Dal fatto che il buddismo di per sé non esista, ovvero non abbia un’apparenza fenomenica né un profilo stabilito, consegue che ogni volta che appare lo deve fare vestito della cultura che in quel momento lo ospita. Infatti, non essendo “di questo mondo”, nudo sarebbe invisibile. Questo cambiar d’abito ad ogni salto di cultura ha fatto sì che più che di buddismo si debba parlare di “buddismi” cioè di forme locali, diverse tra loro nella manifestazione benché tutte siano animate dallo stesso principio. Ora, quando il buddismo è rinato in Cina lo ha fatto usando l’argilla di quel Paese. Dopo il travagliato processo cui abbiamo accennato, nella forma esteriore dello star seduti non cambiò molto se non gli abiti e la conformazione fisica dei praticanti. Secondo il profilo della conoscenza del rapporto tra l’uomo e l’assoluto… ciascuno di voi sa che la Cina non era certamente in difetto rispetto all’India: la rinascita dell’antica conoscenza poté realizzarsi addirittura con più vivida freschezza. Rimane l’etica. Il fatto è che a ovest dell’Himalaya il concetto di etica, di giusto e sbagliato, di buono e cattivo è profondamente diverso dalla concezione etica che è da sempre invalsa a Est di quelle alte montagne. Così quando il buddismo si incarnò nelle sembianze di quella cultura questa differenza penetrò profondamente nelle sue carni.
Dato il poco tempo a disposizione mi limiterò ad un solo esempio tra i tanti possibili (22). Nello Shōbōgenzō Zuimonki (23) Dōgen scrive: «Perciò un antico disse: “vuoto dentro, asseconda [le circostanze] all’esterno”» (24). Questa indicazione è ripresa da Dōgen dall’ultimo capitolo dello Zhuangzi (25); la prima parte della frase è allineata con la saggezza trascendente che riconosce nel ritorno al vuoto di sé la potenzialità somma dell’essere umano, una saggezza così profonda e priva di rappresentazioni da poter essere tranquillamente associata alla posizione di mezzo di Nāgārjuna, a sua volta figlia della via di mezzo espressa dal Buddha nel Dhammacakkapavattanasutta, Il discorso della messa in moto della ruota del dhamma. Ma la seconda parte, che possiamo tradurre anche con “all’esterno assecondare docilmente”, non ha nulla a che vedere con il buddismo vivente attraverso di noi, quello invisibile di cui parlavamo prima, proprio a partire dalla dicotomia interno/esterno che porta a un tipo di distacco oscillante tra l’indifferente e il non partecipato. La visione mahāyāna, ma non solo, riconosce piuttosto la partecipazione all’edificazione della qualità del mondo come una delle modalità del normale procedere del praticante.
In molti casi l’invito ad inserirsi docilmente nella realtà, invece di fenderla e rivoltarla con un aratro, è certamente molto saggio ma è senza dubbio figlio di un’etica confuciano-daoista, quella stessa che si fonda sul rispetto degli antenati, sull’obbedienza all’ordine precostituito, sul non ribellarsi, sul non distinguersi ma assecondare l’ordine del Cielo. È il tipo di frase che meglio esprime i principi di etica sociale vigenti da secoli in tutta l’area geografica di cultura confuciana, in base ai quali quello estremo orientale ci appare come un popolo disciplinato e obbediente.
Da questo tipo di inculturazione spesso deriva che quando si inizia a parlare dell’atteggiamento interiore che caratterizza il praticante zen immancabilmente vengono posti in risalto la necessità di mostrare deferenza e gratitudine verso chi ci istruisce e l’obbedienza ai più anziani come principi irrinunciabili e universali. Buoni insegnamenti soprattutto per mantenere l’armonia in una comunità verticistica, ma per nulla in sintonia, per esempio, con le comunità indiane delle origini dove il voto di obbedienza era richiesto solo a coloro che erano, per la giovane età, affidati ad un precettore, upādhyāya o ācārya, prima dell’ordinazione. L’obbedienza ai precetti, essendo strumenti di liberazione per i monaci -tale è infatti il significato di bhiksu pratimoksa– era e rimane un fatto personale, distinto da eventuali esigenze normative, atte a permettere o facilitare la vita in comune.
Insomma, a volte, quella che viene presentata come “etica buddista” è etica confuciana, amorale, spesso nomocratica (26), mentre invece l’etica che costituisce uno dei tre pilastri del buddismo (27) non è fatta di indicazioni normative, bensì è la difficile ricerca del bene nel variare delle circostanze, avendo come solo faro l’atteggiamento di accoglienza amicale con tutto e tutti. Un esempio drammatico e famoso con il quale si tenta di mostrare questa difficile accezione dell’etica “oltre la norma”, è nell’episodio noto come “Nanquan Puyuan taglia il gatto”, utilizzato anche da Dōgen nello Zuimonki (28), dove -citando dalla Raccolta della roccia blu (29)- spiega: «Quando la “grande funzione” [l’universale, diremmo noi] si manifesta, non esistono regole fisse».
Un’indicazione dello stesso segno ce la offre Milarepa: «Respingete tutto ciò che l’egoismo fa sembrare buono e che nuoce alle creature. Al contrario, fate ciò che sembra peccato ma è di profitto alle creature, perché è opera religiosa» (30).
E il perché le cose stiano in questo modo, ovvero perché sia necessaria l’etica morale (assieme alla conoscenza ed alla pratica del corpo) affinché buddismo e universale non siano due cose differenti, non è un asserto dogmatico o una conseguenza dell’inculturazione indiana del primo buddismo: è patrimonio di esperienza di chi pratichi la religione per molto tempo in modo assiduo e privo di tornaconto mondano.
Per esempio: chiunque di noi sa che avendo odio nel cuore o dopo aver causato sofferenza o dopo aver litigato aspramente con la propria moglie o marito, si genera uno zazen dove -per un tempo più o meno lungo- non vi è universalità, se non quella dell’antico chiacchiericcio della mente. Ed è esperibile al praticante di zazen che nel profondo (31) lo spirito di maitrī, karunā e ahimsā è della stessa sostanza dello zazen, al punto che quello spirito stesso leggero è prodotto, soffuso dallo zazen nella nostra vita, in tutta la nostra vita: “dentro” e fuori dallo zazen. Ma anche viceversa: è tale spirito presente nella nostra vita che genera l’apertura per cui il nostro vivere e star seduti sia uno con l’universo. Mentre una vita immorale, malvagia genera uno zazen che, al massimo, è un esercizio ginnico. Odio, avidità, invidia induriscono l’anima, invece di aiutarla a sciogliersi.
Il male, in senso religioso è tutto ciò che ci separa, tutto ciò che chiudendoci in una realtà fittizia e singola ci isola dall’infinito, ci impedisce di “scioglierci” nell’infinito: come l’egoismo, l’avidità, l’attaccamento, tutte quelle pulsioni che tendono a ridurre l’area del mio “me”, ossia che ci impediscono di far sì che quel “me” non abbia confini.
Si comprende allora che affinché abbia una reale possibilità di attivarsi il processo di affrancamento della natura umana dal suo limite, esso deve essere contemporaneo all’evitare quei comportamenti e motivazioni che vanno nella direzione opposta. Così la generosità, l’accoglienza, la benevolenza sono la normale gestione di una vita che percorre la via religiosa. Semplicemente perché non c’è altro modo, ovvero perché gli altri modi, invece di avvicinare, allontanano dal mare nel quale ci vorremmo immergere per essere acqua nell’acqua. Tale meccanismo non compare solo nei sutra antichi come il Dhammapada, ma è spiegato nel dettaglio anche in un’opera del VI secolo che attualmente tutti gli studiosi ritengono di autore cinese: il già citato Dasheng Qixinlun, Il Trattato del Risveglio della fede nel Mahāyāna (32).
Note:
22) Un altro esempio rappresentativo è costituito dall’assimilazione pressoché acritica del Judō (lett.: via del morbido) al buddismo zen. Il termine judō nasce dal Laozi, 老子 (o Daodejing, 道 徳 經), come rou dao 柔道 “[prevalere con la] via dell’assecondare cedendo”. Lo zen non è la via del prevalere, né quella del cedere, né quella del resistere.
23) Shōbōgenzō Zuimonki, 2-10.
24) “Shikareba konin no iwaku: uchi munashiku shite, soto shitagauto”, ovvero: 然あれば 古人 の 云く:内ち 空しふ して、外したがふと.
25) Zhuangzi, cap. XXXIII, 6.
26) Legismo o nomocrazia, in cinese: “fajia”, 法家.
27) Per distinguerla dall’altra provvisoriamente la chiamiamo “etica morale, spirituale”.
28) Cfr. Shōbōgenzō Zuimonki 1-6.
29) Biyan-lu, 碧 巌 録, la frase citata è nel terzo caso.
30) Vita di Milarepa, a cura di J. Bacot, Adelphi 2001, 213.
31) “Oku”, 奥, in giapponese.
32) Nella sopracitata traduzione di Hakeda: cfr. 56 ss. e 81 ss.
Seconda parte
2 Responses to “Terza parte”
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Dicembre 23rd, 2008 at 10:16 am
Eccezionale quando parla dell’etica e soprattutto dello spirito profondo dello zazen presente sia dentro che fuori dallo zazen stesso, NON sono due cose separate. Se viviamo una vita senza etica morale è assolutamente inutile fare meditazione, diventa appunto un esercizio ginnico!
Molto chiaro anche nello spiegare il male, vorrei aggiungere che secondo me l’egoismo e l’avidità sono forme di attaccamento e come ben sappiamo ogni forma di attaccamento genera sofferenza!
Nella normale gestione che percorre la vita religiosa (che non significa assolutamente far parte di una religione) vorrei aggiungere come elemento di rilevante importanza l’onestà sia verso se stessi che verso gli altri.
Dicembre 23rd, 2008 at 11:17 am
Il rapporto sīla-samādhi è parte integrante della cultura esperienziale buddista e religiosa in senso generale. Per questo ne richiamavo il senso nel post di qualche giorno fa. mym