“Zeus, chiunque mai egli sia, se a lui è caro essere chiamato con questo nome, con questo a lui mi rivolgo: nulla posso mettere a confronto, ogni cosa ponderando, all’infuori di Zeus, se veramente bisogna scacciare dalla mente questo peso vano. … Si otterrà il sommo della saggezza devotamente cantando epinici a Zeus, lui che aprì la via della saggezza ponendo come norma sovrana che la saggezza giunga col dolore. Geme nei sonni, davanti al cuore, peso memore di colpe, e l’essere saggio giunge anche a chi non vuole: violenta grazia dei numi che siedono al nobile timone (scil. del mondo).
E allora il condottiero anziano delle navi achee, non biasimando l’oracolo, consentì colla sorte che gli cadeva addosso, quando l’impossibilità di navigare che vuota le stive gravava il popolo acheo fermo davanti a Calcide, nell’Aulide rumoreggiante di acque rifluenti, e venendo dallo Strimone i venti dell’ozio cattivo, affamatori, nemici all’ormeggio, dispersione di uomini,
distruzione di navi e di ormeggi, rodevano il fiore degli Argivi. E quando altro rimedio più grave dell’amara tempesta l’indovino annunciò chiamando in causa Artemide, cosicché gli Atridi battendo la terra con lo scettro non trattennero lacrima, il re anziano allora così parlò: “Mala sorte il non obbedire, mala sorte anche se sacrificherò la figlia, ornamento della casa, contaminando le mani paterne con fiotti di sangue di vergine sgozzata davanti all’altare: quale cosa è senza male? Come potrei farmi disertore delle navi, tradendo l’alleanza? Mi è imposto desiderare con furiosa ira il sacrificio di sangue virginale che plachi i venti. E sia a buon fine.” E dopoché immerse il collo nel giogo della necessità spirando dalla mente empietà, delitto, profanazione, allora conobbe il pensiero che tutto osa: ardì dunque farsi sacrificatore della figlia, aiuto di guerre punitrici del rapimento di una donna, preghiera sacrificale di navi.
Preghiere e invocazioni al padre, l’età verginale non tennero in alcun conto i duci bramosi di guerra: ordinò il padre ai ministri, dopo la supplica, di prenderla su con tutto il loro animo, come una capra davanti all’altare, prona, avvolta nei pepli, e di custodire la bocca, bella prora del volto, voce di maledizione alla casa, con la violenza e la forza muta del morso: e cadutele ai piedi le vesti color del croco, colpiva ognuno dei sacrificatori con dardo pietoso dagli occhi, bella come in un quadro, e voleva parlare, poiché spesso nelle stanze paterne dalle tavole adorne aveva cantato, con voce pura di vergine intatta amorosamente aveva onorato del padre amato il peana di buon augurio alla terza libagione.
Le cose di poi non vidi e non posso dire: ma non sono senza potere le arti di Calcante. Giustizia offre ammaestramento a chi sa sofferenza, e il futuro puoi conoscerlo quando sia accaduto: prima vada per la sua strada…”.
(Eschilo, Agamennone, dalla “Parodo” vv.160 e sgg.).
Nessuna traduzione può riprodurre appieno la potenza drammatica del testo di Eschilo: potrebbe farlo un poeta, ma solo sovrapponendo le proprie caratteristiche a quelle del poeta greco e offrendoci quindi un’opera “altra” rispetto all’originale. Sia l’argomento trattato, sia i termini del linguaggio, sia ancora il ritmo spezzato e incalzante dei versi lirici creano l’atmosfera angosciante dell’incombere di una sventura. Eppure il momento è felice: il coro è entrato in scena (parodo: canto di ingresso ) dopo che la scolta, di vedetta sul tetto della reggia di Argo, ha visto il segnale di fuoco che, trasmesso dal monte Ida all’Ermeo all’Atos e da lì, varcando il mare, al monte Macisto al Messapio al Citerone all’Egiplancto all’Aracneo,
secondo un accordo preso alla partenza per la guerra contro Ilio da Agamennone con la moglie Clitemestra, ha annunciato la conquista della città e il prossimo ritorno del re e dell’esercito vincitore. Ma i vecchi di Argo, da cui il coro è composto, conoscono l’antica saggezza: azione empia genera azione più empia, antica violenza partorisce nuova violenza (vv. 758/9, 763/65); e la stirpe di Atreo è gravata dal peso dell’atroce delitto di cui questi si macchiò quando, per vendicarsi del fratello Tieste che gli aveva sedotto la moglie, ne uccise i figli e offrì le loro carni in pasto al padre. Agamennone figlio di Atreo, raccolto il peso dell’eredità paterna, lo raddoppiò poi facendosi uccisore della propria figlia: gesto la cui inumana empietà cercò di giustificare (v: versi precedenti) adducendo il proprio dovere, la propria responsabilità nei confronti dell’esercito e della flotta, ma dettato in realtà dall’ambizione, dalla brama di potere, dall’ybris: la tracotanza che spinge uomini a pensare e agire varcando i limiti di ciò che agli uomini è lecito. Nel corso della tragedia dedicata al suo nome, nella quale tuttavia Agamennone appare una figura meschina di fronte all’ambigua grandezza della moglie, è ucciso da lei in nome della figlia da lui uccisa. Altro sangue versato, necessità ineluttabile di altro sangue: nella tragedia successiva Clitemestra cade per mano del figlio Oreste spronato dal dio Apollo a farsi giustiziere sulla madre. Altro delitto orrendo: nessuna soluzione a questa catena di strage può venire da esseri umani. Oreste perseguitato dalle Erinni vendicatrici è purificato soltanto dall’intervento della dea Atena, ed essa stessa istituisce nella città a lei sacra, dove la fuga di Oreste si è conclusa con la sua liberazione, il tribunale dell’Areopago al quale conferisce, o meglio delega il potere di giudicare i delitti di sangue.
Nella trilogia eschilea (complesso di tre tragedie: Agamennone, Coefore, Eumenidi, che trattano lo svolgimento dello stesso mito, dall’origine alla sua soluzione) compare così, oltre al tema sacro – il mito è, per i Greci, l’equivalente più o meno della storia sacra – che è di rigore essendo la rappresentazione drammatica una cerimonia religiosa in onore del dio Dioniso, la celebrazione dell’antico tribunale ateniese la cui istituzione è attribuita alla dea protettrice della città. La vendetta tribale della società antica è affiancata, per esserne poi sostituita, dalla giustizia di cui sono garanti gli dei olimpici i quali spezzano i legami di morte e di sangue e insegnano a regolare i contrasti col diritto. Il mito è confluito nella storia.
Eschilo, ateniese, 525/456 a.C. L’Orestea fu composta e rappresentata nel 548, ottenendo la vittoria nella gara.
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