Ambiente naturale e responsabilità. Un approccio buddista
Questo articolo è stato pubblicato, in italiano, su Dharma N°6 2001, in inglese su Dogen Zenji’s Mind Here and Now, Ed. Sotoshu Shumucho 2001, Japan.
E’ difficile esprimersi secondo un’ottica che si autodefinisca buddista perché quell’ottica, pur esistendo, ha la forma dell’acqua. Pur essendo io un insieme corpo mente spirito formato, nello stadio adulto, nella fucina spirituale del buddismo Zen, le mie radici sono immerse nel, e consustanziali al cristianesimo. Questa ineluttabilità naturale, divenuta consapevolezza ha fatto sì che ogni immagine della cultura religiosa nella quale mi pongo sia, insieme, filtrata con gli strumenti delle mie origini, e assaporata con l’autonomia dei nuovi mezzi. A volte poi, di nuovo, confrontata riletta e messa alla prova anche dal nuovo cristianesimo che, con occhi più aperti, vado scoprendo in me. Ecco allora che la struttura del mio pensiero procede sulla via dello Zen e si dissolve, rinasce, ad ogni presenza si riforma assieme all’eco delle parole di Gesù. E sono lieto di questa compagnia. La tradizione Zen ha una sua data di nascita precisa. Anche se la sua epifania deve essere fatta risalire al sesto secolo, in Cina, tuttavia il primo muto vagito fu nel momento in cui Shakyamuni sul picco dell’Avvoltoio mostrò un fiore ed il suo discepolo Mahakasyapa sorrise. Nel dir nulla di quel momento un fiore fu mostrato. Non un libro, per il suo contenuto, e neppure miracoli sconvolgenti. Il miracolo era tutto in quell’immenso sotteso all’esistenza di quel caduco fiore perenne. Ed ecco che il mio compagno, quel giovane ebreo palestinese che mi segue tranquillo, mi rammenta: “…lasciate che i bambini vengano a me…” (Mt 19,14) ed ancora “…E chi accoglie anche uno solo di questi bambini accoglie me… ” (Mt 18, 5). Così mi riconosco e mi conforta sapere che il corpo della vita, i suoi simboli più chiari, i fiori dei campi, i bambini, sono davvero quello che appaiono: come l’aria, le stelle, l’acqua, i boschi, il mare le montagne, la mia mano che si muove, la voce di mia figlia ed il silenzio vuoto, quand’anche il silenzio tace. Nel 1240 il fondatore del buddismo Zen di scuola Soto in Giappone, Eihei Dogen, nel capitolo dello Shobogenzo “Voci di ruscelli, colori di montagne” (Keisei Sanshoku) riporta un antico poema cinese, composto da Dongpo, che recita all’incirca così: I suoni della valle sono la lingua madre I colori della montagna non sono che il corpo senza limiti Gli 84 mila (infiniti) versi del poema si odono attraverso la notte. Come potrò dire di ciò, domani? Dogen commenta dicendo: “I suoni della valle di Dongpo porteranno conforto e freschezza ai praticanti delle generazioni future […] Quella lingua non riposa mai.” (1) Se consideriamo la realtà da un’angolatura strettamente buddista, non possiamo parlare di “mondo circostante” perché, nel buddismo, la componente unitaria è preponderante alla visuale del particulare. Ossia possiamo parlare di un singolo capello se è “un modo” di parlare dell’universo. Il bandolo implica tutto il gomitolo. Per un orientale, educato con i parametri e le relazioni culturali di un mondo che si è culturalmente sviluppato a partire dai semi germogliati migliaia di anni orsono nel bacino del fiume Indo e ad Est della Grande Muraglia, sentir dire che i Cristiani, sotto le specie del pane e del vino, mangiano la carne ed il sangue del figlio di Dio è un messaggio estremamente forte, addirittura “sconveniente” nel senso di ciò che non si dice e non si fa perché inopportuno. Tuttavia, in questa formulazione, pure con un’intensità forse esagerata per una sensibilità orientale, appare immediatamente la sostanziale condivisione della vita tra l’uomo e Dio. In quell’atto Dio e l’uomo sono, diventano la stessa cosa. Così le montagne, i fiumi, l’aria che respiriamo, ogni tipo di cibo, le parole che scambiamo tra noi sono estensioni del nostro esistere che ci legano intricatamente all’universo tutto, ossia ci mostrano l’Uno nelle sue forme particolari. Ed allora il rispetto per l’ambiente non è rispetto per l’ambiente: il non buttare cartacce per strada non è rispetto dello spazio esterno. Non c’è un altro spazio. Ossia, una persona pulita semplicemente tiene pulita tutta la parte di vita che ha sotto gli occhi: le mani ed il resto del corpo, gli abiti, il posto in cui si trova. Non vi è sostanziale differenza tra questi elementi. Infatti in termini buddisti è più corretto parlare di ecofilia (2) piuttosto che di ecologia. Quando Dongpo nomina i suoni della valle ed i colori dei monti non sta usando una metafora o utilizzando un’immagine poetica per rimandare il nostro animo a sensazioni ed impressioni legate a quella vista. Sta proprio parlando di montagne, di ruscelli e di boschi. Così come parlando di un piccolo pelo sulla punta del naso di un elefante rappresentiamo l’elefante stesso, così pure se apriamo tutti i nostri occhi (gli occhi ai lati del nostro naso, l’occhio del nostro cuore emotivo, l’occhio della nostra mente immaginante e l’occhio del nostro spirito che non discrimina) ed accogliamo un fiorellino nella sua maestà miracolosa accogliamo tutto il miracolo del creato e la sua purezza incontaminata. Introducendo il termine ecofilia vorrei esprimermi in modo tale da restare al mio interno. Se parlo di ecologia mi sembra di dar vita ad un insieme ideologico o, perlomeno, sovrastrutturale. Vedo l’attività del mio cervello che occhiutamente esamina l’ambiente fuori di me e, richiamando dalla memoria tutte le conoscenze di biologia, chimica, fisica, botanica, geologia, tossicologia ecc., emette un giudizio sullo stato di quell’ambiente. Da cui, poi, discende una più o meno grande (ma fredda e impersonale oppure emotiva ed interessata in modo possessivo) esigenza di maggior aderenza ideologica all’ideale dell’ambiente incontaminato o dell’ambiente sano, se questo o quello costituiscono la mia base di giudizio. Spesso, parlando con mia figlia ora adolescente, emerge il “perché” io le indichi un comportamento oppure un altro. Tra i “perché” che gli adolescenti mettono più volentieri in discussione, vi sono tutti quelli legati al comportamento normativo, ossia legati ad attività scomode, apparentemente prive di divertimento o di attrattiva ludica. L’igiene del corpo, l’igiene mentale, l’igiene morale, l’igiene e l’estetica degli abiti, l’igiene e l’estetica della propria camera, comprendendo il letto, l’armadio e quant’altro. Ed anche la qualità e la quantità dei rapporti con le persone più vicine: famigliari in primo luogo poi gli amici gli insegnanti ed i compagni, sia di studio sia di altre attività. Il modo di “trattare” un fiore in un’aiuola o su un prato di montagna, o di “trattare” la carta della merenda come pure l’acqua di un ruscello. Vi è un denominatore comune tra tutti questi comportamenti o attenzioni e, se noi ne siamo coscienti e convinti, è facilmente trasmissibile anche ai più giovani. Il punto è proprio ciò che ho definito ecofilia. Ciascuno di noi vive l’Universo in modo personale. Nel Buddismo, quando nasce un bambino, non si dice che quel bambino è venuto al mondo. Ossia: non si dà per scontata l’esistenza di un mondo preesistente nel quale i vari esseri nascendo si vanno ad inserire. Ciascun essere nascendo dà inizio al suo mondo, che senza di lui non ci sarebbe. Quando moriamo con noi muore quel mondo. Così l’universo che viviamo è il nostro universo, è tutto nostro. Allora ogni volta che “butteremo” una cartaccia o dello sporco o del malanimo o dei rapporti insinceri nel nostro universo, proprio con quegli elementi noi ci troveremo a vivere, con quegli elementi stiamo costruendo la nostra vita. Per questo mi è venuta in mente mia figlia: quando era piccolina, parlando di queste cose in modo a lei comprensibile, le chiedevo se lei avrebbe dormito volentieri in un letto in cui avesse appena fatto la pipì. Al suo indignato diniego facevo seguire la considerazione: la tua vita è come il tuo letto, ciò che ci metti ci trovi. Così è per ogni cosa nel nostro mondo. Quando bruciamo un bosco, nel nostro personale mondo, nella nostra vita, ci saranno un bosco in meno, animali bruciati terreno dissestato. Quando trattiamo male una persona avremo aggiunto un tot di “male” alla nostra vita. Quando facciamo “bene”, avremo aumentato il “bene” della nostra vita. Ecco allora che il compiere il bene non ha una ricompensa. La ricompensa è il bene stesso che, compiuto, creato, ci mantiene nel bene. Ed anche: compiere il male non è una colpa e quindi non ha castigo; il male stesso da noi posto, inserito nelle pieghe, nella sostanza della nostra vita è la “punizione” che autonomamente ci procuriamo. Sono trascorsi molti anni da quando ho impostato in questo modo il piano di educazione ai “perché” dei comportamenti normativi e mi sembra che la comprensione sia cresciuta di pari passo alla coscienza dell’effettiva realtà del fenomeno. L’interdipendenza condizionata o legge di causa ed effetto (3) che mostra, indica la trama del nostro mondo unico ed esclusivo tra miliardi di altri e contemporaneamente interconnesso con tutti gli altri, ci dà lo spunto per impostare una visuale della cura dell’ambiente sia come cultura in senso intellettuale, ma anche basata sull’interesse personale, quindi di facile ascolto e recepimento. Un interesse che, essendo rivolto all’universo, non si sviluppa in contrasto ad altri interessi o all’interesse di altri, anzi, ci offre la fantastica opportunità di essere “egoisti” non solo senza nuocere ma con l’aspettativa della piena soddisfazione delle persone che ci circondano, essendo esse stesse (in quanto universo) beneficiarie delle nostre cure. Non mi sto riferendo ad una sorta di buonismo in cui ci si gratifica vicendevolmente perché si “deve” essere buoni, e nemmeno a quel mondo un poco melenso in cui ci si comporta tutti con bontà per conformismo religioso. Mi riferisco ad una situazione in cui il mio vicino può essermi anche antipatico ma essendo lui parte del mio mondo, ed io parte del suo, conviene ad entrambi sia il comportamento corretto reciproco, sia la cura del nostro habitat (io faccio parte, sono il suo habitat e lui il mio). Il contrario corrisponderebbe infatti “a far la pipì nel letto prima di entrarci per dormire”. Questo può avvenire solamente se vediamo chiaramente che quello che usualmente viene chiamato “ambiente esterno” è in realtà l’interno della nostra vita. Anche in questo caso vi sono parole ben note che echeggiano tra me e me ”…amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, a chi ti percuote sulla guancia porgi anche l’altra…” (Lc 6,27-29), “…ama il prossimo tuo come te stesso…” (Mt 19,19). Gesù è un grande esperto di ecofilia. Fare zazen è essere corpo. Questo corpo è ogni corpo è tutto il corpo. Ed ognuno “ha“ il suo corpo. Se il Cristo non è tutto e in tutto, il “cristianesimo” non è una religione ma una credenza. Quando, nel secolo scorso, il Mahatma Gandhi guidò nel subcontinente indiano la rivolta pacifica contro il colonialismo Inglese, l’atteggiamento base della sua azione fu tradotto con “non violenza” dagli occidentali. Con questa espressione si tentò di tradurre un antico termine sanscrito: ahimsa. Questa parola, il concetto che essa esprime, è comune a tutte e tre le correnti religiose indiane. Lo troviamo nel Rajayoga di Patanjali come pure nel Buddismo e nello Jainismo. E’ così importante che viene considerato virtù indispensabile per accedere alla vera sapienza. Perché questa non può esistere senza quella. Il glossario sanscrito (Ed. Asram Vidya) così traduce ahimsa: “comportamento di colui che avendo realizzato l’unità della Vita si astiene spontaneamente da ogni atto o pensiero suscettibile di nuocere ad un essere vivente”. Proviamo a dire la stessa cosa usando un’altra terminologia: chi si rende conto del significato della Vita si astiene dal nuocere alla biosfera (4). Questo equivale ad ascrivere automaticamente chi sostiene la necessità dell’inquinamento o quella di nuocere in qualche modo alla biosfera per motivi economici o comunque giustificabili in vista del “progresso” o della “modernità”, tra coloro che mentono sapendo di mentire o tra coloro che ignorano il senso intimo dell’esistenza (5). In ogni caso costoro sono nell’impossibilità di stabilire una scala di valori attendibile. Il loro diritto è nella forza non nella giustizia. Le loro affermazioni vincono perché fanno leva sulla parte di noi più facile da seguire: è la via che conduce alla “porta larga” (Mt 7,13). La conversione, il cessare di divergere dalla nostra Vita, nel Buddismo, è rifiutare l’allettamento della “porta larga” tornando ad un “me” che ci comprende e rende naturale, inevitabile esprimersi con ahimsa. (6)
Note:
1)Ho utilizzato la traduzione inglese, pubblicata con il titolo “Valley Sounds, Mountain Colors”, nell’opera “Enlightenment Unfolds, The Essential Teachings of Zen Master Dogen” edita dalle edizioni Shambala, Boston & London, 1999, a cura di K. Tanahashi.
2)Ricordiamo che il senso etimologico di questo neologismo è “amore (philia) per la propria casa, dimora (oikos)”.
3)L’espressione sanscrita pratityasamutpada viene spesso tradotta anche con “legge di causa ed effetto”. Questa scelta può essere accettabile solo se “dimentichiamo” la visuale consequenziale insita nella concezione del tempo che “scorre”. Raimundo Panikkar (cfr. “il silenzio di Dio, la risposta del Buddha”, Borla, Roma, 1992, Pag.103) traduce pratityasamutpada con: produzione convergente, emergere armonico, generazione condizionata, apparizione congiunta, mutua originazione, ed anche con: “l’epifania dell’insieme della totalità”, “la manifestazione globale del dinamismo di tutte le cose”, “la concatenazione universale”. Quindi l’espressione “legge di causa ed effetto” è valida se ci rendiamo conto che “causa” ed “effetto” sono contemporanei, ossia appaiono assieme come la destra e la sinistra o l’azione e la reazione, e circolari, infatti ogni causa è a sua volta un effetto e viceversa: … C esiste perché B esiste, B a sua volta deve la sua esistenza ad A, che esiste perché Z esiste… E’ il modo miracoloso in cui “si regge” l’universo ed ogni sua parte, senza bisogno di postulare una Causa Prima. E’ qui che risiede la forza anti-idolatra del Buddismo non teista e non ateista. In questa luce penso sia interessante investigare con molta attenzione il significato di “… dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt. 18,20).
4)Cfr. Gary Snyder “Mountains Hidden in Mountains – Dogen Zenji and the Mind of Ecology-“ pubblicato in “Dogen Zen and its relevance for our time”, Ed. Sotoshu Shumucho, Tokyo, 1999. L’ originale è “The practice of the wild” pubblicato dalla North Point Press di Berkley nel 1990; traduzione Italiana: “Nel mondo selvaggio”, Red Edizioni, Como, 1992.
5) Se, come propone Snyder, traduciamo “tutti gli esseri” con “biosfera”, cioè con un sostantivo singolare che dia l’idea dell’unicità della molteplicità di “tutto ciò che vive”, appare facilmente leggibile anche la necessità ineluttabile del voto del Bodhisattwa (ricordiamo brevemente che tale voto consiste nella rinuncia ad una eventuale salvezza individuale, legando la propria redenzione a quella di tutti gli esseri). Se riconosciamo sia la dimensione cosmica del nostro corpo-mondo (contenente tutti gli altri corpi-mondi) sia le sue interconnessioni, non possiamo veramente “andare” da nessuna parte se non assieme a tutti i corpi-mondi.
6) Penso che la presenza di ahimsa in tutte le religioni dell’Oriente e dell’Occidente in qualche modo ne dimostri la necessità. Sia in senso spirituale, poiché l’apertura del cuore amorevole è la condizione che ci unisce, non ci separa dalla Vita. Sia in senso concreto: la salvaguardia della vita è un’esigenza proprio perché il mondo tende a procedere, naturalmente, nella direzione opposta. Estremizzando si può dire che ciò che più nuoce alla biosfera, ossia alla vita degli esseri dell’universo, è la comparsa di una nuova vita che per nutrirsi e sostentarsi, ossia per far vivere il proprio universo, in qualche misura lo deve fare a discapito di altre forme di vita contribuendo, nel frattempo, ad aumentare rumore, rifiuti, anidride carbonica ecc. ecc. Guardando così, da quest’angolo, alla vita del mondo, si può affermare che la più grave forma di inquinamento è la procreazione. Questo punto di vista ha come conseguenza logica che il “massimo della purezza” è “l’assenza di vita”. Ossia il prima dell’inizio. O il dopo della fine. Tuttavia, a meno che non si voglia aderire ad un improbabile cupio dissolvi cosmico, la possibilità reale dell’esistenza è nel procedere in punta di piedi, nel rispetto di quel Tu che è me e tutto il resto.
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