È un luogo comune l’affermare che la cultura occidentale è debitrice nei confronti di quella greca; si può leggere l’asserzione al contrario e dire che la cultura greca è responsabile – o colpevole, se vogliamo – di gran parte del pensiero occidentale… in entrambi i casi si riconosce la robustezza del filo che attraverso i secoli, anzi i millenni, ancora ci tiene attaccati a una concezione del mondo, a un modello di pensiero che è nato e si è sviluppato in una civiltà i cui presupposti non hanno pressoché niente in comune con quelli del mondo di oggi.
Tuttavia lo studio del Greco perde terreno. Il liceo classico, baluardo eretto contro l’attacco del nemico Nuovo, mostra segni di cedimento: in molti casi le ore di lezione sono diventate “moduli” di cinquanta minuti cosicché i dieci rosicchiati agli insegnamenti tradizionali possono essere raggruppati in altri moduli dedicati all’informatica e/o all’inglese. La facoltà di lettere classiche è poco frequentata in conseguenza al calo d’interesse per la cultura umanistica sopraffatta dall’energia vitale di quella scientifica- tecnologica che, in più, possiede le poche chiavi oggi utili per il mercato del lavoro sul quale gli studiosi dell’antichità sono, ben che vada, liquidati al prezzo di costo. Lo studio del Greco è appannaggio di pochi intellettuali che vivono nelle biblioteche, discutono tra loro su riviste specializzate e, quando accettano di rivolgersi al pubblico di età scolare per comunicare i risultati più significativi dei loro studi, tendono a farlo in un linguaggio iniziatico che, per quanto preciso e puntuale, è per ciò stesso di difficile accesso e non riesce a stimolare l’interesse – ma neppure la curiosità, del pubblico suddetto il quale, tuttavia, continua a presentarsi agli incontri per accumulare crediti in vista dell’esame di maturità – e per far passare l’ora della conferenza c’è sempre la battaglia navale, miracolosamente scampata al ’68….
Ci si chiede se sia davvero il caso di continuare a imporre lo studio di cose morte e sepolte, che senso abbia costringere gli adolescenti a imparare una lingua che non serve a niente, una letteratura le cui opere – meglio, le poche reliquie che ci sono arrivate su papiri bruciacchiati e pergamene rosicchiate dai topi sono lontane dalla nostra sensibilità, le cui rovine archeologiche restano solo per ostacolare la costruzione di strade o altro proprio là dove sembra indispensabile costruire.
C’è chi sostiene che l’essenza – diciamolo in greco, è parola nota: la Psychè dell’uomo (e della donna, precisiamo!) sia fondamentalmente sempre la stessa, per cui istinti, sentimenti, aspirazioni, angosce di un’individualità morta da oltre duemila anni possono essere identici a quelli dell’individuo di oggi. Il “senso” degli studi umanistici consiste quindi nel ritrovare noi stessi in quel mondo lontano e constatare come non ci si possa aspettare che cambi ciò che è struttura portante dell’essere umano al pari dello scheletro e della muscolatura.
Un’altra scuola di pensiero sostiene l’identità uomo (e donna, come sopra) = essere sociale: in questo caso l’essere ovviamente si trasforma col trasformarsi della società, a sua volta modificata dal modificarsi dell’individuo. Il “senso” consiste quindi nell’individuare il seme antico da cui è germogliato l’albero odierno cosicché, se questo è deforme, non ci si limiti a tagliarne le fronde ma se ne possano scalzare le radici.
Chi scrive ritiene che ogni tentativo di definizione dell’essere umano sia inevitabilmente ed estremamente riduttivo dello stesso; e ritiene pure che non sia metodologicamente corretto avvicinare l’antichità allo scopo di trovarvi prove a sostegno di questa o quella posizione. Ritiene altresì che sia comunque necessario “conoscere” le radici: solo così ha senso, a livello sia individuale che sociale, accettare o rifiutare la tradizione: consapevolmente. Forse, più necessario nel secondo caso: mentre è possibile accogliere e assorbire qualcosa che è implicito nella nostra educazione, che respiriamo insieme al poco ossigeno dell’aria, ed accettarlo per buono senza porci il problema, nel momento in cui si voglia combatterlo bisogna invece conoscerlo bene, anzi, neppure verrebbe in mente la possibilità di voler combattere contro qualcosa prima di sapere esattamente che questa cosa c’è, e che cos’è. Non facile: la trasmissione avviene sottilmente, di nascosto. Per esempio: la sistematica animale e vegetale distingue tutti gli esseri viventi in tipi, divisi in classi, divise in sottoclassi, ecc.: da ciò siamo indotti a pensare che esista una sorta di classificatore naturale, astratto, in cui inserire i vari esemplari di cui via via veniamo a conoscenza. E’ stato Platone a sostenere che, in un mondo al di sopra dei cieli, esiste sotto forma di “idee” la realtà assoluta: non i cavalli ma la cavallinità, non animali che graffiano ma il graffio ecc., ciò che in età moderna è diventato il “genere” equino, quello felino ecc. Nella realtà, si viene a conoscenza degli innumerevoli, concreti esseri viventi i quali, secondo le loro caratteristiche, sono denominati e raggruppati sotto una definizione indicativa di tali caratteristiche, creata a tavolino ed esistente solo come prodotto del pensiero. Ma quale botanico che, dopo aver esaminato attentamente corolla, stelo, foglie, radici della pianticella mai vista, esclama trionfante: “Questa è una monocotiledone gimnosperma!” è del tutto consapevole di compiere un’azione platonica? Certo che, in questo caso, il sopravvivere del platonismo ha ben poche conseguenze nella nostra vita; ma non è sempre così.
Detto ciò, voglio ripetermi: non è però questo il modo corretto di avvicinare i classici. Essi sono gelosi di sé stessi, non gradiscono di essere utilizzati in funzione di qualcosa che non li riguarda, si negano a chi li cerca solo per trovarvi presupposti in base ai quali leggere il mondo attuale – cosa che può essere, se mai, un “corollario” da aggiungere successivamente. Vogliono invece essere visti in relazione al mondo in cui hanno agito, di cui costituiscono espressione artistica e, spesso, superamento; da cui traggono la propria linfa vitale e al quale forniscono, a loro volta, incentivo per andare più in là.
Tale la pretesa di questa pagina: offrire un assaggio di ciò che è sopravvissuto al naufragio di quel mondo con tutta la ricchezza del suo pensiero, della lingua, della produzione letteraria, dell’arte. E, magari, far nascere il desiderio di saperne di più.
c.c.
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