremmo di fronte ad un dato significativo.
Il capitolo Shōji -letteralmente Nascita/vita e morte- dello Shōbōgenzō(3) di Dōgen, a differenza di molti lavori dello stesso autore ha il pregio di essere scritto in giapponese invece che in cinese e grazie al largo uso di caratteri fonetici è di comprensione piana e semplice. Le difficoltà di traduzione questa volta non sono dovute al solitamente complesso linguaggio di Dōgen ma al passaggio di comprensione e ricomposizione in un diverso strumento semantico, passaggio necessario a riprodurre in logos/suono di una lingua occidentale ciò che è espresso in altro modo. E questo altro modo consiste soprattutto in una relazione, intellettuale ed emotiva, tra me e “ciò” di cui si parla. La parola/suono è già pensiero, non per nulla logos indica entrambi. Il segno orientale, in particolare quello usualmente e impropriamente detto ideogramma(4), indica il rapporto tra me e un certo “argomento” e questa connessione non è una parola/logos/pensiero ma una complessità mutevole, articolata e perciò esprimibile con molte differenti parole. Sono due sistemi di comunicazione separati, non dialogano direttamente. Proprio come il colore e il suono.
Note:
1) Vi è un’ampia pubblicistica italiana su questo monaco e autore, fondatore dello Zen moderno. Ricordiamo: Eihei Dōgen, Il cammino religioso-Bendōwa, a c. de La Stella del Mattino, Marietti, Genova 1992, 17 s., Giuseppe Jisō Forzani, Eihei Dōgen Il Profeta dello Zen, EDB, Bologna, 1997. Eihei Dōgen, Divenire l’essere, a c. di Giuseppe Jisō Forzani, EDB, Bologna 1997, R.H.Robinson, W.L.Johnson, La Religione Buddhista, cit., 302 ss., Aldo Tollini, Pratica e illuminazione nello Shōbōgenzō, Ubaldini, Roma, 2001, 9 ss.
2) Il buddismo è “entrato” in Cina non più tardi del I sec. d.C.
3) Sia per quanto riguarda la traduzione che per le notizie su Shōji seguo le linee guida di un inedito di Jisō G. Forzani.
4)Più correttamente andrebbero chiamati morfemi, ossia: “unità minime dotate di significato”.
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