Un giorno, tanto tempo fa, in un piccolo regno nel nord dell’India, alle pendici delle montagne dell’Himalaya, nacque un bambino di nome Siddhārtha. Apparteneva alla stirpe dei Śākya, che è un po’ come dire che quello era il suo cognome. Era il figlio primogenito del re di quei luoghi, e suo padre era felice che nascesse l’erede al trono. Ma era anche un poco preoccupato, perché un vecchio indovino aveva predetto che il bambino non sarebbe diventato re ma, una volta cresciuto, avrebbe lasciato la sua casa e si sarebbe incamminato sulla via della conoscenza interiore, la via che conduce alla pace, alla salvezza eterna.
La nascita di Siddhārtha, non fu però allegra ma drammatica: sua madre, Māyādevī, morì subito dopo il parto. Il padre, Śuddhodana, rimasto solo a decidere dell’educazione del figlio, pensò di allevarlo in modo che non si avverasse la profezia del vecchio indovino ma che Siddhārtha crescesse per diventare un re, il suo successore. Lo circondò così di ogni ben di Dio e fece in modo che nulla potesse turbare la sua serenità: nel palazzo c’era solo gente allegra, sana, giovane, il bambino era soddisfatto in tutti i suoi desideri e cresceva pensando che nella vita ciò che conta sia il benessere e che il suo destino fosse diventare re per conservare e aumentare il benessere suo e dei suoi sudditi. Attorno alla reggia c’era un alto muro e per Siddhārtha il mondo era tutto racchiuso in quel ricco palazzo e nel parco che lo circondava.
Ma Siddhārtha era un ragazzino sensibile e vivace. Non gli bastava avere tutto ciò che poteva desiderare: capiva istintivamente che il mondo era più grande dei suoi desideri, e che fuori dal limite di quelle mura dorate doveva esserci anche altro. Così un giorno uscì di nascosto dal palazzo reale e andò per le vie della città, travestito in modo che non lo potessero riconoscere. E subito incontrò un vecchio curvo, che faceva fatica a camminare sotto il peso degli anni: era la prima volta che vedeva la vecchiaia e i suoi effetti. Il giorno dopo uscì ancora e vide un malato che giaceva sofferente nel suo letto: per la prima volta scoprì che esiste la malattia.
Il terzo giorno si avventurò ancora fuori e incontrò un corteo funebre: chiese di cosa si trattava, e per la prima volta seppe della morte e capì che è inevitabile. Il quarto giorno poi, di nuovo fuori di nascosto, si trovò di fronte un tipo strano, povero, con una veste rattoppata ma con una luce brillante negli occhi: era un asceta mendicante, come ce ne sono tanti in India, un uomo religioso che viveva di preghiera e di elemosina. Questi quattro incontri fecero un grande effetto su Siddhārtha: comprese che la vecchiaia, la malattia e la morte -la comune realtà del dolore, che il padre aveva cercato di nascondergli- fanno parte della condizione umana e che non c’è ricchezza, potenza e benessere che possano tenerle lontane per sempre. Capì anche che ci sono persone che si pongono questo problema e vivono la vita non solo per trarne piacere e profitto, ma per capirne il senso, anche se questo vuol dire rinunciare. E decise in cuor suo che, un giorno, anche lui avrebbe intrapreso quella strada.
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