Quella che segue è la versione scritta dell’intervento al seminario di Massa Carrara del 21-02-08, su “L’iniziazione: cultura, rito, religione”; di M.Y. Marassi)
Per entrare nel vivo del tema di oggi occorre una breve premessa che chiarisca alcuni punti che, per vari motivi, sono radicati nella cultura occidentale. Il primo è che IL buddismo non esiste né in quanto religione univoca, tipicizzata e simbolicamente determinata, né in quanto essenza religiosa esprimibile nel mondo della comunicazione, fatto di parole scritte o parlate.
Vediamo rapidamente queste due affermazioni apparentemente paradossali.
1) Il buddismo non esiste in quanto religione univoca, dalle forme culturali definite perché è sua caratteristica inculturarsi profondamente nei passaggi epocali da un popolo all’altro, da una cultura all’altra. Parlando in termini molto generali, nei secoli passati il cristianesimo nelle terre di missione ha quasi sempre collaborato con altre forze culturali, commerciali o militari per formare prima una cultura occidentalizzante e poi, in questa nuova cultura sovrapposta a quella antica che ha spesso così rischiato di sparire, i suoi missionari hanno inseminato il vangelo di Gesù di Nazaret.
In modo ancora più accentuato è il rapporto di esclusività o forte predilezione della religione islamica in relazione alla cultura araba, al punto che è difficile anche per un appartenente all’islam immaginare un Islam europeo o americano o australiano ovvero che prescinda dalla sua base culturale d’origine. Il buddismo è invece di un’altra pasta: penetra profondamente nelle culture trasformandole dal di dentro e vivendo poi in quella nuova forma. Questo fa sì che non ci sia un buddismo ma che ci troviamo sempre in presenza di “buddismi”, ciascuno dei quali è legittimo e autentico, ma lo è nella sua terra, nel suo tempo e nella sua temperie culturale.
2) Il secondo punto che vi ho offerto è che il buddismo ha una struttura completamente a-dogmatica per cui non vi è alcuna affermazione, posizione o dottrina che costituisca fede o credenza comune a tutti i buddismi.
Il motivo di questa apparente anomalia è che il buddismo nasce come esperienza personale, vive come esperienza personale e si tramanda come esperienza personale, ovvero ha un senso che è nella vita delle persone e le parole per esprimere questo senso possono cambiare perché non sono il punto centrale. Un modo per dire la stessa cosa è che il buddismo non è una delle religioni del libro.
Tuttavia, pur stando così le cose, occorre stabilire un metodo tramite il quale sia possibile identificare il buddismo anche se ogni volta si presenta in forme completamente diverse dalle sue origini. Per tendere la rete con la quale si può fermare per un momento quel pesce chiamato buddismo, in primo luogo occorre porre al centro del discorso la motivazione base di questa religione, nata in India 2500 anni fa. In altre parole occorre rispondere alla domanda “a che cosa serve il buddismo”?
Il buddismo è una didattica nata sulla base di un’esperienza che divenne testimonianza. E questa didattica è volta alla dissoluzione del dolore, del disagio intrinsecamente presente nell’esistenza umana. Detto questo, ovvero svelato il piano di lavoro del buddismo, vediamo di quali strumenti sia fornita questa didattica per condurci al raggiungimento di quello scopo.
Vi sono solo tre elementi che qualificano la didattica buddista come tale:
1.un’etica comportamentale basata sulla benevolenza e l’amicalità nei confronti degli esseri viventi e di tutta la realtà,
2.una pratica del corpo all’interno della quale lo spirito e il corpo vivano l’esperienza detta “non afferrare”,
3.lo sviluppo di una consapevolezza o visione, -possiamo dire anche gnosi- che ci permetta di vedere che ogni essere, ogni cosa, ogni fenomeno di questo mondo non ha una vita sua, individuale, non vive da per sé, ma è un assemblaggio di parti, a loro volta composte da parti. E questa situazione, detta pratītyasamutpāda in sanscrito, è la caratteristica di tutta la realtà fenomenica per cui ogni ente in quanto privo di fondamento è un imperman-ente, cioè essenzialmente vuoto.
Ripetiamo: tre elementi: etica, gnosi e pratica del corpo.
Questa è la dotazione minima necessaria per ogni buddismo affinché sia veramente tale. E questa dotazione, oltre che necessaria, è sufficiente a realizzare tutti gli obiettivi che si propone il buddismo. Ma quella stessa piccola attrezzatura si rivela insufficiente a soddisfare le esigenze di fare, capire, credere, congetturare, venerare, pregare, comunicare che accompagnano l’uomo di religione ovvero l’animo umano volto alla conversione.
In epoca indiana abbastanza tarda, fu il fenomenalismo proposto dalla scuola Yogācāra/Vijñānavāda a farsi carico di parte dell’esigenza di soddisfare l’intelletto dell’uomo di religione. Ma è stato un caso unico.
Prima, dopo, altrove rispetto agli espedienti parametafisici proposti da quella scuola, queste funzioni sono state e sono assolte dalle culture ospitanti.
Così ogni buddismo, a seconda della famiglia culturale nel quale viene allevato, sviluppa forme di culto, riti di passaggio, riti iniziatici, rappresentazioni di forze spirituali da invocare o fuggire, persino rappresentazioni cifrate della realtà sottile, personale e cosmica.
Tuttavia, come è evidente nelle marcate differenze che si avvicendano nel tempo e nelle diverse aree culturali, questi apparati non sono che un aggregato provvisorio, senza alcuna forma vincolante che li determini come il buddismo: ciascuno di essi è solo un buddismo e come tale ha una nascita, un periodo di fulgore, l’invecchiamento e la fine.
Vuoto e impermanenza che descrivono la visione fondamentale della realtà mondana, dicono di un fondo senza fondo così radicale che nessun fenomeno vi può sfuggire. Neppure la storia, e perciò anche la storia del buddismo.
Secondo una lettura della storia da un’ottica buddista non è possibile determinare se il bruco è solo bruco e la farfalla è solo farfalla o se è il bruco che diventa farfalla, cioè se la farfalla è un ex bruco. Perché -secondo quel modo di vedere le cose che abbiamo definito pratītyasamutpāda- in senso essenziale, permanente, definitivo non c’è né bruco né farfalla, anch’essi sono assemblaggi provvisori che un giorno si disgregheranno e perciò non c’è nulla che si possa trasformare, nulla che possa avere una storia autonoma.
Ma proprio perché il bruco non ha esistenza in senso ontologico (ovvero non c’è nulla di fisso, che faccia ostruzione) allora può esserci, domani, la farfalla.
Così è per la ghianda e la quercia, i gameti e il bambino, il bambino e l’adulto. Per ogni cosa.
Nel caso del bruco, la farfalla non è identica al bruco né è altra da esso Nel caso dell’uomo, l’adulto non è identico al bambino né altro da esso. E questo è il caso anche del buddismo e della sua genesi nelle varie culture ogni buddismo non è né sarà alieno né uguale a ciò che lo ha generato.
È evidente che con una introduzione come questa si rivela inutile parlare dei riti di iniziazione non essendo altro che interpretazioni locali, contingenti legati alle esigenze di sopravvivenza di un buddismo o un altro in questa o in quella cultura.
Perché la parte sostanziale di quello che chiamiamo iniziazione non è legato a forme cerimoniali o rituali determinate, bensì al loro contenuto ed al loro obiettivo.
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