Quello che del tempio più celebrato della Grecia oggi resta in piedi, incollato col cemento e trattenuto da ingabbiature di ferro, spogliato – dagli uomini – del fregio, delle metope, dei frontoni scolpiti, e – dal tempo – della copertura lignea e della statua criselefantina (=in oro e avorio) della dea Atena, conserva solo un’impronta di quel Partenone che nel V secolo a.C. fu voluto da Pericle e da lui fatto erigere sull’Acropoli come ringraziamento alla dea di cui celebrava il nome (parthénos = vergine, uno degli attributi rituali della dea) e insieme simbolo della grandezza della città. Di questa grandezza propongo la testimonianza lasciataci dallo storico Tucidide, con qualche avvertimento a chi legge.
Innanzitutto, egli è uno storico, un grande storico: proprio per questo ciò che ci offre è un’interpretazione molto più che un resoconto dei fatti, e nell’interpretazione ha peso la personalità intera dello scrittore con tutta la sua ricchezza culturale e umana e, insieme, con le limitazioni che sono l’inevitabile conseguenza dell’appartenenza sociale e delle scelte politiche. Tuttavia egli, più di una volta nel corso delle premesse e della narrazione, difende l’accuratezza della propria ricerca, documentata anche da testimonianze di altro genere che ci sono pervenute. A proposito dei discorsi, da lui riportati, dei vari protagonisti della vita pubblica, lo scrittore ammette la difficoltà di ricordarli esattamente come furono detti, sia per lui stesso, quanto a quelli uditi personalmente, sia per chi altri glieli abbia riferiti: dichiara di essersi perciò attenuto al senso generale, usando gli argomenti che gli sembra che ciascuno avrebbe potuto usare in quanto i più appropriati alle circostanze (I 22, 1). Rientra nell’ambito dei primi quello da cui sono tratti i passi che seguono: è il discorso pronunciato da Pericle nella cerimonia pubblica in onore dei caduti del primo anno di guerra – la guerra del Peloponneso, 431/404 a.C.
Inoltre, essendo egli ateniese di nobile famiglia e, come tale, attivo nella via politica della città, prese parte alle vicende narrate nei suoi libri, fu capo come stratego di un’azione militare, in difesa della città alleata di Anfipoli contro l’attacco del generale spartano Brasida, che si concluse con un disastro di cui fu giudicato responsabile e perciò condannato all’esilio – altre testimonianze riferiscono invece che la condanna fu di rimanere in Atene ma privato dei diritti politici; secondo altre ancora, dopo il fallimento dell’azione militare non rientrò ad Atene ma scelse volontariamente l’esilio. In ogni caso, oltre a rilevare la totale assenza di ogni biasimo, di ogni rancore nei confronti dei concittadini che decretarono la condanna, sia essa stata ufficiale o solo morale, ricordiamo che la revisione finale dell’opera, interrotta dalla morte dello scrittore, avvenne dopo il crollo di Atene e della sua potenza, dopo l’umiliante pace impostale dai Lacedemoni vincitori. Così la descrizione, pur senza indulgere a sentimentalismi, ha tuttavia il tono, il pathos con cui si parla di un bene irrimediabilmente e doppiamente perduto, esaltandone i pregi e velandone le incertezze e i contrasti di cui altrove lo scrittore stesso dimostra di essere ben consapevole; un bene il cui ricordo è importante salvare e consegnare ai posteri erigendogli con l’opera letteraria una stele che sia ctèma es aiéi, possesso per sempre.
* La parola a Tucidide
(II 37, 1 sgg.) “Ci serviamo di un sistema di governo che non imita le leggi dei vicini, ma siamo noi modello piuttosto che imitatori di altri. E, poiché lo stato è amministrato non per i pochi ma per i più, si chiama, quanto al nome, democrazia, e in base alle leggi c’è per tutti parità in relazione agli interessi privati; quanto alla pubblica dignità, secondo come ciascuno si distingue in qualcosa e non in relazione alla classe sociale più che al merito, è scelto per le cariche; quanto poi alla povertà, se uno può fare qualcosa di buono per la città non ne è certo impedito dall’oscurità della nascita o del ceto. …Nella vita pubblica non trasgrediamo le leggi soprattutto per rispetto, perché ascoltiamo e quelli che via via sono in carica e le leggi, soprattutto quante di esse vi sono in favore di chi subisce offesa o quante, pur non essendo scritte, portano vergogna unanime (a chi trasgredisce).
(II 40, 1, 2) “Amiamo il bello con giusta misura, e amiamo il sapere senza mollezza; ci serviamo della ricchezza come opportunità di azione più che come vanto di discorsi; e non l’ammettere di essere in povertà è vergogna per chi lo è, ma più vergognoso il non sottrarsi ad essa di fatto… Nelle medesime persone vi è insieme la cura degli affari privati e di quelli riguardanti la città… unici, infatti, chi non prende parte a questi lo riteniamo non inattivo, ma inutile, e noi certamente o giudichiamo o valutiamo correttamente le questioni ritenendo che non i discorsi siano un danno per l’azione, ma piuttosto lo sia il non essere informati con le parole prima di giungere di fatto alle cose che bisogna fare…. Agli altri invece l’ignoranza porta coraggio, la riflessione porta paura.
(II 41, 4,5) “Con grandi prove, non certo senza testimonianze, mostrando la nostra potenza, siamo degni di ammirazione per gli uomini di oggi e lo saremo per quelli di poi, noi che non abbiamo alcun bisogno né di un Omero che ci vanti, né di chi diletterà sul momento con le parole quando poi la verità rovinerà la presunzione dei fatti, ma abbiamo costretto tutto il mare e tutta la terra a sottomettersi al nostro ardire, e dovunque abbiamo alzato monumenti perpetui di azioni dal cattivo esito e dal buon esito…. Per una tale città, ritenendo giusto che non fosse loro portata via, questi combattendo nobilmente morirono: e conviene che ciascuno di chi resta accetti volontariamente di soffrire per lei.”
Di Pericle, lo statista che di fatto resse la città ininterrottamente dal 461 al 429 in seguito a regolari elezioni annuali con la carica di stratego e, almeno nominalmente, affiancato da tutti gli altri magistrati voluti dalla legge, Tucidide scrive:
(II 65, 5 sgg.) “Per quanto tempo fu a capo della città in pace, la guidò con moderazione e la custodì con sicurezza, ed essa divenne in quel tempo grandissima; quando poi vi fu la guerra, è evidente che anche in questo ne previde la potenza…. Aveva detto che gli Ateniesi sarebbero riusciti superiori se fossero stati calmi e avessero avuto cura della flotta e non avessero cercato di ingrandire l’impero nel corso della guerra e non avessero messo a rischio la città….. Ma essi fecero cose tutte al contrario; e altre che sembravano completamente al di fuori della guerra, per ambizioni private e privati interessi, ne decisero governando male per se stessi e per gli altri: cose che, se giunte a buon fine, erano onore e vantaggio piuttosto per i privati, se invece fallivano, erano un danno alla città per l’esito della guerra”.
Giudizio di un grande interprete della storia, si voglia/possa, o meno, consentire con esso.
cc
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