Koho Watanabe
Nel corso di un viaggio collettivo in Giappone, avvenuto nell’estate del 2004, per un incontro ravvicinato con la cultura e la religione di quel paese (vedi, a questo proposito, gli interventi in “La Stella del Mattino” n.3/2004) ha avuto luogo un incontro con Koho Watanabe, già abate del monastero zen di Antaiji. Al termine di una sua introduzione, c’è stato uno scambio di domande e risposte: riportiamo di seguito la trascrizione di parte di quel colloquio.
Koho Watanabe è divenuto monaco della tradizione Soto del buddhismo zen giapponese appena terminate le scuole superiori. Dopo aver incontrato un maestro molto famoso in Giappone, Kodo Sawaki, si è recato su indicazione di quest’ultimo nel monastero di Antaiji, situato a Kyoto, seguendo per più di dieci anni l’insegnamento dell’abate di allora, Kosho Uchiyama. Nel 1975 Uchiyama si è ritirato dall’incarico di abate, lasciando come suo successore Watanabe, il quale, come prima iniziativa, ha trasferito il monastero di Antaiji da Kyoto, divenuta ormai una città caotica, in una valle isolata, situata nelle montagne prospicienti il mare interno giapponese, di fronte alla Corea. La nuova dislocazione era stata decisa anche per impostare uno stile di vita comunitario basato, oltrechè sullo zazen e sullo studio, sul lavoro fisico, in modo che la fonte di sostentamento della comunità fosse il lavoro dei monaci e dei residenti. Alla fine del 1987 l’abate Watanabe decise di lasciare a sua volta l’incarico a un suo successore, e di recarsi in Italia, insieme a tre monaci e discepoli italiani che avevano ad Antaiji a lungo risieduto. Dopo cinque anni di permanenza nel nostro Paese, una grave malattia costrinse Watanabe a tornare in Giappone. Superato il momento più difficile e avviato alla guarigione, Watanabe è attualmente il superiore responsabile di Shorinji, un tempio situato nella regione centro orientale di Wakayama.
Domanda: Perché è così importante l’incontro tra buddhismo e cristianesimo? In che senso una religione può donarsi all’altra?
Risposta: E’ importante chiarire il motivo di quest’incontro perché altrimenti se ne perde il senso.
Per quello che mi riguarda quest’incontro è avvenuto in questo modo: quando mi sono fatto monaco, desideravo studiare lo Shobogenzo, un testo fondamentale scritto da Dōgen, fondatore del monastero Eiheiji. Una volta rivelata questa mia intenzione al mio maestro, lui mi ha risposto che se volevo veramente studiare lo Shobogenzo, dovevo studiare contemporaneamente anche la Bibbia e me ne ha regalato una copia. E oggi sono cinquant’anni che studio insieme Shobogenzo e Bibbia. Questo è per me l’incontro tra buddhismo e cristianesimo. Nel piccolo paese ove ora risiedo quasi nessuno conosce nulla del cristianesimo. Dato che sanno che ho vissuto in Italia, mi pongono delle domande sul cristianesimo. Spesso mi capita di rispondere con questa immagine: dico che la luna che si vede in Italia e la luna che si vede in Giappone è sempre la stessa luna.
D: Perché è stato spostato il monastero di Antaiji da Kyoto e trasferito in montagna? Forse per mettere una distanza tra il monastero e il mondo? Che relazione esiste tra la vita di città e la vita di un monastero in montagna?
R: Il motivo del trasferimento del monastero non sta nel fatto che desideravamo allontanarci dalla città, ma perché volevamo creare un ambiente diverso da quello attualmente esistente nell’ambito del buddhismo istituzionale, dove una mentalità troppo rigida non permette nessuna forma di rinnovamento. Desideravamo invece separarci da questa mentalità e creare un ambiente in cui fosse possibile attuare una forma di pratica nel modo più nudo ed essenziale possibile, distante da qualsiasi istituzione religiosa. In un simile ambiente la pratica religiosa e il lavoro sono una cosa sola: si pratica utilizzando il corpo, cimentandosi al contempo nel proprio lavoro. L’idea è quella che le persone che praticano zazen si procurino il cibo con il lavoro. Solo in questo modo la pratica non è disgiunta dal corpo e non diventa un atto puramente formale o intellettuale, distante dalla realtà quotidiana. E’ importante chiedersi che cosa significhi credere in Dio, in ambito cristiano, o seguire Buddha, in ambito buddhista. C’è chi ritiene che la pratica consista nel venerare una statua del Buddha posta nella sala della meditazione. Non solo non è così, ma bisogna fare attenzione che così non diventi. Dōgen dice che la voce e l’aspetto di Buddha si trovano nel colore della montagna e nel suono del fiume che scende a valle, riferendosi proprio al Buddha storico, a Shakyamuni. Fare così non è facile vivendo in città. Per questo motivo è necessario allontanarsi dalla città, almeno per un certo periodo, e verificare di persona che il Buddha non è un pensiero, un’idea o un sentimento, ma è proprio il colore della montagna e il suono del fiume.
Che si tratti di Buddha o di Dio, la questione principale è la stessa, sempre: incontrarli nella realtà della propria vita quotidiana, nello stile di vita che si segue. Finché si pensa a venerare un personaggio vissuto duemilacinquecento anni fa, rappresentato in un questa o quella statua, si fallisce il bersaglio. ‘Emanuele’, nel contesto cristiano, vuol dire che Dio è con noi e vive con noi, esortandoci ad incontrarlo nella realtà quotidiana. Questo vuol dire far nascere di nuovo Dio, far nascere un nuovo Buddha, rinnovare completamente la nostra vita.
D: In questi giorni abbiamo avuto l’occasione di incontrare varie persone e di parlare con loro. Ma è ben visibile la difficoltà in questi incontri che le parole non riescano sempre a trasmettere pienamente la nostra esperienza, il nostro vissuto, così come le risposte che riceviamo. Forse anche lo stesso dialogo interreligioso soffre di questo limite e di questa difficoltà. Allora: quando il dialogo è veramente religioso, quando ci aiuta a scoprire la nostra natura più intima, evitando il pericolo di diventare un dialogo tra specialisti delle religioni, per essere invece un vero dialogo con la vita?
R: La religione è trovare dentro di sé il rapporto intimo con la propria natura e questo non lo si va a chiedere a qualcuno. Certamente può accadere che all’inizio della propria ricerca si chiedano consigli o spiegazioni ad altri, ma l’essenza è il rapporto con sé stessi. Il rapporto con la propria vita non si impara da qualcun altro, ma si trova all’interno della propria vita.
E’ importante approfondire la fede, ma non nel senso di aggiungere nuovi elementi e divenire migliori o essere più istruiti in materia di buddhismo e cristianesimo, mettendo insieme un po’ dell’uno o dell’altro, ma all’inverso togliere tutto ciò che è esterno e superfluo, per avere un rapporto diretto con sé stessi. Il mio modo di contribuire al dialogo religioso non consiste in nessuna particolare attività: non partecipo a convegni o conferenze, non incontro questo o quel personaggio, perché secondo me tutte queste cose sono tutte prive di senso. L’incontro avviene nella vita tra persone vive. Per me, contribuire al dialogo significa innanzitutto studiare ogni giorno lo Shobogenzo e la Bibbia, per imparare a diventare un Buddha, per diventare uno con Dio. E’ come guardare le cose con due occhi anziché con uno solo.
D: Questo dialogo interiore, vissuto nel proprio intimo, spesso comporta una rottura con le istituzioni ufficiali e con il loro modo di proporre la religione e di interpretare i testi sacri. Questo è vero soprattutto in ambiente cattolico. Mi sembra che questo momento di distacco e di rottura sia un passo obbligatorio per chi segue un percorso interiore.
R: Liberarsi dall’insegnamento imposto dalle istituzioni religiose non è solo un aspetto particolare del proprio cammino, ma va seguito con decisione e fino in fondo. Ci si deve liberare da una lettura precedentemente istituita da altre persone: la religione è e deve rimanere un’esperienza personale. Lo scopo per cui mi sono recato in Italia con altri monaci non era quello di creare una nuova istituzione religiosa e nemmeno l’idea di insegnare agli italiani a praticare zazen e studiare il buddhismo, ma solamente gettare quel seme che permettesse alle persone di approfondire la ricerca di sé.
D: Come si colloca la ricerca interiore in una prospettiva di gruppo, oggi che la situazione mondiale – occidentale in particolare – è così difficile?
R: I gruppi, anche quelli numerosi, sono sempre composti da persone. E’ importante che ciascuno faccia un percorso di ricerca interiore per chiarire il senso dell’incontro, altrimenti ci si raduna solo per un senso di appartenenza, senza sapere bene dove si sta andando. Questa è proprio l’impostazione della società occidentale contemporanea che, invece di mirare alla ricerca interiore, ha puntato sullo sviluppo economico, con il risultato che le persone non sanno più dove stanno andando. Recentemente ci sono state le elezioni politiche in Giappone, una donna che si presentava nella mia circoscrizione sosteneva che la ricchezza interiore non è sufficiente e non può sostituire la ricerca della ricchezza materiale ed economica, che va perseguita attraverso il lavoro. Io sono convinto del contrario: oggi il Giappone ha raggiunto un notevole livello di sviluppo economico, ma le persone lo hanno fatto a discapito della ricerca interiore.
La funzione della religione è proprio quella di indicare la via per la ricchezza interiore: l’incontro personale con Dio, con il Buddha è importante; dopo è necessario adoperarsi per testimoniare e trasmettere questa esperienza a chi sta vicino. La ricchezza interiore non si sviluppa seguendo forme stereotipate, liturgiche, ma facendola diventare vita vissuta. In Giappone, una cerimonia funebre buddhista dura un’ora e mezza; io la faccio durare quindici minuti, senza seguire scrupolosamente i precetti, perché reputo più interessante parlare con i parenti e gli amici del defunto sul significato che ha la morte e quindi anche la vita. Non mi metto a insegnare, ma semplicemente parlo insieme a loro. Invece di stare a leggere discorsi che nessuno comprende, preferisco parlare sul senso che ha il momento che stiamo vivendo.
D: C’è una differenza se la ricerca interiore viene fatta da soli o in gruppo?
R: La ricerca interiore non è mai disgiunta dall’altro, è sì un percorso individuale ma implica sempre gli altri. Nella tradizione shintoista, ad esempio, si fa una volta all’anno un pellegrinaggio in ottantotto luoghi diversi; di questo pellegrinaggio si dice che si fa da soli, ma contemporaneamente in due. L’individualismo è un prodotto tipico della società occidentale: se interpreto in quest’ottica la frase di S. Paolo che dice “io sono libero da tutti”, sarò portato a pensare che sia un invito all’individualismo. Nel buddhismo, invece, l’obiettivo è di liberarsi anche da quest’io, per ritrovare un’unione con il tutto. Personalmente non invito ad affidarsi a qualcun altro o a farne del tutto a meno, si tratta invece di capire che cosa uno vuole imparare dalla vita e da lì cercare le persone e le cose che possono aiutarci a raggiungere l’obiettivo. Non è questione di guidare né di essere guidati, nel buddhismo non c’è né maestro e né discepolo, ma si tratta di pensare insieme, anche se è molto comodo lasciare che sia qualcun altro a indicare la via. L’importante è non lasciarsi trascinare dalle emozioni, dalle sensazioni, dai pensieri. Se adesso penso che ho fame e che è ora di pranzare, finisco per perdere il contatto con la realtà presente in cui ci troviamo tutti insieme.
D: Una domanda forse un po’ particolare: l’accenno presente in S. Paolo al ‘tutto’ che incontriamo è valido anche per il buddhismo?
R: Il ‘tutto’ di cui parla S. Paolo è tutta la realtà, noi compresi. Nel buddhismo il ‘tutto’ è la realtà che incontriamo e che prende corpo istante per istante, a condizione però di viverlo completamente. Nel Libro di Giobbe si parla di malattie e di sciagure che alimentano il dubbio sulla bontà di Dio e dei suoi disegni. Quando Dio si manifesta e risponde ai dubbi di Giobbe, non fa altro che sottolineare che Egli è colui che è, quel Tutto che incontriamo nella vita, istante per istante, malattie e sciagure comprese. In un certo senso la mia esperienza è simile a quanto sperimentato da Giobbe. Una volta presa la decisione di lasciare il monastero in cui ero abate e di recarmi in Italia con l’intenzione di rimanerci tutta la vita, facendo degli esami clinici appresi di avere pochi mesi di vita a causa di una grave malattia. Adesso sono ancora qui, ma se allora avessi pensato che la malattia è altro da Buddha, null’altro che una disgrazia, l’avrei maledetta perché aveva infranto i miei progetti, ma così facendo io avrei finito per smarrire la direzione; invece l’ho considerata come una manifestazione di Buddha, un segno della grazia – come insegna la Bibbia -, che va accettato e usato come insegnamento nella vita, perché la vita è imprevedibile.
D: Ma allora quale rapporto insegna ad avere il buddhismo con la morte?
R: Nel buddhismo si dice che tutto ciò che nasce poi muore. Da questa prospettiva l’estrema forma di mancanza di fede consiste proprio nel rifiutare di morire. E’ proprio perché so che morirò che leggo la Bibbia, cerco l’incontro con Buddha e pratico zazen. Se invece fossi immortale, questa ricerca non avrebbe alcun senso per me.
(Tratto dalla rivista La Stella del Mattino, n. 1 – gennaio/marzo 2007)