Dal cap. II de La via maestra

Tra gli anni sessanta e settanta, in Europa e negli Stati Uniti, assieme a poche, pochissime persone con la testa sulle spalle ed i piedi attaccati alle caviglie che praticavano lo zazen senza alcuna iattanza particolare, comparvero i “maestri zen”. Ossia persone, giapponesi e occidentali, che erano maestri di per sé. Ovvero avevano conquistato, avevano ricevuto in qualche monastero o si erano autonomamente attribuite quel titolo e che quindi, una volta per tutte, possedevano quello status e quel ruolo oppure, per meglio dire, erano quel ruolo. Ovviamente il titolo era implicitamente legato ad una conoscenza particolare che li faceva tali a tutti gli effetti.

Sono innumerevoli gli abusi compiuti da questo tipo di persone. Molte sono attualmente in piena attività ed hanno decine, complessivamente migliaia, di seguaci.

Mi sono interessato a questo fenomeno perché mi ha sempre impressionato la disponibilità di molti ad essere vessati, tiranneggiati per periodi di tempo anche molto lunghi da persone che qualsiasi osservatore imparziale riconoscerebbe come mediocri imitatori di scenette e rituali giapponesi o, addirittura, del tutto estemporanee.

Essendo il “maestro zen” una figura fittizia, ovvero un personaggio che non può esistere se non per fantasiosa autoproposizione in quel ruolo, di conseguenza una persona che creda di essere tale o di essere il legittimo detentore di quel titolo non può essere altro che un illuso o un millantatore. Per cui, indipendentemente dal fatto che sia cosciente o meno di ciò, non avrà alcuno “zen” da insegnare. Quindi, da quel lato, non avrà nulla da offrire. Diverso dall’avere nulla da offrire.

Quali saranno allora la “merce” che quella figura può fornire ed il talismano che la mantiene in sella, ovvero qual è l’appeal che le procura l’adesione incondizionata di discepoli disposti (quasi) a tutto pur di stargli vicino e qual è il sostegno interiore, la motivazione che la fa proseguire su quella strada?

Nel buddismo Zen non esiste la carriera di maestro. Non esiste un cursus honorum, una procedura, una scuola, un processo o qualcuno che possa farci maestri. Però, visti i presupposti storici, culturali e iconografici che quel titolo, fittizio sin che si vuole, si porta appresso, capisco che possa facilmente diventare oggetto di forte desiderio. Per esempio, chi può esibire il titolo di maestro è, più o meno automaticamente, da considerarsi un illuminato, detentore di una conoscenza ineffabile e superiore, quindi una persona da invidiare, imitare… E penso che proprio qui stia la soluzione di questo piccolo, nel senso della sua piccineria, mistero.

Dal momento in cui qualcuno è apparso sulla scena esibendolo, quel titolo ha rappresentato una forma che il nostro desiderio può assumere come oggetto. Quindi, logicamente, ci accompagniamo a lui per essere istruiti, affinché ci faccia diventare come lui è, ovvero ci doni quello che non ha: una conoscenza superiore e indicibile. Ma tutto quello che quella persona ha è solo se stessa, con quel titolo, e se per ipotesi fosse in grado di farci diventare come lui, questa occorrenza sarebbe la fine di ciò che è, ovvero il dominus incontrastato, il detentore del titolo. Corre quindi un solo pericolo: non essendo in grado di una vera trasmissione non può che essere eguagliato in ciò che in modo truffaldino rappresenta, ma se lo uguagliassimo scopriremmo il trucco ed il gioco si sgretolerebbe. L’unico modo in cui il gioco può continuare è non avendo mai fine, ossia impedendo a chiunque di raggiungere la posta che, rivelandosi inesistente, scoprirebbe il bluff.

Una tale persona, mantenendo l’esclusiva sul ruolo che interpreta, perpetua il nostro desiderio di eguagliarlo, e il nostro desiderio di essere come lui lo rafforza nel suo e a sua volta questo suo rafforzarsi ce lo rende ancor più desiderabile. A questo punto il processo si alimenta di sé stesso. Un potere inesistente, segnalato da un titolo, uno scettro che ne è l’unica prova, accende un gioco la cui posta è niente, ossia l’esibizione dello scettro stesso, che per avere valore deve essere desiderato da altri (1), da più persone possibile: pare un incubo.

Il desiderio sulla via che porta a diventare “maestri” ci impedisce di vedere i limiti del nostro piccolo idolo. La speranza di essere un giorno al suo posto e di avere, così, altri che desiderando essere come noi confermino l’importanza del nostro status: questo è ciò che ci impedisce di vedere il servilismo nel quale viviamo per quello che realmente è. In questo modo, unico e vero tratto d’unione tra maestro e discepolo è il desiderio, ed essendo un desiderio verso la stessa cosa, ossia lo stesso ruolo, si basa inevitabilmente su un conflitto latente, che per un tempo più o meno lungo si sublima in ammirazione adorante per poi sbocciare in lotta. A parte il caso in cui il “maestro” muoia improvvisamente ponendo così le basi per un’idolatria che permetta ad altri di gestire il potere in nome o per conto del defunto, tutte le relazioni di questo genere si concludono inevitabilmente con grandi drammi, rifiuti reciproci, rancori e distacchi traumatici, oppure si evolvono in situazioni in cui una delle parti accetta un’eterna subalternità, la quale però non comportando desiderio ovvero non portando nuova linfa al rapporto, lo spegne. Queste varianti si risolvono comunque in relazioni altre rispetto alla dinamica iniziale, sodalizi di vario genere, a volte matrimoni, rapporti sbilanciati la cui stabilità è garantita solo dal perdurare dello squilibrio di partenza della relazione su cui si basano.

Nel cosiddetto ambiente dello Zen occidentale tali aggregazioni -che nel loro sviluppo diventano piramidi riproponenti ai vari livelli l’identico meccanismo basato su desideri convergenti che si confermano l’un l’altro- sono numerose, forse numericamente preponderanti rispetto alle situazioni sane. Eppure anche ad un semplice esame logico dovrebbe apparire la completa perversione di un tale insieme di comportamenti, sia da un punto di vista genericamente religioso come anche specificamente buddista. La conquista di un potere su altre persone, il desiderio di esibire un ruolo, uno status o una particolare conoscenza sono ascrivibili più al campo delle problematiche individuali tendenti al patologico che nell’ambito degli obiettivi religiosi, specialmente quando è chiara ed evidente l’assenza di una qualsiasi base reale in tutto l’impianto.

Religione o religiosità non possono essere usate come oggetto di desiderio né, tantomeno, come una posta in gioco, pena il loro decadere. Quando qualsiasi cosa, magari la stessa conduzione del gioco, diventa una posta in un gioco di potere allora i nomi religione o religiosità vengono illegittimamente attribuiti ad un ambito affatto diverso.

1)Questo meccanismo è diffuso nelle situazioni in cui l’istinto, più che il raziocinio, è preponderante nel processo decisionale. Per esempio, nei giochi infantili, se un giocattolo si trova tra le mani di un bimbo, specialmente se questi se ne dimostra contento, è comune che quel giocattolo diventi improvvisamente oggetto di desiderio da parte degli altri bambini, sino a provocare litigi molto accesi. Lo stesso giocattolo (e così pure tutti gli altri nel momento in cui il primo è al centro delle dispute) abbandonato in un angolo non suscita l’interesse di nessuno. Un amico che ha vissuto per molto tempo in un villaggio ai margini della jungla, mi ha raccontato che sugli alberi presso la casupola in cui abitava si era stabilito un grande scimmione assieme al suo harem. Ogni volta che un altro maschio si avvicinava, il capo dell’harem afferrava una femmina e mimava l’atto di possederla. Immediatamente il nuovo venuto diventava aggressivo e, se sufficientemente coraggioso, arrivava allo scontro con il maschio dominante. Qualche volta lo scimmione era così preso dal suo gioco di esibire il possesso delle femmine da compiere, come in un meccanismo parossistico, la stessa scena non più all’avvicinarsi di un’altra scimmia ma di un essere umano. Penso che buona parte della pubblicità televisiva sia impostata sfruttando lo stesso meccanismo: lui è così bello (felice, ricco, al centro dell’attenzione, invidiato ecc.) perché ha il prodotto XXX: se lo compro raggiungerò gli stessi risultati… Le differenze con l’esempio dello scimmione sono minime: in questo caso il conflitto per ottenere l’oggetto del desiderio non è con colui che lo possiede sullo schermo e mima i vantaggi che ne ottiene (e questo mimare, a volte, consiste proprio nell’accompagnarsi ad una femmina della nostra specie), il prodotto infatti è a nostra disposizione in ogni negozio ed il suo possessore sullo schermo è finto, ha solo il compito, in pochi secondi, di eccitare il nostro desiderio, poi scompare. Il conflitto in questo caso si accende, a volte in modo tragico, con chi ci contrasta nella soddisfazione del desiderio suscitato.

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