Generali


Il grande Butchlazy, tra gli intimi noto come “l’uomo che raddrizza le biro”, ha pubblicato un altro video musicale. La sua chitarra resofonica -ossia modificata per fornire una sorta di effetto benjo- è una fluida carezza


Nilo, un amico, pittore, praticante zen, espone i suoi quadri nella galleria E20 GAIA, in quel di Papiano, frazione di Marsciano, PG, Strada per Caprareccia 125. Colori accesi, toni forti, come forte è il sentire dell’artista. Qui sotto una delle opere: l’isola del sé

Tutti i buddisti sanno (e che lo sappiano si capisce dal fatto che se accenni l’argomento annuiscono con l’aria un po’ annoiata) che la corretta pratica quotidiana passa soprattutto attraverso il non modificare la realtà con le nostre immaginazioni e fantasie: ascoltare ciò che udiamo, guardare ciò che vediamo, senza aggiungere (o togliere nulla). Questo è (si sa) naishkramya, lasciar andare-non fabbricare, la pratica base di ogni buddismo. Dedichiamo il sottostante video a quei pochi che non lo sapevano


Quando ero bambino uno zio mi diceva spesso che “da grande” avrei dovuto fare il prete. La giustificazione che ogni volta portava a sostegno di quel consiglio era sempre la stessa: “È pur sempre meglio che lavorare…”. Mi son tornate alla mente quelle parole quando giorni addietro ho segnalato l’uscita de Fare il prete non è un mestiere. Una vocazione alla prova.

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Lasciare la casa, rinunciare ad una famiglia ed a tutte le responsabilità, le sofferenze, le gioie e le complicazioni che questo comporta è difficile. La vita da “soli”, che è più solitaria di quella del semplice single, specialmente attorniati da persone che sono circondate dai loro famigliari, ha dei momenti di sofferenza veramente acuta. Il rischio, sempre incombente per chi ha la responsabilità di una famiglia, di trovarsi a terra, magari senza neppure una casa, è una spina tremenda.
Ecco, da parte di dr, la recensione al libro sul mestiere del prete. Che non è solo un mestiere.

Per recensire queste interviste a sacerdoti di oggi, partirei da un’“intervista che non c’è”: quella a don Cesare, nostro parroco di famiglia su al paese. Quando si va a salutarlo, ti accoglie in una di quelle canoniche ciclopiche rispetto alle esigenze attuali. Ampie stanze dietro ampie stanze, mobili scuri e silenziosi,

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L’amico dr ci ha inviato la seconda tornata degli haiku di Alan Lasting. “Siamo” sempre a Dover ed ora il tema pare più esplicito: il risveglio. Ma la brevità del testo ancora non permette di vedere oltre l’accenno; al modo di alcuni dipinti cinesi del tempo che fu dove il tremolio di un filo d’erba cela e non cela i baffi del drago in agguato…

Dover, morning
So just keep my wake
In sight before the water
Closes ’n’ flats again

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La pagina Libronline si è arricchita di un nuovo testo. Breve, intenso, inusuale. Si tratta del racconto redatto da Kosho Uchiyama roshi, già abate di Antaiji negli anni ‘60 e ’70, sulla sua vita da monaco, a Kyoto, sostenuto unicamente dalla questua. Il periodo narrato è quello dei difficili anni immediatamente successivi all’ultima guerra mondiale. Ma il vero senso dello scritto del roshi risiede nel tentativo di comunicare la sua personale comprensione -che è pratica quotidiana- del significato di “retto sostentamento”, uno degli otto rami dell’Ottuplice Sentiero. È strano ma l’argomento “denaro” non viene quasi mai affrontato nei moderni testi buddisti. Si discetta di sottigliezze, ci sono forum e siti web dove si arriva a minuzie incredibili riguardo alla dottrina buddista. Si pubblicano libri su ogni aspetto della pratica e della caccia all’illuminazione. Ma come i singoli interlocutori sbarcano il lunario… è sempre nell’ombra. Eppure l’unico mezzo di cui il Buddha ha dato esempio per vivere è la questua. Quando il racconto di Uchiyama è stato pubblicato sulla rivista della Stella un membro autorevole della medesima mi ha comunicato le sue “perplessità circa la pubblicazione di un testo sulla questua, ora, proprio da noi, in Italia”. Chissà perché. Non sarà che, sotto sotto, non possiamo non dirci (demo)cristiani?

In attesa che qualcuno lo legga e ce lo recensisca, anticipiamo -sarà in libreria a fine mese- l’uscita di un testo che promette bene. Ecco la scheda di autopresentazione:

Fare il prete non è un mestiere. Una vocazione alla prova
di Laura Badaracchi, Ed. Gli asini (www.gliasini.it), Roma 2009

Esiste il mestiere di prete? Essere sacerdote è solo una vocazione o anche una professione? Domande provocatorie per far pensare che, in fondo, ogni lavoro dovrebbe avere un’anima, nascondere in sé una sorta chiamata.

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Tenendo presente che anche per diventare presbitero, come per altri “mestieri”, occorre una formazione specifica, lunga e complessa. Non si tratta di una scelta estemporanea o a cuor leggero: il seminarista, o aspirante prete, ha a disposizione molti anni per scandagliare la sua vocazione, con l’aiuto del direttore spirituale e del confessore, di compagni di strada e amici con cui confrontarsi.

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