“Noi, quali le foglie che la stagione di primavera dai molti fiori genera non appena crescono ai raggi del sole, ad esse simili godiamo per il tempo di un cubito dei fiori di giovinezza, dagli dei non sapendo né il bene né il male; ma già ci stanno vicino le nere Parche, reggendo l’una il termine dell’odiosa vecchiaia, l’altra quello della morte: il frutto della giovinezza dura un attimo, quanto sulla terra si diffonde il sole. Ma quando il termine di questa stagione sarà passato oltre, allora l’esser morto è meglio della vita, molti infatti sono i mali del cuore: ora la casa è in rovina e ne vengono le dolorose molestie della povertà; uno desidera figli, per la mancanza dei quali più che per ogni altra cosa soffrendo scende sottoterra nell’Ade; un altro ha una malattia che distrugge l’animo; e non c’è nessuno degli uomini al quale Zeus non dia mali in gran copia.” (Mimnermo 2 D.)
“Quale vita, quale gioia senza l’aurea Afrodite? Che io muoia quando non mi stiano più a cuore queste cose: l’amore furtivo e i dolci doni e il letto, fiori di giovinezza che sono desiderabili ad uomini e donne; ma una volta che sia giunta la dolorosa vecchiaia, che rende un uomo brutto quanto spregevole, sempre odiosi affanni a lui logorano la mente, né si rallegra vedendo i raggi del sole, ma inviso ai ragazzi, spregevole alle donne: così il dio volle penosa la vecchiaia.” (Mimn. 1 D.)
Questi versi valsero al poeta Mimnermo, vissuto a Colofone o a Smirne tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., l’appellativo di “ il Leopardi dell’antichità”. E tuttavia nemmeno il lettore più frettoloso si lascia ingannare dall’apparente comunanza del tema: la fugacità della giovinezza e dei suoi doni, l’incombere della vecchiaia coi suoi affanni. Così il Leopardi caratterizza l’estrema stagione della vita: “… quando muti quest’occhi all’altrui core / e lor fia voto il mondo, e il dì futuro / del dì presente più noioso e tetro…” (Il passero solitario, vv. 53-55).
E altrove: “…Estremo / di tutti i mali, ritrovar gli eterni / la vecchiezza, ove fosse / incolume il desio, la speme estinta, / secche le fonti del piacer, le pene / maggiori sempre, e non più dato il bene.” (Il tramonto della luna, vv. 45/50).
Il poeta greco ignora la dimensione interiore del tempo, dove lo scorrere degli anni toglie agli occhi non tanto la funzione visiva quanto la capacità di parlare al cuore altrui, la percezione della pienezza del mondo, la possibilità di figurarsi un “dì futuro” sgombro da tetraggine e noia esistenziale; né lo turba il dissidio tra il vigore intatto del desiderio e il crollo definitivo della speranza. Non è certo, questo, difetto di Mimnermo: la scoperta dell’interiorità avviene nel mondo greco soltanto secoli dopo, né la società aristocratica arcaica, che è l’ambito in cui la poesia si sviluppa e al quale si rivolge, chiede al poeta di svelare il proprio animo. La poesia lirica nasce nell’ambito del simposio, istituzione che ha un ruolo di primo piano in tale società. I giovani uomini delle famiglie aristocratiche si riuniscono per banchettare, bere (1), intrecciare relazioni amorose,
giocare e discutere degli argomenti che stanno a cuore a tutti, a volte anche per organizzare azioni comuni riguardanti la vita pubblica e l’attività politica. Il poeta è colui che sa dare voce alla visione della vita propria del suo mondo socio-culturale: è il cantore dei temi comuni all’eteria cui appartiene, temi che spaziano dalla politica alla guerra alla caccia ai riti conviviali all’amore – anche quest’ultimo, al pari degli altri interessi, inteso non come un sentimento che coinvolge l’intimità individuale, ma come una delle vie attraverso le quali la stagione di giovinezza offre la gioia della vita.
(1) Non dimentichiamo il significato rituale del bere assieme, dalla stessa coppa, un po’ come oggi dalla valdostana “coppa dell’amicizia”. Allora il rito aveva però un valore ben più pregnante presentando una forte connotazione religiosa in quanto il vino è il dono che Dioniso diede agli uomini: bere assieme era celebrare il dio, cosicché i legami dell’eteria consacrati nella comunione del simposio erano più vincolanti di quelli della parentela e la vergogna più grave era tradire gli etairoi, i compagni.
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