Sab, 3 Nov 2012
Accadono cose. Soprattutto quando gli uomini (che sta anche per le donne, naturalmente) affrontano un’impresa senza chiedersi se la sua realizzazione sia possibile o no. Lo fanno, arrivano in fondo e allora abbiamo davvero qualche cosa di nuovo. Un amico della Stella, aa, ha tradotto dal sanscrito il Sutra del cuore ovvero il Prajñāpāramitāhṛdayasūtram. Ve lo offriamo senza commenti. Grazie ad aa per il coraggio e la fatica.
Mentre era immerso nella profondità della Saggezza andata oltre, il nobile Signore, Avalokiteśvara, contemplò tutta la vastità del cosmo e vide che ogni cosa che esiste è in verità composta, ed essendo composta è in se stessa vuota. Ossia, o Śāriputra, tutto ciò che ha una struttura è per ciò stesso vuoto e solo ciò che è vuoto può avere una struttura: tra vuoto e struttura non vi è differenza alcuna. Ciò vale anche per ogni forma di attività sensoriale e mentale, per la volontà e per la coscienza. Gli stessi costituenti fondamentali della realtà sono caratterizzati dalla vacuità: essi non sorgono né decadono, non sono né puri né privi di impurità, né deficitari né completi in se stessi.
Quindi, o Śāriputra, nella vacuità non vi è possibilità di distinzione alcuna e non vi sono né forme né percezioni sensoriali, né emozioni né volizioni e nemmeno può esservi alcuna coscienza. Non vi è occhio, né orecchio, né lingua, né corpo, né mente e quindi non vi sono forme, suoni, odori, gusti, percezioni del tatto od oggetti mentali; non vi è nessuna attività sensoriale e perciò non v’è alcun oggetto di attività mentale cosciente. Nella vacuità non c’è ignoranza e quindi non può esservi estinzione dell’ignoranza, non c’è vecchiezza né morte e quindi non può esservi estinzione di vecchiezza e morte. Non c’è causazione, né sofferenza, né liberazione, né via da percorrere, non vi è cognizione né possibilità di ottenimento o di non-ottenimento.
Eppure, o Śāriputra, è proprio poiché egli contempla la vacuità e l’impossibilità di ottenimento, ossia poiché fa ricorso alla Perfezione della saggezza andata oltre, che un Bodhisattva libera la mente dalle costrizioni del pensiero ed in tal modo recide l’origine dell’angoscia e si affranca dalla paura: ciò è l’ingresso nel nirvana. Tutti coloro che appaiono come dei Buddha nelle tre ere del tempo, si sono completamente risvegliati alla perfetta illuminazione solo facendo ricorso alla Perfezione della saggezza andata oltre.
Perciò sappiate che la Prajñāpāramitā è il più grande strumento della mente, la suprema conoscenza, il mezzo definitivo ed impareggiabile per porre fine ad ogni sofferenza, poiché la Prajñāpāramitā è di per se la fine della sofferenza. Eccone la chiave: gate gate pāragate pārasaṁgate bodhi svāhā
Questo completa il Sutra del cuore della prajñāpāramitā.
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Il testo sanscrito usato per la traduzione è stato reperito qui
È stato utilizzato come testo di raffronto la traduzione in lingua inglese di E. Conze, disponibile qui
Grazie a Carlo De Mauro per l’aiuto fornito nel reperire i testi
61 Commenti a “Un Cuore nuovo”
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3 Novembre 2012 alle 1:27 pm
Un ringraziamento “di cuore” ad “aa”. Un vero gioiello.
Piuttosto… sicuri che la “chiave” finale sia quella e non “Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn”? 😉
3 Novembre 2012 alle 1:38 pm
‘Fettivamente ci vorrebbero due parole per dire che è un mantra, una serie di suoni da ripetere e non una frase apposta per il senso interno. Anche se un senso ce l’ha, questo è secondario all’uso.
3 Novembre 2012 alle 3:33 pm
>una serie di suoni da ripetere e non una frase apposta per il senso interno
chi l’avrebbe detto che tutti i nostri politici erano buddisti!
3 Novembre 2012 alle 5:16 pm
Naaaa…!
Un mantra è la parola/il suono che “fa”.
PS: “Ma che suono che fa!” “Me lo compri papà?” ecc. sono un’altra storia. Ve la racconto un giorno che non piove tanto.
3 Novembre 2012 alle 6:03 pm
Mi aggiungo ai ringraziamenti …
3 Novembre 2012 alle 6:13 pm
[…] Il Sutra del Cuore della Prajñāpāramitā Sul sito della comunità Stella del Mattino è presente una recente traduzione in italiano dal sanscrito del Sutra del cuore ( Prajñāpāramitāhṛdayasūtram). Lo segnalo, un po’ per ringraziare concretamente e non solo a parole del lavoro e della fatica. Il Sutra del Cuore della Prajñāpāramitā […]
3 Novembre 2012 alle 6:53 pm
“Gli uomini (che sta anche per le donne, naturalmente)”. Chissà che cosa c’è di naturale nel designare anche le donne come uomini…
E ora vado a leggermi il Cuore, di uomo o donna che sia.
3 Novembre 2012 alle 6:59 pm
Aaaaah! Èvvero, non è naturale. Anche questa volta quel che si dice non è quel che è.
3 Novembre 2012 alle 8:48 pm
Grazie anche da parte mia, molto stimolante. C’è bisogno di aggiornare il linguaggio, qualche volta.
3 Novembre 2012 alle 9:18 pm
Ollallà son contento che sia piaciuto. Per la maggior parte ci ho lavorato su nelle lunghe notti di guardia tra una chiamata del pronto soccorso e l’altra. Insomma tutto pur di non lavorare. Da quando poi la direzione sanitaria ha oscurato i siti sportivi il lavoro ha preso un ritmo più sostenuto 🙂
Grazie a Mym e a Carlo per l’aiuto
4 Novembre 2012 alle 10:54 am
Nessuno a detto che sia piaciuto
4 Novembre 2012 alle 11:10 am
Mentre mi rallegro che una nuova versione del sutra del cuore veda la luce (in questo caso dei nostri display, che mi auguro numerosi e scintillanti) generando così incommensurabili meriti, per gratitudine e rispetto all’opera dell’estensore sposterei la mira dalle convenzionali felicitazioni, facendo notare che aa non ha vinto il suo primo torneo di tennis al tennis club sotto casa, ha proposto la sua lettura di uno dei più profondi, venerati e difficili testi della letteratura religiosa di tutti i tempi. Invito dunque i grati lettori a tarare la loro garrula letizia con alcuni interrogativi, rivolti in primis a se stessi, senza i quali la novità rischia di non essere rinnovamento. Perché ogni cosa, essendo composta, è in se stessa vuota? Che significa vuota? Perché tutto ciò che ha una struttura è per ciò stesso vuoto? Siamo sicuri che fra vuoto e struttura non vi sia differenza alcuna? E via interrogando(si). Per parte mia, rivolgo al curatore una domanda, fermandomi alle prime tre parole: quale riflessione lo ha portato a maturare la scelta di rendere con “immerso” una parola che i più hanno reso, sia dal sanscrito che dal cinese, con un termine più “attivo”, come “procedere, andare, praticare”? Grazie
4 Novembre 2012 alle 12:23 pm
Ah, sì, il dibattito, è vero.
Non parliamo tutti assieme però, uno alla volta, per piacere.
Potrebbe cominciare JF, se vuole, spiegandoci perché, secondo lui, solitamente l’espressione gambhīrāyāṁ caryāṁ caramāṇo è tradotta con un termine più attivo.
Per aiutare a vederci più chiaro: il dizionario per car(a) porta: “muoversi, andare, procedere, intraprendere”, mentre per carya porta: “(che) è da praticare”, ma anche “condotta, procedere”. Per gambhīrāyā troviamo “profondità, trovarsi nel profondo-nel nascosto” ma anche “calma, compostezza”. Volendo, poi, ci sono le implicazioni sessuali (da leggersi solo in senso religioso, naturalmente): gāmin (da cui, poi, gameti) vuol dire (anche) “avere un rapporto sessuale”, gambhīrā vuol dire (anche) “vagina”, il causativo cārayati vuol (anche) dire “provocare un rapporto sessuale”…
4 Novembre 2012 alle 1:34 pm
Premetto che la mia frequentazione con il testo del sutra del cuore è tutta nell’ambito della versione cinese (e poi giapponese) e non ho che una superficialissima cognizione di seconda mano della versione sanscrita. Peraltro è noto che con buona probabilità la redazione cinese precede temporalmente quella sanscrita, ma qui questo non è elemento essenziale. In cinese il termine che in sanscrito risulta caryāṁ viene a essere 行 che i cinesi leggono xing (se non vado errato) e i giapponesi gyō e ha significati, sia come sostantivo che come verbo, che dicono “andare, operare, comportarsi, mettere in pratica, praticare…”. Penso che sia stato per lo più usato un termine con una connotazione attiva perché la prajnaparamita non è concepita tanto come uno stato, una condizione statica quanto come un modo di procedere, uno stile di vita, un comportamento che informa il movimento della propria vita, ivi compreso lo stare immoti. IMHO
4 Novembre 2012 alle 1:49 pm
Così Conze nel suo commento(Ubaldini ’76):
‘L’espressione ‘si stava muovendo nel profondo corso’ rappresenta un tentativo di riprodurre il sanscrito il più letteralmente possibile. Significa che egli ‘era occupato nella pratica’ della perfetta sapienza’.
E più avanti: ‘Poiché in Avalokita la sapienza è accoppiata alla compassione, egli rimane assorto in trance e non si annulla nella visione dei Buddha tanto da dimenticarsi di ogni altra cosa. Egli viene pensato come un essere che ha fatto il grande voto del Bodhisattva…….Con l’entrare nel Nirvana finale il Bodhisattva si staccherebbe completamente da questo mondo….’
Anche Conze mi sembra qui piuttosto ‘statico’; l’impressione è che intenda quasi sancire una dicotomia reale tra Nirvana (= sapienza, trance?!) e Samsara.
4 Novembre 2012 alle 4:39 pm
La redazione cinese precede quella sanscrita in quanto … assemblaggio di frasi. Ovvero non c’è una composizione originale in sanscrito con le frasi messe in quel modo, ma le frasi cinesi che compongono il sutra sono (secondo una studiosa americana per ora non smentita da alcuno) prese dalla traduzione, dal sanscrito, della Prajnaparamita Estesa. Sic stantibus rebus 行 è una traduzione di caryāṁ caramāṇo.
Comunque, se Avalokita da immerso contemplava… non gli mancava nulla, mi pare.
4 Novembre 2012 alle 7:44 pm
Sic res stant, e dunque alla luce sia del sancrito (vedi chiarimento mym 13) che della traduzione cinese parrebbe avvalorarsi il senso di “procedere, andare, star praticando” che, forse, reso con “immersione” rischia di socchiudere la porta della lettura dicotomica che doc segnala. Che poi ad Avalokita immerso contemplante non manchi nulla, non mi pare in discussione.
4 Novembre 2012 alle 7:51 pm
Per socchiudere socchiude.
Però, il buon Avalokita, mentre (profondemente immerso) contempla e vede … vede… Chevvede? Insomma, mentre è lì che contempla e vede, non è che già procede, pratica ecc.?
Non vorrei che lo si stressasse affinché “faccia di più”, ecco.
4 Novembre 2012 alle 8:27 pm
@12: Riguardo agli interrogativi che pone jf circa l’equivalenza tra vuoto e forma (secondo me il punto centrale del testo), posso cercare di spiegare quale sia stata la mia interpretazione nel corso della traduzione, soprattutto come stimolo per il dibattito.
Le proprietà di un qualunque sistema si consideri, a prescindere dalla scala di grandezza (un gruppo sociale, un organismo vivente, una proteina, persino un atomo), dipendono da un lato dalla sua struttura interna, cioè da come si relazionano tra loro gli elementi che lo costituiscono, dall’altro dalle interazioni tra il sistema stesso ed il suo “contorno”, l’ambiente che lo circonda. La linea di demarcazione è tuttavia arbitraria, è utile per il pensiero discorsivo (livello convenzionale), ma in fin dei conti è inadeguata, poichè la realtà è un continuum: ogni cosa è contemporaneamente frutto di una relazione tra elementi e costituente di un sistema più vasto. Inoltre, non esistono “elementi costituivi” elementari, preesistenti alla loro reciproca interazione; anche questa è un’astrazione mentale -un utile modello, non la realtà. Gli “elementi costitutivi” non sono dei dati poichè sono essi stessi modificati dalle relazioni che stabiliscono mutualmente (eg. un atomo di ossigeno è identico ad un qualunque altro atomo di ossigeno, ma in una molecola di O2 ha proprietà differenti che in una di H2O; un’atomo di ossigeno non è lo stesso prima e dopo aver interagito con un altro atomo di ossigeno). Si può anche osservare che se le cose non fossero vuote (cioè il risultato di un processo in continua modificazione) sarebbero statiche, cioè incapaci di costituire a loro volta ulteriori interazioni. Le cose sono vuote in se stesse, mentre sono massimamente piene non in se stesse (ossia se viste come parti di un tutto continuo, sia in senso spaziale che temporale). E’ seguendo questa linea di ragionamento che sono giunto alla decisione di tradurre “rupa” con “struttura”, anzichè con il tradizionale “forma”.
In sintesi, il mio modo di procedere nel tradurre è stato quello di considerare il testo come lo scritto di un contemporaneo, solo in una lingua diversa.
4 Novembre 2012 alle 8:39 pm
Che un atomo di ossigeno sia proprio identico a qualsiasi altro atomo di ossigeno… Ammesso che esistano gli atomi e siano come si pensa, allora hanno (almeno) una parte sempre in moto, gli elettroni che girano girano e non si sa dove siano in un dato momento. Per essere identici (o per poterlo sostenere) occorrerebbe, per es., che gli elettroni di due atomi girassero “di conserva”. Forse si può dire che sono identici perché sono tutti e due sempre diversi.
4 Novembre 2012 alle 9:28 pm
Gli atomi sono identici nel senso che sono intercambiabili (uno vale l’altro) ma era solo un esempio. Ciò che voglio dire è che secondo me quando nel Sutra si dice che i dharmata “non sorgono né decadono, non sono né puri né privi di impurità, né deficitari né completi in se stessi” si intende che anch’essi esistono solo relativamente gli uni agli altri, cioè che le loro proprietà, anche considerandoli singolarmente, emergono dall’insieme entro cui si situano. Almeno questo è stato il mio modo di intendere.
5 Novembre 2012 alle 12:03 pm
Il tacòn l’è pezo del buso. Anche i medici (spesso) sono intercambiabili. Ma non identici. Distinguere le… monate dal resto aiuta a proseguir chiari per sé e per gli altri. Temo che “essi esistono solo relativamente gli uni agli altri, cioè che le loro proprietà, anche considerandoli singolarmente, emergono dall’insieme entro cui si situano” non spieghi che vuol dire “equivalenza tra vuoto e forma”. Sicuro poi che dicendo “tra vuoto e struttura non vi è differenza alcuna” si parli di (semplice) equivalenza?
5 Novembre 2012 alle 7:00 pm
Lungi da me, non sia mai, l’ombra del simulacro di una pur recondita intenzione di stressare Avalokita, mym 18. Tutto è implicito nel suo contemplare vedendo ciò che vede. Ma poiché il tutto non si può dire, si tratta di selezionare una sineddoche, dire una parte che dica il tutto. Se per descrivere un’automobile, dico che è un abitacolo dove si può star seduti al riparo dalle intemperie faccio una scelta legittima che proietta determinate impressioni, se dico che è un mezzo semovente in cui si sta seduti, faccio un’altra scelta legittima che dà adito ad altre suggestioni. Chiedevo solo al traduttore il motivo della scelta di quella particolare sineddoche.
Egli, il traduttore, risponde (aa 19) invece a una domanda che non (gli) ho posto, non avendo ipotizzato un’equivalenza fra vuoto e forma (o struttura che sia) e dunque non essendomi interrogato né avendo proposto un quesito in proposito. Ringrazio perciò dell’occasione che colgo, e mi rispondo che non mi pare il sutra parli di equivalenza. Dice che la forma (struttura) è vuota. Il che nega ogni valenza, al concetto di forma, al concetto di vuoto. Non c’è valenza, né eguale né differente. Altrimenti l’essenza ontologica che qui viene svuotata di ogni contenuto si ripresenta attribuendole una valenza equiparabile a un’altra. Personalmente poi sconsiglio la metafora fisico-chimico-quantistica ecc, è scivolosa e piena di tranelli. Un protone (ammesso che esista roba simile) è una struttura? E un neutrino, con rispetto parlando?
5 Novembre 2012 alle 7:17 pm
Stressarlo no, perbacco, però se si desse una mossa…
Intesa come sineddoche, ça va sans dire 🙂
Le parole del testo portano a dire che una rappresentazione più attiva di una “semplice” immersione sarebbe opportuna. Però le alternative (percorrere, camminare, praticare, muoversi, procedere ecc.) mi sembrano poco adatte a rappresentare la “cosa”.
5 Novembre 2012 alle 8:21 pm
@ 22: non esiste nessun modo per distinguere un atomo da un altro, sono identici in tutte le loro proprietà, mentre ne esistono vari per distinguere un medico da un’altro.
@ 23: io ho cercato di rispondere alle domande che hai posto in 12 (se erano retoriche non l’ho colto); a mio modo di vedere il Sutra non dice semplicemente che la forma è vuota, perchè afferma in modo esplicito che il vuoto è forma. Come intendere questa seconda affermazione?
Riguardo alla scelta di “immerso”, in luogo di una traduzione più attiva, il mio problema era capire che cosa volesse effettivamente dire che “si muove nella profondità della Saggezza ecc..”. In che senso si muove? Che cosa si vuol dire? Dal momento che tutto il Sutra si situa sul piano concettuale, mi è parso naturale intendere che il “movimento” di cui si parlava fosse anch’esso di quella natura (cioè che si parlasse di un movimento del pensiero). Ho quindi ritenuto che una traduzione di quel tipo (immersione) rendesse più chiaro che si stava parlando di uno stato mentale, di concentrazione-contemplazione. Perciò ho sacrificato il senso di attività dell’azione (di cui sinceramente non avevo colto l’importanza), in favore della chiarezza e dell’immediatezza.
5 Novembre 2012 alle 8:42 pm
Non vorrei spostare troppo l’attenzione sugli atomi, però ritengo che un’affermazione come “non esiste nessun modo per distinguere un atomo da un altro, sono identici in tutte le loro proprietà” riguardi più la teologia che la scienza.
6 Novembre 2012 alle 12:31 am
Le domande che ho posto non intendevano essere retoriche, semplicemente non riguardavano “l’equivalenza fra vuoto e forma”, come può verificare chi avesse la pazienza di rileggerle in 12, per il semplice motivo che non penso che il sutra dica che vuoto e forma sono “equivalenti” e dunque non vi è ragione per me di porre quesiti in proposito. Quanto alla questione di come intendere l’affermazione che il vuoto è forma, adesso direi che se la forma (ogni forma, ovvero tutto e ciascuna “cosa” – possibile e impossibile, pensabile e impensabile, immaginabile e inimmaginabile…) è vuota ne consegue necessariamente che anche il vuoto è una forma (vuota).
6 Novembre 2012 alle 1:04 am
Forse sbaglio, ma ho come l’impressione che si tenda a leggere il sutra in modo prevalentemente razionalistico, come se ci fosse da ‘capire’: come se fosse la chiave di una ‘conoscenza’, tipo la descrizione o definizione della struttura della realtà. E questo potrebbe essere ascritto a suggestioni dovute al linguaggio usato dal traduttore.
Rispetto a Jf 23, che apprezzo, mi piacerebbe capire dai dotti conoscitori di lingue a me ignote se nel tradurre il testo si possa indifferentemente dire che ‘la forma è vuota (aggettivo)’ oppure che ‘la forma è vuoto’ (sostantivo).
Ancora mi piacerebbe capire i motivi dell’espressione ‘impossibilità di ottenimento’ laddove invece Conze traduce ‘indifferenza di fronte ad ogni tipo di realizzazione personale’. Mi vien da pensare che se è stata insegnata come non-realizzazione personale è per via dell’essere Avalokita o chi per lui indifferente, non per via di una presunta impossibilità (o possibilità).
Ma che si tratti di uno ‘stato mentale’ particolare, come sembra intendere aa 25, beh…nutro i miei dubbi, anche se Conze sembrerebbe confermalo (‘QUI, o Sariputra, la forma è vacuità…)..
6 Novembre 2012 alle 10:48 am
“Anche il vuoto è una forma (vuota)” (@27) andiamo verso il virtuosismo dialettico. Di che forma è il vuoto? Secondo me trattasi di altra storia.
In un certo senso più semplice. Rispondendo (in parte) anche a @28, occorre notare che “vuoto”, “vacuità” ecc. (ovvero tutte le traduzioni di śūnya e śūnyatā) son da prendere come un tentativo. Il tentativo di dire “come stanno le cose in senso ontologico, sostanziale, essenziale”. Lo chiarisce un esperto della “materia”, Nāgārjuna, che nella Mūlamadhyamakakārikā (24.18) dice: “La coproduzione condizionata (pratītyasamutpāda) questa e non altra noi chiamiamo vacuità (śūnyatā). Vacuità è una designazione metaforica. Questa e non altro il Cammino di mezzo”. Il termine śūnya (la cui base etima è il verbo sh “soffiare”) nasce in ambito grammaticale (con ogni probabilità è un’invenzione del Pāṇini, +- V sec. a.C. ) per indicare il significato determinato dall’assenza del prefisso in una parola, era quindi in origine il valore dell’assenza. Matematicamente significa anche “zero” di cui -tramite l’arabo sifr o sfr, da cui anche “cifra”- è l’origine sia concettuale sia etima sia grafica (è anche l’origine del cerchio detto ensō in g., che piace tanto agli zen). Ma è una parola come un’altra: se per dire lo stato delle cose nell’impermanenza dove fuuuuh tutto scompare trovassimo un termine più… migliore, be’ prima o poi forse ci sarà chi si accapiglia anche su quello.
6 Novembre 2012 alle 11:07 am
Allora si può dire che c’è il vuoto e la sua ‘rappresentazione’ che è ‘detta’. Il vuoto come rappresentazione è un eccesso di significato dal quale si diramano fitte trame di senso. Sta qui il mistero. È da questa massa di significati che prende corpo il vuoto come rappresentazione, la quale, una volta detta, finisce per essere oggetto di categorie anche se in un modo particolare. (cfr. jf 23)
Se il vuoto non è questa o quella cosa, è il sistema dell’impossibilità dell’uso di categorie, ovvero un sistema di scarti. Cioè le categorie sono necessarie per essere scartate e questo scarto è sintetico. Tutto ciò che il vuoto “non è” lo costituisce e ne forma la rappresentazione. Sistema di scarti: come rappresentazione.
Si può dire che il vuoto è anteriore alle sue creature, tuttavia, poiché nel concetto di vuoto esse sono incluse, si danno simultaneamente. Ma senza qualcuno che lo ‘dica’, senza le articolazioni operatevi, il vuoto resta una cosa indistinta, una nebulosa che non si può nemmeno usare e l’ ‘uso’ del concetto di vuoto è per il buddismo (e le religioni) tutto ciò in cui il vuoto consiste.
Grazie per le delucidazioni filologiche: ora mi immergo nel neikos andato oltre…
6 Novembre 2012 alle 11:23 am
Si può dire quasi tutto. Anche che ci si va immergere nel neikos andato oltre. Un filino più difficile dire un silenzio. Ma si può dire anche quello. Che cos’è che non si può dire?
6 Novembre 2012 alle 11:36 am
@ 29: Sono d’accordo, la coproduzione condizionata è il punto centrale anche del Sutra. Guardate che in 19 io ho semplicemente riproposto della argomentazioni classiche di Chandrakirti usando una terminologia diversa. La cose sono vuote in quanto si generano in modo coproduzionato, e solo in quanto generate in modo coproduzionato (ossia in quanto vuote) possono esistere. Una cosa non vuota è un assurdo concettuale, in quanto dovrebbe sussistere di per se, e sarebbe quindi slegata dal resto della realtà. Non sarebbe neppure percepibile a livello fenomenico (per essere percepita deve interagire, e se interagisce allora è di per se stessa vuota, poichè l’interazione implica il mutamento). Il vuoto è forma nel senso che la vacuità (ossia l’origine coproduzionata) è la condizione necessaria perchè vi siano dei fenomeni osservabili.
6 Novembre 2012 alle 12:23 pm
Tu sei d’accordo (@32)? E allora io cambio idea, ooooh! 🙁
Ben detto aa, ben detto.
“Una cosa che sussista di per sé non sarebbe neppure percepibile”. Capperi.
6 Novembre 2012 alle 1:34 pm
“Anche il vuoto è una forma (vuota)” (@27) è forse un virtuosismo dialettico, sta a indicare che quando diciamo “vuoto, vacuità” esprimiamo un concetto, una designazione metaforica, dice Nāgārjuna, che è vuota come ogni cosa. Non vedo contraddizione con quanto scrive e spiega mym (@29).
Quanto a doc @28, non so di sanscrito, se non che ha declinazioni, casi, generi e numeri e dunque penso si possa distinguere se il sutra dice la forma è vuota o la forma è vuoto. In cinese ci sono solo caratteri che in teoria potrebbero svolgere la funzione di sostantivo, aggettivo, verbo (anche se dalla posizione di solito si evince la funzione sintattica specifica. Oserei affermare che siccome il termine vuole esprimere lessicalmente “il valore dell’assenza” andrebbe evitata con cura ogni espressione che rischi di far del vuoto una presenza, ipostatizzandolo. Non dimentichiamo poi che il sutra, concettuale fino all’estenuazione, sfocia in un mantra (caso più unico che raro per un sutra) ribaltando il tavolo con un sol colpo.
6 Novembre 2012 alle 1:52 pm
Ah, intendevasi (@34), in forma contratta, di “anche la parola vuoto è una forma verbale per cui è anch’essa vuota”.
Be’, sì. Sarebbe possibile altrimenti? Non vedo la ratio dell’affermazione.
Per quanto riguarda la scelta tra “la forma è vuoto” e “la forma è vuota”, una volta inteso il senso, come lana caprina è stata insegnata…
6 Novembre 2012 alle 2:03 pm
Secondo me Nagarjuna ha intuito sul piano puramente logico quello che la fisica avrebbe ipotizzato sulla base dell’evidenza sperimentale secoli dopo (il principio di indeterminazione è un’applicazione particolare dell’interdipendenza).
Se esiste un modo di controbattere alle argomentazioni dei logici madhyamaka io non lo conosco. L’unica possibilità che vedrei è ipotizzare un mondo parallelo (l’empireo delle idee), che però mi pare un’inutile (e indimostrabile) duplicazione dell’essere.
6 Novembre 2012 alle 4:17 pm
> Allora Che cos’è che non si può dire?
Che il neikos (o l’odium) è una termine più…migliore per rivitalizzare il rapporto con il divino (cioè tutto si può dire, ma se nessuno ascolta che si dice a fare?)
Mi spiego. Che cos’è il vuoto? È ciò che se ne dice. O meglio, è ciò che ne dice l’esperto. Con ciò si afferma semplicemente che il vuoto è rappresentazione. Ma in Nāgārjuna e in Schopenhauer ogni rappresentazione è collegata a una intuizione, qui a ciò che ne ‘dice’ l’esperto, ovvero che
> Una cosa non vuota è un assurdo concettuale. La cose sono vuote in quanto si generano in modo coproduzionato e dunque il vuoto è la condizione necessaria perché vi siano dei fenomeni osservabili.
(la Saggezza andata oltre)
Si intuisce sullo sfondo la differenza tra il vuoto fuori di noi, e la sua ‘rappresentazione’, la quale si trova dalla parte della dictio.
Ora, per avvalorare le tesi dei logici madhyamaka ricorro a George Berkeley: «Esse est percipi». Cioè, l’unica possibilità di usare concretamente il concetto di vuoto e di non appiattirsi sulla teoria dell’adequatio rei et intellectus, è simulare un mondo simultaneo (l’empireo delle idee) rispetto al quale il mondo fenomenico potrebbe continuare a definirsi ‘essere’, ma in senso derisorio, non certo come duplicazione… (il neikos andato oltre)
6 Novembre 2012 alle 4:26 pm
(@37) Se per dire ciò che non si può dire ci metti tanto… chissà per dire ciò che si può dire… 😛
PS: l’assunto di Berkeley è identico al punto di partenza della Yogācāra, poi lui introduce la mente di Dio e, come dicono a Parì, ciau balle. Invece la moderna paranoia fondata sull’apparire è speculare: esisto in quanto sono percepito, visto: specie in tivì.
6 Novembre 2012 alle 5:38 pm
Non colgo bene tutte le sfumatore di quanto scrive hmsx in 37; una riflessione che proporrei è questa: il mondo fenomenico non è una rappresentazione del mondo materiale “esterno” alla mente. L’ipotesi di un oggetto in se alla base dei fenomeni è problematica; si tratta di una modellizzazione. Se si lascia cadere la distinzione tra ciò che è mentale e ciò che è fisico si vede che sono i fenomeni ad essere reali e che è tra di essi che avvengono le interazioni (non “dietro le quinte” della percezione). E’ per questo che viviamo in un mondo condiviso, anche se lo vediamo da punto di vista diversi, e non frammentato in una miriade di individualità sconnesse.
PS: in separata sede jf mi fa notare che il termine coproduzione ha un che di scatologico (senza la e) 🙂
6 Novembre 2012 alle 5:47 pm
Cheffate dietro le quinte, giocate al dottore? 😛
6 Novembre 2012 alle 5:58 pm
No quello è davanti alle quinte. Io in ospedale dietro alle quinte faccio Zz 🙁
6 Novembre 2012 alle 5:59 pm
Se lo sa Monti mi licenzia, essendoci la spending review…
6 Novembre 2012 alle 9:41 pm
O si è responsabili e si tace, oppure si è irresponsabili e si dice.
il neikos andato oltre ha reciso così ogni possibile legame con l’Altro: è impenetrabile: una fortezza senza ponte levatoio. Non condivide proprio un bel niente, meno che mai il philos. Insomma: l’ Amore non lo sfiora.
Berkeley, a differenza della Yogācāra, ci introduce all’‘ esistenza’ di Dio mediante quella che più tardi Cusano definirà ‘teologia parlata’, ribadendo la necessità di ‘parlare’ di Dio affinché egli esista.
Ora, se Il procedimento del Settuplice Ragionamento ha lo scopo di “annullare le tendenze che ci conducono ad aderire a visioni distorte della realtà” è perché questa si presenta con i tratti opachi dell’immutabilità. La Tecnica planetaria ci consegna un gelido eterno presente; il rassegnato corollario è “solo un dio ci può salvare” .
Più ‘umilmente’ il neikosofo sostiene che “solo un Io ci può salvare”; un Destino contro -, un agire sul Fato.
(il neikos: una specie di morale che ha lo scopo di rendere più infelice. – so’ soddisfazioni. in fin dei conti infelici si nasce, ma i più infelici… si diventa. per dire ciò che non si può dire “jenseits von gut und böse”: i più infelici, come esseri circonfusi di luce. 🙂
7 Novembre 2012 alle 10:55 am
Un po’ di responsabilità, ogni tanto, non dovrebbe far male… 😕
7 Novembre 2012 alle 12:07 pm
Visto in tivì: 1) il dolore come coronamento della percezione soggettiva: la moderna paranoia dell’apparire come virtù del ‘dormire-sogni-tranquilli-presso-l’-Abisso’: una moda.
Il neikos è una forza in grado di smascherare l’odierna ideologia dell’immodificabilità del mondo, di trasformare il volto dello status quo in progetti futuribili (abbiamo già detto che è una prassi).
Il neikosofo agisce coraggiosamente sull’avvenire, “de-fatizza” il Non-Io per sottrarlo alla logica insensata dell’illimitatezza, alla infame condanna emessa dal fanatismo economico per cui il mondo smettendo di credere a Dio si consegna alla fede cieca nel Mercato.
Mi vengono in mente a) Mt. 6,33; b) il commento di Kierkegaard: “oseresti misurare la tua intelligenza, la tua fantasia con Dio? Per il fatto che la tua fantasia non riesca a trovare possibilità, anche Iddio non ne avrebbe ancora? Ogni momento Dio dispone di 100.000 possibilità senza che nessuna di queste possibilità sia un miracolo. L’arbitrio (…) è dire « Non c’è più alcuna possibilità », invece di : « Io non vedo alcuna possibilità»” (Carte del Diario 1942, af. 1987, IX A 412).
Insomma, il concetto di vuoto funziona come un nominalismo radicale che colonizza il futuro con progetti di emancipazione dall’ “eterno presente”. – Il Nostro fa buon uso del concetto, senza dirlo. Scrivendo.
“Muraglie di pensiero, abitudini che parevano durevoli come la pietra, caddero come ombre al tocco di un’altra mente” – V. Woolf
7 Novembre 2012 alle 3:19 pm
Salve a tutti. Riguardo a quanto scritto fin qui, mi pare di trovare efficaci commenti di Yushin in “Il Sutra del Diamante”, pag. 122-125, [che non vi riscrivo ché immagino abbiate il testo, altrimenti…che parlamo a fa’? ;-)], dove si parla di: suprema virtù oltre il vuoto; delle cose di questo mondo che sono quel che sono e non ciò che appaiono; e del fatto che la conoscenza andata al di là non esiste, è un’illusione come un’altra. E della difficoltà di rinunciare ai contrassegni (soprattutto se lavorate con un corriere).
Infine vi sarò grato se avrete la pazienza di spiegarmi cosa comporta la distinzione tra “equivalenza” e “non v’è differenza”.
Saluti da lontano.
7 Novembre 2012 alle 4:52 pm
Ciao AHR, di nuovo a Ibiza? 🙂
Se dico che -per es.- dal panettiere un kilo di pane equivale a 3,5 euri e dico che tra un kilo di pane e 3,5 euri non c’è differenza, be’, la prossima volta che ho fame e ho solo 3,5 euri e il panettiere è chiuso, mi accorgo quale delle due ho ceffato.
8 Novembre 2012 alle 4:51 pm
Qui comincia l’avventura del signor…
Censura.
Il commento qui locato è scomparso, assieme ad alcuni altri in questo post, perché troppo (troppo!) offtopic.
Un battuta, anche due, ogni tanto ci stanno: non siamo ossessionati dal TEMA.
8 Novembre 2012 alle 5:18 pm
Plaudo, mym 48, seppur pleonastico. Non siamo ossessionati tout court, I hope.
8 Novembre 2012 alle 7:09 pm
Il tema di Mu, o de la permeabilità magnetica.
The winter feeds my heart while summer blows and burns my disappearing youth. I’ll never feel again the agony of pain. The scratches on my face will never be erased by someone else’s warmth. I hope because of hate. My love is gone, I never feel again; because of love I feel nothing. Odium vincit omnia.
PS: il Paradiso di Dante non ha nulla a che fare con nuvolette e suonatori di arpa, coincide con il cosmo stellato: ma è troppo offtopic. Ripasso dhr. Giudizio o auspicio? direi: scherzetto!
10 Novembre 2012 alle 10:01 am
> Un battuta, anche due, ogni tanto ci stanno: non siamo ossessionati dal TEMA.
– ma io, mah, veramente… l’ossessione è una cura permanente per la noia.
The winter feeds my heart while summer blows and burns my disappearing youth.
Ah, già, il dibattito. Non decolla. Eppure nel TEMA “Cuore Nuovo, ovvero Prajñāpāramitāhṛdayasūtram” potrebbero starci i battiti del proprio cuore, o no? Mi viene da dire, “ragassi miei siete vuoti di giovinezza!”
Non dovrebbe essere la giovinezza la vera età antica dell’anima e la vecchiaia la sua infanzia?
Ad ogni modo, se sono un profano nell’arte dell’eloquenza, non lo sono nella scienza teologica – come abbiamo potuto dimostrare in tutto e per tutto tra noi -, e comunque sono convinto di non essere in nulla inferiore al mio straordinario maestro.
And now I fly to be on cloud nine ‘cos I’m dying and I’m so tired of playing this game: I’m out of its cage.
11 Novembre 2012 alle 12:19 pm
punto 51: il risultato è che, di quel sutra che mi era piaciuto così tanto, adesso non capisco più una mazza…
11 Novembre 2012 alle 12:25 pm
Oooh, finalmente ci siamo. Possiamo chiudere il dibattito.
O discutere di mazze.
11 Novembre 2012 alle 3:22 pm
propongo Valeria Mazza
13 Novembre 2012 alle 12:11 am
> punto 51: il risultato è che, di quel sutra che mi era piaciuto così tanto, adesso non capisco più una mazza…
– Ecco, finalmente ci siamo. Possiamo discutere di mazze…
Matutity is the moment one regains one’s innoncence.[Il saggio tace. Il bello parla. – arabian proverb].
PS: un bel giorno mym ci spiegherà ‘sta cosa dell’ offtopic. Valeria mazza rientrebbe nel perimetro? Ohooo! – Have a nice day.
13 Novembre 2012 alle 1:07 am
erràta còrrige.
maturity is the moment one regains one’s innoncence. the wise man is silent. the nice talks.
13 Novembre 2012 alle 10:43 am
@54 PS: Spiegare l’offtopic è l’offtopic. Tze!
13 Novembre 2012 alle 3:34 pm
In effetti spiegare l’offtopic e come spiegare una barzelletta… oppure preparare dei manicaretti per un’anoressica.
A better translation. L’uomo silente è saggio. Quando parla più bello.
Piuttosto: le si sono sturate le orecchie?, e, soprattutto, i tuoi relatori dormono sogni tranquilli?
Per parte mia mi pratico la traduzione del Diamante dall’inglese.
13 Novembre 2012 alle 5:15 pm
We are (almost) ready.
11 Agosto 2014 alle 4:56 pm
[…] novembre 3, 2012 da admin, 0 Commenti, in Uncategorized Sul sito della comunità Stella del Mattino è presente una recente traduzione in italiano dal sanscrito del Sutra del cuore ( Prajñāpāramitāhṛdayasūtram). Lo segnalo, un po’ per ringraziare concretamente e non solo a parole del lavoro e della fatica. Il Sutra del Cuore della Prajñāpāramitā […]
29 Novembre 2023 alle 6:22 pm
Scopro solo ora l’origine di questa bella e moderna traduzione che il mio maestro di meditazione mi aveva già fatto avere qualche anno fa …
Grazie AA !