Lo scorso anno, a fine ottobre, pubblicammo un post presentando due testi: un audio libro ricavato da un discorso di Uchiyama roshi e L’altra riva, un testo del monaco cristiano-induista Le Saux sulla sua esperienza come sannyāsī, ovvero ‘rinunciante’ secondo la tradizione hindù del sanātana dharma, quello che volgarmente chiamiamo ‘induismo’. Nel commentare questo testo mi ero lasciato andare ad una lamentazione con le parole “viene quasi da rimpiangere che tra i cristiani nessuno, sino ad ora, abbia saputo vivere e soprattutto dire il buddismo in una maniera altrettanto competente e profonda”: un vero e proprio “signora mia, non ci sono più i cristiani di una volta …!”.
Poco tempo dopo ho ricevuto un breve scritto dedicato al Silenzio nel monachesimo buddhista che mi ha fatto ricredere. Matteo, monaco della Comunità di Bose (che nella foto vediamo con l’abate di Sogenji, monastero Rinzai di Okayama, Giappone),
si è cimentato con il difficile tema del silenzio, un classico tra gli ossimori di ogni tempo, con un’accuratezza ed una competenza che “viene quasi da rimpiangere che tra i buddisti …” 🙂
È un’analisi che indaga a partire dalla tradizione testuale sia del buddismo antico che del mahāyāna con un’attenzione e una cura nitide e rispettose. È così che si fa.
L’argomento mi da l’occasione di porre in parallelo un libretto che ho appena pubblicato (anzi: c’è chi lo ha fatto per me …) che tratta dello stesso tema, seppure accentrando l’attenzione non solo sul silenzio ma anche sul sorriso: un segno gentile, questo, come rileva Matteo, che da quasi 1500 anni accompagna l’iconografia buddista. In quell’occasione ho usato ambedue, silenzio e sorriso, come metafore del … della …
Insomma, come sempre: silenzio e sorridere. Perché, come è stato detto, non basta morire in silenzio, occorre essere un bel cadavere.
Qui potete scaricare il testo di fra’ Matteo: