Mar, 20 Ago 2013
Offriamo al gentile pubblico di questo blog uno scritto inedito, ad opera di aa, autore che già conosciamo grazie ad altre opere qui pubblicate in precedenza. L’ho, un poco pomposamente, definito “letteratura zen” perché penso questo potrebbe essere uno dei filoni nei quali si svilupperà tale letteratura. È, fondamentalmente, una forma di riappropriazione. Come molti sanno (cfr. La Via Libera, p. 59 n. 11 e Il Buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L’India e cenni sul Tibet, p. 209 s. n. 5 e 6) lo stile di scrittura ora noto come
stream of consciousness reso famoso da Svevo, Joyce e Virginia Woolf, giunse nella letteratura occidentale via Freud e Jung grazie agli studi indologici di William James che “scoprì”, soprattutto -ma non solo- negli scritti Yogacara, idee quali “sé”, “flusso di coscienza”, “inconscio collettivo” et alia. Inutile dire che giungendo tra le mani di persone che trattarono tali idee come fossero nomi di enti o, addirittura, parti della mente, il senso profondo e l’uso fenomenologico di tali elementi furono completamente stravolti. A parte l’uso, del tutto legittimo, che ne fecero i tre autori citati.
Quando e se l’Occidente avrà praticanti buddisti in grado di maneggiare tali strumenti nella loro corretta dimensione e di scriverne ecco… forse nascerà uno dei filoni della letteratura zen.
Nel frattempo ecco a voi, in pdf, Lo specchio.
24 Commenti a “Letteratura zen”
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22 Agosto 2013 alle 4:09 pm
Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale 🙂
Il linguaggio intenzionale mi ha sempre molto colpito, tra le altre cose, perchè è una sorta di “metascrittura” nella quale il significato profondo è veicolato dalla struttura narrativa e va sovrapporsi al contenuto esplicito del testo. E’ una sorta di “terza dimensione” che da profondità al testo, non priva di un valore artistico IMHO. Assomiglia quasi più alla pittura che alla letteratura.
Ora l’idea è: perchè limitarsi a commentare per attualizzare i testi e non provare invece ad imitare, usando gli strumenti di oggi (videoscrittura, digitale, ecc)? Le possibilità sono infinitamente superiori rispetto alle foglie di palma, e dopotutto gli antichi erano uomini come noi….più intelligenti probabilmente, ma sempre sapiens.
Anzi paramitasapiens 🙂
22 Agosto 2013 alle 4:30 pm
Be’, sì, in effetti, uomini come noi, i paramitasapiens.
Solo che sapevano star compressi 😕
22 Agosto 2013 alle 4:52 pm
Perchè mi sò allargato troppo? In effetti negli ultimi tempi a furia di birre 🙁
Riguardo a quanto scrive Mym nell’intro secondo me il problema principale del “fraintendimento” di cui parla sono le ripercussione pratiche, perchè si trasformano delle indicazioni per risolvere un problema in una parte del problema stesso, che così diventa ancora più difficile da schiodare…..
22 Agosto 2013 alle 4:56 pm
Troppo è poco.
23 Agosto 2013 alle 5:22 pm
Beh, sì, insomma… si apprezza l’entusiasmo, la verve, financo l’intenzione, venata un po’ di volontarismo. Mi suscita, lo scritto inedito, due considerazioni critiche (che sarebbe lo scrittore senza il lettore critico…?)
Nel primo raccontino, la specularità dei pensieri attribuiti ai due soggetti dello sketch, risulta artificiosa. Non abbiamo qui due personaggi ma uno solo, bifronte. Due persone poste nel medesimo luogo, in analoga situazione, che vivono ciascuna per la sua parte la medesima vicenda, producono pensieri incommensurabilmente differenti, imprevedibili che non sono mai gli uni il back side degli altri. Anche questa è la ricchezza estenuante dell’interdipendenza.
Per mettere in forma scritta leggibile lo stream of consciousness non basta togliere la punteggiatura ai propri ordinari pensieri, è una forma di letteratura che implica profonda e instancabile fantasia e annullamento delle proprie elucubrazioni.
Quanto al secondo, i pensieri in zazen, a mia esperienza, se sbrigliati suffiscono a se stessi, seguono logica e piste loro. Qui appaiono invece la prosecuzione con altra postura dei pensieri quotidiani ordinari. Quando invece non gli si dà spazio, tacciono. Per questo non c’è niente da dire sul pensiero, sui pensieri in zazen. E’ saggio astenersi. Ma proprio volendo, non è bene, trattando dei pensieri in zazen, darsi del tu (“tieni dritta la schiena” et similia): già è problematico darsi dell’io senza mettersi a ridere (o a piangere), figurarsi del tu. In zazen la schiena si raddrizza quando si sente curva, c’est tout.
C’è una vena di narcisismo su cui l’autore dovrebbe lavorare per limarlo: l’immagine che lo specchio riflette è quella che i miei occhi vedono e riconoscono, dunque una mia proiezione. Quale volto poi imprima la sua traccia sulla superficie seducente dello specchio, resta oltre la capacità visiva dei miei occhi. Buon lavoro.
23 Agosto 2013 alle 5:50 pm
Ciao jf, bentornato.
Quando ero giovane mi capitava, a volte, che al mattino dopo dovessi alzarmi … tardi, così, ad una certa ora, lasciavo la compagnia per portare a letto quello che, il mattino dopo, non ci sarebbe stato ma avrebbe ereditato tutta la mancanza di sonno dello scapestrato della sera prima. Una versione arzigogolata de “alla sera leoni leoni, la mattina…” di mia nonna.
Nella dicotomia la cosa diventa dicibile.
Certo però che senza narcisismo sarebbe disperante trovare qualche cosa da leggere la sera…
Gli scrittori della stream of consciousness, per nostra fortuna, eran capaci di lavorare sino ad un mese (cfr. V.W. nella redazione de Le Onde) su una sola pagina. Vero è che, non di rado, ci andavan via di testa.
Aaah che non si farebbe per un po’ di perfezione…
23 Agosto 2013 alle 7:23 pm
Non sarò certo io a stigmatizzare il narcisismo: ma anch’esso necessita di attenzione e lavoro, perché non soverchi, va curato come una compagnia simpatica e pericolosa, da maneggiare con precauzione.
Certo che la dicotomia permette di dire la continuità della diversità, è un artificio espressivo molto utile senza il quale la piattezza regnerebbe ovunque. Però forse non è il caso di provare a render tutto dicibile.
23 Agosto 2013 alle 8:08 pm
Sì, capisco. Soprattutto quando il voler dire tutto è al servizio di un narcisismo… un filino grezzo?
Tuttavia, che dire allora dell’invito dell’Antico per cui “percorrere la via è [anche] dire la via”?
Certo, a volte, lasciare che ciascuno si ingegni ed abbia la gioia di vedere, da solo, il non detto…
Chi fa da sé sbaglia per tre 😛
(From now on: off line for a while)
26 Agosto 2013 alle 12:15 pm
Ciao jf, grazie per la lettura critica. Certamente nel raccontino non ci sono due soggetti distinti, ma uno soltanto, la cosa è voluta. Quello che volevo esprimere era il mutamento di prospettiva nel relazionarsi all’altro, o più in generale al mondo esterno, nella prima parte come totalmente altro da se, nel secondo come parte di se stessi. Il testo non è narcistico IMHO, è assolutamente solipsistico. Nella parte II io non ho voluto tanto “raffigurare” lo zz (cosa che ritengo impossibile), quanto questo mutamento di prospettiva con ciò che ne deriva. Il fatto che si parli di un soggetto in meditazione è quasi un artificio narrativo. Considera comunque che le parti “vuote” del testo II hanno una loro funzione, c’è “spazio” per il non detto. A mio parere- ovviamente alquanto di parte ;)- il limite maggiore dell’esperimento è che il modo di rappresentare il “meccanismo” (l’idea era di raffigurare un “come”) è troppo esplicito, è smaccato.
26 Agosto 2013 alle 12:20 pm
…però forse non è il caso di provare a render tutto dicibile.
Son d’accordo, l’idea era proprio di lasciar leggere tra le righe….se vuoi però possiamo aggiungere una parte III…basta cliccare sull’icona “nuovo” della barra degli strumenti 🙂
27 Agosto 2013 alle 11:12 am
Certo (mym 8) l’Antico stabilisce una relazione necessaria fra la via e la parola che la dice. Al punto da asserire “se qualcuno se la tira da buddha, verifica che abbia raggiunto il dire” (trad. libera). Il che comprende, mi pare, non dire ciò di cui non si sa bene che dire. Insomma, farina non del proprio sacco, ma passata al proprio vaglio. La parola che dice ha un sentore di novità, pur dicendo ciò che già è detto innumerevolmente. Non è questione di tentativi di “provare a dire” l’indicibile, di forzare la soglia, di giocare con le parole e con le spaziature, ma di avere da dire. Avendo da dire, il modo di dirlo vien fuori col tempo in forma originale, per necessità (e non è detto che sia parola scritta). Questo mi pare risponda almeno in parte alle precisazioni di aa (9-10).
27 Agosto 2013 alle 12:09 pm
@ 10 Se non avessi avvertito la necessità di esprimere qualcosa di “originale” non avrei scritto nulla. Il punto è che l’originalità in questione, sempre ammesso che essa ci sia e che sia avvertibile, non è nel contenuto del testo, ma nella forma. Il contenuto è davvero puramente casuale, ho utilizzato “materiale” narrativo che viene dalla mia quotidianità ma che di per se è irrilevante. Con il commento 1 ho cercato di rendere esplicito che era questo il livello di lettura che ritenevo interessante.
Non c’è alcuna pretesa di verosimiglianza. Il flusso di coscienza è “sdoppiato” simmetricamente nella parte prima per sganciare il susseguirsi dei pensieri da qualsiasi riferimento o cornice “esterna” di fattualità, per rendere insomma impossibile la verifica di come “sono andate davvero le cose” tramite un punto di vista esterno. E’una doppia proiezione, simmetrica, in cui l’altro non c’è, e quindi non c’è nemmeno l’io che vede l’altro. Qual’è più reale, l’immagine riflessa nello specchio o quella che nello specchio si riflette? E’ un gioco (di specchi) che tenta di cogliere il modo in cui si genera il disagio e di rendere evidente che l’attribuzione di quest’ultimo a fattori esterni è tendenzialmente inutile.
Nella parte seconda invece ho cercato di rappresentare in qualche modo una coscienza unificata e non discrimentante, cosa estremamente difficile, dal momento che essa credo sfugga a qualunque verbalizzazione. Per questo ho fatto ricorso allo stratagemma, forse un pò stucchevole, di rendere la narrazione in qualche modo ricorsiva, rendendo impossibile stabilire un “prima” ed un “dopo”. Anche in questo caso è un gioco mentale, non c’è la pretesa di “rappresentare” realisticamente la meditazione zz. Insomma è sì parola scritta, ma il tentativo è di usarla per disegnare, non per raccontare. Poi l’esito può non piacere, o essere considerato inadeguato, ma questa è un altra questione. Qui l’importante era la forma, e solo la forma è il vero contenuto che si intendeva comunicare, quello che viene detto è piuttosto il mezzo per ottenere quella data forma. Ma direi che non ha funzionato 🙁
27 Agosto 2013 alle 12:24 pm
Sì, non ha funzionato.
L’orecchio, intendo. Dialogare significa ascoltare quello che dice l’altro. Ribadire è monologare.
Lo diceva anche Jannacci…
27 Agosto 2013 alle 12:55 pm
“se qualcuno se la tira da buddha, verifica che abbia raggiunto il dire” (jf @ 11), certamente una ripassatina ai chiacchieroni può essere una buona idea, quantomeno per ridurre un po’ il vocìo, se non per segnalare che prima di spararle grosse bisognerebbe pensarci 100 volte e poi desistere.
Tuttavia penso che quando si dice che percorrere la via è (anche) dire la via, si intenda una cosa più vicina, personale.
Non di solo zz vive l’uomo…
27 Agosto 2013 alle 3:06 pm
‘verifica che abbia raggiunto il dire, se….. qualcuno se la tira da Budda!
Caro aa, non pensavo fossi già da ‘quelle parti’!!
Un saluto
27 Agosto 2013 alle 3:54 pm
@ 13: dipende, talvolta può essere utile ribadire per chiarire il proprio pensiero, o in questo caso le proprie intenzioni. Può essere che risulti pleonastico perchè si era già stati compresi, ma quaesto è difficile dirlo. Per esempio quanto al “tirarsela da buddha ecc.” direi che occorre una precisazione. L’intenzione era di imitare una tecnica letteraria, il che richiede solo una certa creatività. Non ha niente a che vedere con essere questo o quello. Io in 1 ho parlato di provare ad emulare un mezzo narrativo, ed è appunto un tentativo, un esperimento.
27 Agosto 2013 alle 5:42 pm
A volte repetita iuvant, a volte no. L’insistenza a voler separare la forma dal contenuto (aa @ 12) mi pare la classica toppa che mette in risalto il buco.
In cinese (e di conseguenza in giapponese) “via” e “dire, parola” si possono esprimere con lo stesso “ideogramma”. Dire la via diviene una tautologia che non è una figura retorica, è il segno della massima intimità: qualcosa di molto vicino e personale (mym @ 14)
27 Agosto 2013 alle 6:21 pm
Eeeeh me lo diceva la mia mamma: studia gli ideogrammi! Possono sempre venir bene nella vita… 😕
27 Agosto 2013 alle 6:24 pm
Potrebbe essere che in questo caso aiuti. Un aspetto che intendevo sottolineare era che soffermarsi sui contenuti del pensiero cercando di decifrarne il senso “profondo” spesso genera ansia, paura, rabbia. Questo l’ho imparato nel modo più diretto, doloroso ed intimo. Almeno per quanto mi riguarda, è più utile lasciare che il flusso del pensiero si dilati e si stemperi, rimanendo sulla superficie. Il passaggio da I a II vorrebbe riflettere questo cambiamento di attitudine, ossia sì “forma” ma intesa anche come forma del vivere, modo di procedere, quindi rilevante, vitale.
27 Agosto 2013 alle 6:25 pm
Com’è l’ideogramma per “cavarsi d’impiccio”? 😉
27 Agosto 2013 alle 6:27 pm
Un bel tacer non fu mai scritto. Neppure in ideogrammi.
27 Agosto 2013 alle 7:27 pm
Questo lo diceva sempre la mia nonna. Mica per niente dirigeva una cartiera.
27 Agosto 2013 alle 7:58 pm
E tu, già da allora… orecchie turate. 😛
28 Agosto 2013 alle 8:59 am
Già, eh si che in teoria dovrei essere allenato con la mogliera al QUALSIASI COSA DIRAI POTRà ESSERE USATO CONTRO DI TE!
Comunque ragazzi, criticare è facile, a non fare niente son capaci tut…nnooo nooo scherzavo scherzavo…