Quella che segue è la versione scritta del discorso tenuto da Giuseppe Jisō Forzani in occasione della festività del Vesak, a Roma.

Identità e dialogo

Roma – Vesak – 26 maggio 2007

Il titolo del ciclo di incontri che si conclude oggi, nell’ambito della celebrazione del Vesak 2007, è “Lezioni dall’alfabeto buddista all’illuminazione” e l’incontro che ci coinvolge ha per tema: “Identità e dialogo”. Mi sembra opportuno iniziare dal rapporto fra il titolo generale del ciclo e quello particolare della “lezione” che mi compete, per evitare che le parole scivolino via prima ancora che abbiamo cercato di afferrarne il senso.

Devo confessare che questo “Lezioni dall’alfabeto buddista all’illuminazione” più che servire da traccia per trovare dove collocarmi, mi ha posto delle domande e ha suscitato dubbi: il che dovrebbe significare che è un buon titolo, visto che l’argomento, proprio in quanto buddista, non può non stimolare l’intelligenza critica. Intanto quel lezioni mi ha spinto a chiedermi: si possono impartire o ricevere “lezioni di o sul buddismo”? E’ il buddismo equiparabile a una materia di insegnamento, per cui è appropriato il termine lezione nell’accezione in cui siamo soliti servircene? Autorevoli maestri e diligenti studenti di ogni latitudine diranno che sì, certo, si possono e si debbono offrire e ascoltare lezioni di buddismo: così si è sempre fatto a partire da Sakyamuni Buddha e da allora in tutte le comunità, templi, monasteri, università buddiste, e che proprio questo (anche questo) ha permesso la diffusione, la protezione, il mantenimento di quello che giunge fino a noi come Dharma di Buddha, almeno nella sua forma verbale. Se non ci fosse sempre lungo tutto l’arco della storia del buddismo chi dà e riceve lezioni (anzi, sarebbe meglio dire chi riceve e chi dà, perché non si può dare senza ricevere) oggi non saremmo qui: la cosa appare così evidente da non meritare rilievo. Eppure… Non discuto il fatto che nelle relazioni umane che caratterizzano il fenomeno che chiamiamo buddismo sia presente il fattore dell’apprendimento e dell’insegnamento, della parola e dell’ascolto, della guida e della fiducia, né che il rapporto col buddismo implichi anche il confronto con i testi e con lo studio. Piuttosto mi chiedo: qual è la materia delle lezioni? Chi è che insegna tale materia, e chi l’apprende? Una materia di studio, nella comune accezione del termine, ha ambiti precisi: una lezione di storia dell’arte non è una lezione di chimica, per quanto ci siano contatti e contaminazioni fra le due materie. Durante una lezione di storia della filosofia posso scantonare nell’ambito dell’economia o della musica, ma per illustrare la materia che sto insegnando. Che materia è il buddismo e per converso, di che materia si occupa?

Credo di non dire uno sproposito affermando che la materia di cui il buddismo si occupa è la mia vita. Quello che oggi chiamo buddismo è la relazione totale della mia vita con se stessa o, in altre parole, il nome che do al legame della mia esistenza con la vita. Potrei dire genericamente vita, oppure religione per sottolineare il legame, o in tanti altri modi ancora, ma preferisco dire buddismo (soprattutto in questa sede) perché mi sembra più onesto dichiarare lo specifico riferimento orientativo cui mi ispiro: ma ciò che importa è che si tratta della totalità della mia vita che si esprime in ogni istante di essa. La materia di cui il buddismo si occupa non è un settore della mia vita, un suo periodo o una sua fase, alcuni momenti più o meno lunghi, intensi, reiterati o privilegiati di essa, non è un capitolo o un argomento nel libro della mia vita, ma tutta la mia vita nel suo complesso e in ogni suo momento.

Non però nel senso di inglobarla e ingoiarla tutta intera all’interno di un sistema preconfezionato di riferimento cui adattarla: non concepisco il buddismo come un totalitarismo dottrinale pratico e teorico, un’ortodossia e un’ortoprassi, da imparare e da applicare pedissequamente, salvo qualche inevitabile adattamento alle circostanze. Buddismo è il nome, comune e provvisorio, della non frammentarietà dei diversi tempi e luoghi della mia vita: la quale dunque, se vista sotto la metafora scolastica, non è un insieme di materie indipendenti e selezionate a bella posta, ma la “materia” di cui tutte le materie sono fatte, la “materia” delle materie, che tutte le sostiene, le lega e le giustifica. A questa “materia”, tutta presente in ogni frammento di vita, che chiamo totalità della vita, si è aperta la coscienza della vita individuale di Sakyamuni, da allora detto Buddha: da qui prende forma quell’indicazione che chiamiamo via di buddha o buddismo: che è dunque “materia delle materie” e a sua volta materia specifica, quando preso in considerazione come fenomeno (religioso, storico, filosofico, esistenziale… – il buddismo come differenziabile e differenziato dal cristianesimo, tanto per fare un esempio).

Devo insistere ancora sulla differenza fondamentale fra totalità e totalitarismo, perché è argomento delicatissimo spesso frainteso soprattutto dai religiosi: le religioni infatti tendono ad approfittare del “verbo della totalità” (che tutte in un modo o nell’altro coniugano) per occupare confessionalmente tutti gli ambiti della vita con i loro dettami. Ma ciò che chiamo totalità non è la panacea, la chiave per ogni serratura, lo schema tattico totale da applicare caso per caso, il credo salvifico professato come rimedio universale: questo è totalitarismo, quantomeno ermeneutico. Non si tratta di infilare la realtà in un disegno globale, pretendendo di averne la chiave interpretativa. La totalità invece non dipende dalla mia visione, dalla mia comprensione, dalla mia coscienza e dal mio credo: è la qualità propria della vita, in quanto ogni momento della mia vita vive totalmente, manifesta e contiene l’interezza della vita. Nessun momento e nessun luogo è al di fuori di essa: non posso separarmi dalla mia vita neppure per un istante, né posso isolare l’uno dall’altro gli istanti della mia vita: io li vivo separatamente mentre la vita li anima tutti indistintamente.

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