Lun, 1 Ott 2007
In seguito alle manifestazioni promosse in questi giorni dai monaci buddisti in Birmania, finalizzate al sostegno della popolazione nel richiedere condizioni di vita più libere,
se non forse tese ad un allontanamento della giunta militare golpista, sui media -in particolare sui blog italiani (qui per esempio)- si è presentato un interrogativo più o meno esplicito: qual’è la posizione del buddismo riguardo alla lotta politica? Vi è una indicazione condivisa che possa fungere da guida per i buddisti e possa spiegare a chi buddista non è come viene affrontato il problema all’interno del buddismo? Oltre a quanto già detto nei giorni scorsi, presentiamo due articoli a questo proposito: del primo -pubblicato qui di seguito- è autore Enzo Bianchi ed è comparso su La Stampa di Torino col titolo La forza dei monaci. Il secondo, opera del curatore di questa pagina, è intitolato Incubi del terzo millennio: la politica buddista
mym
La forza dei monaci
di Enzo Bianchi, priore di Bose
(da La Stampa, 28 settembre 2007)
File interminabili di monaci che camminano silenziosi e risoluti in mezzo a due ali di folla con le loro teste rasate e gli abiti cremisi e arancioni; monaci accovacciati inermi di fronte a militari in assetto antisommossa; bocche abituate al silenzio coperte da mascherine antilacrimogeni; monaci anziani e giovani feriti, uccisi, imprigionati, bastonati… Il mondo sembra scoprire tragicamente solo in queste ore un intero paese e, al cuore di esso, i suoi monaci. E, stupito, si chiede quale forza interiore li muova
e faccia di loro una leva cui si affida per il proprio riscatto un popolo vessato da un regime dittatoriale. Persone che noi frettolosamente giudichiamo “fuori dal mondo”, distaccate dalle ambizioni e dalle preoccupazioni che abitano i loro contemporanei, si rivelano le più capaci di cogliere le radici di un disagio e di una insostenibilità della vita, quelle maggiormente in grado di dare voce – paradossalmente attraverso il silenzio – al grido soffocato dell’oppresso,di farsi carico della sofferenza e della dignità di un’intera nazione. Di loro ci accorgiamo solo in situazioni estreme, come ai tempi dei bonzi che si davano fuoco in Vietnam, della precedente rivolta in Birmania o della resistenza e dell’esilio dei lama tibetani, icona di un popolo martoriato; oppure li confiniamo in un fascinoso mondo poetico, come i protagonisti de l’Arpa birmana o del più recente Primavera, estate, autunno, inverno … e ancora primavera. Eppure essi sanno cogliere con estrema concretezza ciò che ai più sfugge: la radice ultima delle cose. Questo dipende indubbiamente da alcune caratteristiche proprie del buddhismo e dei suoi monaci: una via “monastica” nella sua essenza e struttura, al cui interno ogni giovane è invitato a trascorrere un tempo come monaco nel proprio percorso di formazione umana; una società dove la gente normale incontra ogni giorno sul proprio cammino i monaci che, in silenzio, nella fiducia e nell’abbandono alla generosità dell’altro, chiedono per strada una ciotola di riso, nutrimento per loro sì, ma soprattutto occasione per il donatore di perseguire la rettitudine della propria vita. Non a caso abbiamo visto in questi giorni immagini di monaci che tenevano ostentatamente rovesciata la propria ciotola, in segno di estrema protesta, come a dire: noi siamo disposti a privarci del cibo, ma priviamo nel contempo questa società ingiusta della via maestra per compiere un’azione meritoria.
Ma in questa epifania della capacità dei monaci birmani di catalizzare il sentire della gente comune ritroviamo soprattutto alcuni tratti comuni al monachesimo come fenomeno antropologico, prima ancora che come elemento interno a una determinata via religiosa. La vita monastica,
infatti, è un fenomeno umano, quindi universale, che presenta gli stessi caratteri a tutte le latitudini, presente nella storia non solo delle varie religioni, ma anche di alcune correnti e scuole filosofiche. E’ una forma di vita che da sempre riguarda sia uomini che donne e che si caratterizza per il celibato e per una certa separazione dall’ambiente sociale e sovente anche religioso di appartenenza: elementi che da soli ne spiegano la natura di presenza sempre minoritaria. Quale elemento marginale, il monaco emerge da un’area esogena ma, facendo parte del sistema endogeno della religione e della società, rappresenta un agente esterno che lavora ed è efficace all’interno.
Il monachesimo non resta mai completamente esogeno, “altro” – pena il divenire settario ed ereticale – ma non è neanche mai interamente endogeno, come se fosse una forza che nasce e si sviluppa all’interno del sistema istituzionale. Questa duplice appartenenza del monaco fa sì che, come minoranza efficace, inoculi all’interno del sistema religioso e sociale una diastasi che è sempre e congiuntamente di edificazione e di contestazione. In qualche misura il monaco mantiene il contatto con la cultura dominante, ma esprime anche una protesta, e ricerca un urto con questa, ponendosi in contrasto con la “via media”.
“Compito peculiare del monaco – scriveva Merton, un monaco d’occidente così familiare al monachesimo buddhista – è tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda”. Sì, il monachesimo è controcultura, cioè cultura altra, minoritaria ma, proprio per questo, capace di svolgere un ruolo determinante ed efficace nel lungo termine. Allora, non chiediamoci per chi e perché manifestano i monaci birmani: essi manifestano anche per noi, avvolti nella miope opulenza del nostro occidente malato di mancanza di senso.
Enzo Bianchi
3 Commenti a “Il buddismo e la politica”
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2 Ottobre 2007 alle 5:07 pm
Un caro amico mi scrive:
Mingalabar,
notizie non ne ho ne’ posso averne, riguardo alla domanda che pone il tuo
articolo e quello che scrive Bianchi, se da un lato il Dalai Lama decise di
abbandonare la lotta armata, forse a Ceylon oltre ai laici anche i monaci
non hanno mai smesso di sparare.
Che Ne Win, il primo dittatore Birmano, fosse appoggiato dalle alte sfere
Buddhiste è noto ma interessante che anche ora, mi risulta, la giunta sia
benedetta dagli alti rappresentanti del clero.
Purtroppo per loro (i Birmani), oltre alla posizione strategica
“problematica”, una eventuale democrazia giovane salterebbe in aria dopo
poco sotto alla spinta delle richieste di autonomia delle tribù (tra 60 e 70
etnie) almeno delle più numerose come i Karen
che da sempre combattono e
vengono regolarmente massacrati dall’esercito Birmano, e Cinesi, Indiani
Indu’ e Mussulmani e i Birmani che vivono tutti compressi dalla dittatura,
se poi qualcuno volesse buttarci un cerino…
In sostanza, comunque sia, la vedo brutta, l’unica cosa che mi è parsa
strana è che i militari sparino sui monaci che da queste parti sono
veramente rispettati da tutti. Ciao
dm
3 Ottobre 2007 alle 5:11 pm
Possibile che a nessuno sia venuto in mente che non fanno quel che fanno perché sono monaci e buddisti, ma perché sono esseri umani con un po’ di coscienza della condizione in cui si trovano? Dove sta la meraviglia? Che siano monaci e buddisti fa parte della contingenza, come il fatto che sono birmani. Se lo facessero come monaci e come buddisti dovrebbero essere sempre in piazza per qualunque minima questione in qualunque parte del mondo (dell’universo?): oppure non muoversi per nessuna ragione. E soprattutto lasciamo stare l’orgoglio di parrocchia: questo sì che è disdicevole, standosene sul divano a pontificare sull’altrui pelle. Sarebbe anche il caso di non scordare che è la gente comune quella con cui solidarizzare: il clero se la sfanga sempre, sia con le dittature che con le democrazie. Quindi tutta la stima e la solidarietà pudica ai birmani che non ci stanno, laici o monaci che siano.
Un saluto, Jiso
3 Ottobre 2007 alle 5:12 pm
Non concordo con quanto dice Jiso perché -da quel che appare con evidenza- i monaci son scesi in piazza in quanto tali o soprattutto in quanto tali (oltre che come birmani, esseri umani ecc.). Gli idraulici non hanno fatto il loro corteo, magari in salopetta, e così via tutti gli altri. Non penso vi sia nulla di male né in questo, né in quello, anzi; ma il fatto che siano scesi in piazza (anche?) come monaci buddisti ha una forte valenza in Birmania dove sanno di contare, e molto, proprio come monaci, ben più dei semplici esseri umani/birmani. É, mutatis mutandis, la stessa valenza che hanno i parroci quando consigliano i loro fedeli, in Italia. E, a giudicare a posteriori, la loro uscita ha una forte valenza anche nel resto del mondo. Anche se forse un tale impatto mediatico non se lo aspettavano e, per la maggior parte, forse, neppure lo sanno.
mym