Ogni famiglia, intesa come unità culturale, nell’intento di sopravvivere nel tempo perpetua la sua identità attraverso l’osmosi, tra generazioni successive, delle caratteristiche visibili e invisibili costitutive di quella identità. Analogo meccanismo troviamo nelle religioni universali, sebbene l’identità religiosa si possa collocare anche in ambiti così profondi e ineffabili da eludere il meccanismo stesso, rendendo il contenuto del passaggio da una generazione all’altra più la rigenerazione di un principio, l’innesco di un processo, piuttosto che la comunicazione di idee, regole, concetti, credenze o notizie. Comunemente intesa, universalità implica la piena possibilità di adesione da parte di ogni essere umano ma, nel caso del buddismo, questa apertura di accoglienza travalica la nostra specie, comprende ogni essere, indipendentemente dalla specie e dal regno in cui si manifesta. È evidente che, a mano a mano che l’universalità si estende sino agli estremi, al punto da aprire le porte con gli stessi diritti all’uomo come al tricheco, all’aria e all’acqua all’erba ed alle montagne, la ricerca e soprattutto l’identificazione del quid unificante realtà così madornalmente differenti dovrà rivolgersi a profondità e caratteristiche per nulla collocabili nel mondo della forma e delle apparenze. Contemporaneamente forma e apparenze continuano a rappresentare elementi di diversità indispensabili nella realtà della vita: io posso ben accogliere l’insalata nel mondo della salvezza buddista così come avviene per gli uomini e le donne, ma nutrirsi di insalata o di uova o di formaggio non è la stessa cosa che nutrirsi di altri esser umani. Analogo è il discorso relativo al nutrirsi di animali: così come invitare un gruppo di amici per una grigliata utilizzando un giovane essere umano come piatto del giorno è diverso dal farlo usando un capretto allo stesso scopo, così pure non si può negare che uccidere un cane, una gallina o un bue per mangiarli non sia la stessa cosa che recidere un mazzo di bietole o dissotterrare un mucchietto di patate. Più aumentano le categorie dei fratelli e più aumentano le categorie da rispettare come fratelli, anche se “rispettare” può esprimersi in comportamenti differenti: nella gratitudine espressa nei confronti del cibo si manifesta il rispetto per le forme di vita che sono state sacrificate per approntarlo. La morte per inedia nel rispetto assoluto di ogni forma di vita in cui consiste, in pratica, la soluzione più santa indicata dal jainismo (1) radicale non trova riscontro nell’etica buddista, se non come scelta individuale e perciò insindacabile e non universalizzabile.
Nota:
1) Jaina deriva da jina “il vincitore [delle passioni]”, epiteto di Vardhamāna, contemporaneo del Buddha Śākyamuni e diffusore nella nostra era di questa religione. Il jaina nato come rinnovamento del brahmanesimo è una forma religiosa severamente ascetica che indica come pratica di salvezza l’assoluto rispetto di ahimsā (letteralmente “non nuocere”), la non violenza o in-nocenza verso qualsiasi essere vivente e la pratica attiva dell’amore universale.
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