“Potente dea e non senza fama tra i mortali e in cielo, ho nome Cipride (Cipride è uno degli appellativi di Afrodite). E quanti abitano tra il Ponto e le colonne d’Atlante vedendo la luce del sole, quelli che rispettano il mio potere li proteggo, rovino quelli che insuperbiscono davanti a me. Anche nella stirpe degli dei c’è questo: godono di essere onorati dagli uomini. (…) E per le colpe che ha commesso contro di me punirò Ippolito questo stesso giorno. (…) E Fedra, lei di bella fama, ugualmente è perduta: non terrò il male di costei in maggior conto che il non pagarmi i miei nemici il fio, tanto quanto mi sta bene.” (Euripide, Ippolito, vv:1 – 50).
Così nella tragedia di Euripide Afrodite presenta se stessa e definisce il suo atteggiamento nei confronti dei mortali: proteggere chi la onora, punire chi non riconosce la sua potenza. “Potente” è la prima parola da lei pronunciata e la prima della tragedia, a evidenziare da subito come la vita degli uomini sia una fragile, insignificante pedina giocata da forze di cui manca loro non solo il controllo, ma anche la consapevolezza. Non importa al tragediografo soffermarsi su questo rapporto di potere, stabilito dagli dei, per contestarli o biasimarne l’indifferenza verso la vita e le sofferenze degli esseri umani: il suo interesse è del tutto rivolto alla risposta data da questi ultimi ai casi inopinati, assurdi, crudeli di fronte a cui si trovano per il capriccio ineluttabile degli immortali.
Nel mondo complesso e fremente delle sue creature poetiche sono spesso le donne ad avere ruoli di primo piano. La vita degli uomini è infatti, in larga misura, pubblica: sono impegnati nella vita politica e nelle attività civili e religiose in cui si immergono per la maggior parte della giornata, adeguandosi ai modelli di comportamento proposti dalle leggi e, più ancora, dalla tradizione e dal rituale; sono in genere associati alle eterie, sorta di club i cui aderenti si legano tra loro con solenni giuramenti più vincolanti, spesso, dei legami di parentela: resta poco spazio per lo sviluppo e la manifestazione dell’individualità personale, che invece prevale nelle donne in quanto escluse da tutto quanto sopra: perciò esse meglio si prestano ad esprimere sulla scena l’immediatezza dei sentimenti, la potenza delle passioni, il lottare e l’arrendersi della volontà – tutte le sfumature di una psiche complessa cui è rivolto prevalentemente l’interesse di Euripide il quale utilizza dal mito, tema d’obbligo per la tragedia che è una celebrazione religiosa, le situazioni che gli danno la possibilità di indagare tale psiche e di tradurre l’indagine in rappresentazione scenica. Così Fedra si innamora di Ippolito,
figlio di prime nozze del marito Teseo, per volere di Afrodite che intende in questo modo punire il giovane per il superbo rifiuto alla dea del culto che le è dovuto: egli infatti venera la sola Artemide, cui vanno le sue lodi e le sue preghiere. Sconvolta dalla passione che non vuole accettare né ammettere, nel delirio Fedra vagheggia i luoghi che sono cari all’amato:
(vv. 208/211): “Ahi, come vorrei da rugiadosa sorgente attingere bevanda d’acqua pura e, sotto i pioppi sdraiata, riposare in un prato erboso!”
(vv. 215/222): “Mandatemi al monte. Vado alla foresta e tra i pini, dove cani uccisori di fiere premono il terreno inseguendo cervi screziati. Per gli dei, amo eccitare i cani e dalla bionda chioma scagliare il giavellotto tessalo, avendo in mano la lancia appuntita.”
(vv. 228/230): “Artemide signora della palude marina e degli spazi risonanti di cavalli, o se fossi nei tuoi campi a domare puledri Eneti!”
E’ uno dei rari momenti in cui compare nella poesia greca uno sprazzo di attenzione alla natura: evidentemente questa nasce da motivazioni interiori che con l’interesse naturalistico non hanno niente a che vedere. Il delirio di Fedra sfocia poi nell’ammissione dell’amore inconfessabile che lo ha provocato, alla nutrice che vuole sapere; essa poi, a sua volta, la rivela ad Ippolito che se ne sdegna:
(vv. 614 sg.): “ O Zeus, perché hai portato alla luce del sole le donne, ambiguo male per l’umanità? Che se volevi dare vita alla stirpe mortale, bisognava che non lo facessi tramite le donne, ma che i mortali deponendo nei tuoi templi bronzo o ferro o gran peso d’oro comprassero seme di bambini (…) e vivessero in case libere da femmine. E’ chiaro che la donna è un grande male (…) Ora le malvage costruiscono trame malvage e le serve le portano fuori a compimento: così anche tu, disgraziata, a noi vieni per il commercio del letto intoccabile di mio padre, e io con acque correnti mi purificherò, versandole nelle orecchie…”
Fedra “di bella fama”, sopraffatta dalla vergogna, si uccide; e Teseo, credendo il figlio colpevole di insidie e di stupro, lo maledice invocando il padre Poseidone che è in debito verso di lui. Il dio scatena un’onda che si alza fino al cielo, da cui un toro selvaggio emergendo fa impazzire le cavalle aggiogate al cocchio di Ippolito che da questo è abbattuto e travolto.
E solo ora che il dramma umano si è compiuto nella catastrofe finale compare sulla scena Artemide, la vergine cacciatrice alla quale sola andava il reverenziale onore di Ippolito. La dea, svelando l’intrigo di Afrodite, dichiara la totale innocenza del suo fedele e ne riscatta il ricordo, precipitando così Teseo nella disperazione del rimorso:
“O me infelice!”, geme il re padre dopo che la verità su quanto è avvenuto, di cui egli stesso è stato autore e vittima, gli si apre alla mente. “Quanto a lungo mi ricorderò dei tuoi mali, Afrodite!”.
Nel nome della dea si chiude così il dramma, come con esso era iniziato.
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