Che succede se due realtà enormi si incontrano? O che nasce un’aquila bicipite, o che si fa una frittata. Pare purtroppo questo il caso del libro Bioetica e religioni, di Michele Aramini dell’Università Cattolica di Milano (edito da Paoline, 2007, pagg. 178, euro 11). Aramini è un esperto di bioetica, e la Cattolica non è l’ultimo buco dell’universo didattico; e tuttavia…
Lo scrivente non ha nessuna autorità per decidere che cosa è buddista e cosa no, quindi mi limiterò poco più che a selezionare alcuni testi esemplificativi.
Per introdurre il tema “Bioetica e Buddhismo” (pagg. 105-112), l’autore parte da un capitoletto dal titolo impegnativo: “La concezione buddhista della vita”. E vede subito l’impasse: “Non è facile offrire in pochi tratti un quadro esauriente della dottrina contenuta nell’enorme massa della letteratura nata alla scuola del Buddha”. Del resto, con quali fonti? A naso, a giudicare dai nomi indicati in nota, tutti studiosi cristiani o perlomeno di formazione occidentale: P. Desai, D. Keown, e soprattutto J. Martin, autore del saggio Il Buddismo e il diritto al rispetto della persona di fronte ai rischi legati al progresso delle biotecnologie.
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L’autore introduce quindi il discorso in modo sostanzialmente onesto: “Nella sua vita Buddha insegnò una sola cosa: come riconoscere la sofferenza per liberarsene. Ciò che noi chiamiamo Buddhismo è la via spirituale che egli ha insegnato con la sua dottrina” (pag. 105). In altri casi, il tentativo di esplicitare dà adito a espressioni imprecise (“illuminazione” è termine spurio per “risveglio”) e dualistiche (la pratica non ha uno scopo esterno ad essa): p.es. lo scopo delle pratiche buddiste sarebbe “trasformare l’uomo illuminandolo e pacificandone lo spirito, ed eliminando gradualmente le tendenze negative che scaturiscono dal credere in un io permanente e sostanziale” (pag. 107). Più si vuole specificare, più ci si impegola: “Il sistema di pensiero buddhista è privo di dogmi. La dottrina buddhista si può comparare, secondo una notissima metafora, a una nave che si usa per passare da una riva all’altra, ovvero dalla confusione alla lucidità trascendente, e che va abbandonata all’arrivo” (pag. 107).
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