Nei decenni precedenti, molti si sono interrogati sul perché il buddismo zen diffuso in Occidente dai primi anni sessanta, abbia avuto e continui ad avere una forma prettamente e quasi unicamente giapponese e, in qualche caso, cinese. Questo dubbio o quesito nasce dalla consapevolezza che lo zen è la continuazione dell’esperienza buddista delle origini, dove non esiste una forma determinata nella quale debba manifestarsi nel mondo la realizzazione del vero modo di vivere: quello che si sviluppa fuori dalle fantasie e dalle dottrine dogmatiche e realizza passo dopo passo una vita che scioglie ogni tipo
di sofferenza.
Ciascuno di noi, dal momento in cui decide di coinvolgere la propria vita nell’insegnamento buddista, inventa da capo il proprio modo di vivere. Il buddismo nasce con la nostra pratica e in essa si manifesta: non c’è una forma determinata, pronta, da imitare. E pur inventando tutto, nulla è inventato: nasce nuovo perché nuova è la vita che vive ciascuno di noi, non perché gli diamo quella forma secondo la nostra volontà. Ognuno a suo modo nell’unico modo. Ma, se così stanno le cose, perché la forma giapponese pare irrinunciabile?
Ho tentato di dare una risposta storica a questa domanda. Vi propongo la prima parte di questo tentativo con il titolo La genesi delle religioni del Giappone. La seconda parte, che comparirà in seguito assieme ad un testo attualmente in lavorazione, indaga su un altro “retroscena”: la sinizzazione del buddismo, operata dai cinesi a partire dal III-IV secolo, adattandolo ad una diversa visuale religiosa e modificandone uno dei punti più importanti: l’astenersi dal definire la natura dell’essere, un’astensione sostituita (a volte solo integrata) con il legame alla spiritualità confuciano-daoista dello “spirito del Cielo”. Occorre rammentare che il buddismo non è una metafisica o un tentativo di stabilire “come stiano le cose” né, tantomeno, il loro perché: è “solo” la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, indipendentemente dal come e dal perché così stiano le cose.