Mer, 9 Nov 2011
Come abbiamo annunciato nei
post precedenti, nei giorni scorsi si sono svolti due eventi nei quali la Stella ha dato il suo contributo: il primo ad Assisi, dedicato a Raimon Panikkar ed il secondo a Crema dedicato all’attenzione nei confronti di chi vede la fine della propria vita avvicinarsi a velocità crescente.
Trovate qui l’intervento di Jiso ad Assisi e qui l’intervento di Paolo a Crema. Ambedue gli argomenti, e gli interventi che li interpretano, sono interessanti. L’accostamento tra zazen e capacità di vita che comprende la morte non è una novità assoluta. In Giappone, nell’XI e XII secolo molti tra i samurai stabilirono legami stabili con lo zazen e con lo zen di scuola Rinzai. In quel caso però possiamo parlare, penso, di una situazione particolare: per “mestiere” i samurai ponevano la loro vita in gioco in combattimenti spesso mortali per cui lo zazen era un ponte attraverso il quale avventurarsi lasciandosi alle spalle la paura della morte. Al convegno di Crema, invece, Paolo pone il problema in termini più ampi, così come è ampia la platea di coloro che sanno che moriranno. Un altro punto che emerge in quell’intervento, anch’esso non per la prima volta, è l’ipotesi di uno zazen completamente slegato dal terreno buddista nel quale è stato allevato. Penso sia un aspetto da approfondire, quantomeno la domanda: che cos’è lo zazen privo di un retroterra buddista?
Il convegno di Assisi, invece, era dedicato a Panikkar: penso sia giunto il tempo di iniziare un esame della vita e delle opere di quell’uomo distinguendo l’aspetto meramente culturale e quello religioso, o con altre parole: distinguere l’uomo dai suoi libri. Soprattutto con occhi liberi da una scontata apologetica. L’intervento di Jiso, esteta nella parola, è un primo piccolo passo in quella direzione.
33 Commenti a “Stelle filanti”
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10 Novembre 2011 alle 12:24 am
Prima di tutto complimenti al Doc per il suo intervento. Facendo pure io il medico sono stato in contatto con persone affette da gravi malattie ma in piena lucidità mentale. Alcune conversazioni con persone in questa situazione, che conoscevo particolarmente bene, sono state tra le più intense e significative che abbia mai avuto.
Una delle considerazioni che ne ho tratto è che l’approccio della medicina alla persona sofferente (e quindi in ultima analisi al proprio vero centro di interesse) sia gravemente carente. E’ troppo frammentarizzato ed esclude totalmente la soggettività della persona, la sua esperienza interiore. Ormai i nostri ospedali assomigliano molto di più a fabbriche o poli tecnologici che a luoghi di cura…l’unica eccezione, almeno dalle mie parti, sono proprio i centri per i malati terminali, che hanno mantenuto una certa atmosfera di umanità, direi persino di sacralità.
Mi verrebbe da chiedere: perchè separare così nettamente spiritualità e religione da una parte e medicina dall’altra? Non è evidente che esiste un rapporto tra i due? E’ davvero così sbagliato, ad esempio, intendere lo Zazen come un processo di cura di se stessi?
Tanto per restare in tema con il doppio link di questa pagina, per chi fosse interessato, Panikkar ha scritto cose molto profonde sulla medicina e sul rapporto con la religione, li trovate in fondo al volume III della Ja(k)a books….
10 Novembre 2011 alle 12:17 pm
“E’ davvero così sbagliato, ad esempio, intendere lo Zazen come un processo di cura di se stessi?”: sì.
10 Novembre 2011 alle 2:11 pm
A me viene il dubbio che abbiamo un concetto di cura troppo restrittivo. Non è che voglia proporre Zazen come una forma di terapia medica o psicologica, ma credo che vi possa essere un’interazione positiva nella vita di una persona tra salute fisica e spiritualità. L’esperienza delle Molinette mi sembra un modello interessante, non c’è una confusione tra i due ambiti ma una coesistenza all’interno del luogo di cura. Che, come nel caso del cardiologo che riporta Paolo, spesso è il luogo da cui uno riparte nella propria vita
10 Novembre 2011 alle 2:19 pm
E allora?
PS: non è il concetto di cura ad essere troppo restrittivo. È il “concetto” di zz che esprimi ad esserlo.
10 Novembre 2011 alle 2:49 pm
Certo capisco, non voglio dire che Zazen debba essere inscritto all’interno dell’ambito medico,; è molto di più di questo. Piuttosto vorrei che i confini dell’interesse medico si ampliassero, considerando l’uomo nella sua globalità e non solo nell’ottica di un certo modello predefinito.
10 Novembre 2011 alle 5:08 pm
Per Angelo 3: per inciso (ma neanche tanto) il cardiologo del caso citato è ripartito davvero. Amen.
Più che “un processo di cura di se stessi” direi semmai che lo zz è un processo di morte di sé (ma anche questo è un concetto restrittivo).
10 Novembre 2011 alle 7:15 pm
Sì, volendo tener fermo “processo” direi anch’io così. Però i processi, silviuccio nostro insegna, è meglio evitarli.
Lo zazen e l’evoluzione del carattere o del modo di vivere di una persona non sono la stessa cosa. Se proprio vogliamo parlare in termini medici possiamo dire che zz non è la cura, ma la guarigione. Quando scompare il malato direi che è guarito, no?
10 Novembre 2011 alle 7:55 pm
Amen. Anche quella persona diceva che lo Zz gli pareva quasi un’esperienza di premorte, di catalessi. Eppure “…Ho l’impressione che, in realtà lo Zazen abbia fatto riaffiorare qualcosa che faceva già
parte di me; ho ritrovato un modo di sentire, di pensare che mi appartiene completamente.Oggi guardo tutto con questi nuovi occhi.” Non è questa l’espressione di una “guarigione”? Non dalla malattia, certo, quella ha fatto il suo decorso, ma da qualcosa di più…radicale? profondo?
10 Novembre 2011 alle 8:57 pm
Mah, non mi spingerei sino lì. Per di più “…riaffiorare qualcosa che faceva già parte di me; ho ritrovato un modo di sentire, di pensare che mi appartiene completamente. Oggi guardo tutto con questi nuovi occhi” fa parte di una modificazione dell’atteggiamento vitale, di un’evoluzione. Non è zazen. Sembra strano doverlo ricordare, ma zz è seduti in silenzio davanti al muro.
10 Novembre 2011 alle 10:32 pm
Forse è questo zz senza un retroterra buddista…o forse non avere nessun retroterra è proprio il retroterra buddista…
11 Novembre 2011 alle 2:09 am
Angelo, molla l’osso! ti sloghi le mascelle inutilmente, è un ossobuco senzosso…
11 Novembre 2011 alle 11:35 am
“C’è un buco nel secchio, Arturo, Arturo”.
“E tappa quel buco Gertrude, Gertrude”.
“Con cosa lo tappo? Arturo, Arturo”.
“Lo tappi col tappo Gertrude, Gertrude”.
“Il tappo non tappa, Arturo, Arturo”.
“E taglia quel tappo Gertrude, Gertrude”.
“Con cosa lo taglio?, Arturo, Arturo”.
“Taglia col coltello Gertrude, Gertrude”.
“Il coltello non taglia, Arturo, Arturo”.
“E affila il coltello Gertrude, Gertrude”.
“Con cosa lo affilo? Arturo, Arturo”.
“Lo affili con la pomice Gertrude, Gertrude”.
“La pomice è secca, Arturo, Arturo”.
“E bagna la pomice Gertrude, Gertrude”.
“Con cosa la bagno? Arturo, Arturo”.
“La bagni con l’acqua Gertrude, Gertrude”.
“Con cosa la prendo?, Arturo, Arturo”.
“La prendi col secchio Gertrude, Gertrude”
“C’è un buco nel secchio, Arturo, Arturo”.
11 Novembre 2011 alle 1:22 pm
sublime.
11 Novembre 2011 alle 2:33 pm
@ 10: Grazie Jiso, stavo già mollandolo…in genere quando arrivo ad un loop mi fermo. Quando ero un ragazzino avevo un computer “Amiga” (evoluzione del mitico commodore, ve lo ricordate?): ogni tanto si imballava e compariva il temibile messaggio “guru meditation in (numero enorme a scelta)”. L’unica era staccare la corrente e farlo ripartire…:)
11 Novembre 2011 alle 2:58 pm
Ripartire??? Oggesù… 😛
11 Novembre 2011 alle 3:15 pm
Nooo tranquillo lunedì riprendo a lavorare se la macchina è impegnata si imballa di meno.
Allora qual’è il retroterra buddista?
Nessun retroterra
Ah “nessun retroterra” è il tetroterra buddista..
Nooo…
Allora quale?
11 Novembre 2011 alle 4:00 pm
@ 14: “stavo già mollandolo” sarà anche una buona notizia, per te, ma non suona tanto bene…
11 Novembre 2011 alle 6:56 pm
in fondo, il concetto di “shunyata” è contiguo a quello di “gas”
11 Novembre 2011 alle 7:04 pm
Vero, infatti mi son rammentato di quella volta eravamo in 5 su una vecchia 500, sul raccordo anulare, coi cappotti, i finestrini bloccati ….
… insomma, Carlo insisteva che vuoto non esprimeva correttamente il senso del serbatoio in quel frangente. Non andavamo a gas.
12 Novembre 2011 alle 11:48 am
tornando al tema del fine-vita, un’altra citazione meritevole:
Se tu vens ca sù ta cretis,
là che lor mi àn soteràt,
al è un splaz plen di stelùtis,
dal mio sanc l’è stat bagnàt.
…
Quant che a ciase tu ses sole
e di cur tu prei par me,
il mio spirt atòr ti svole,
jo e la stele sin cun te.
12 Novembre 2011 alle 12:48 pm
…
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate
12 Novembre 2011 alle 1:05 pm
le foglie secche e l’aggettivo “rimorte” sono citazioni dantesche.
(e bravo il “compaesano”!)
12 Novembre 2011 alle 3:51 pm
uno dei tanti insegnamenti preziosi contenuti in “Dracula” di Bram Stoker:
“la maledizione dell’immortalità”
12 Novembre 2011 alle 4:22 pm
“Sono sempre gli altri che muoiono” (MD)
12 Novembre 2011 alle 7:44 pm
Sì, infatti è nato così il detto: vai avanti tu che mi scappa da ridere…
12 Novembre 2011 alle 9:42 pm
un intellettuale ha notato che molti verbi che esprimono grandi risate alludono alla morte: crepare dal ridere, schiattare, sbudellarsi…
14 Novembre 2011 alle 12:01 am
(E ancora…)
Nell’ormai famigerato Gregorio di Nissa si trova un’espressione magnifica: της δε λυπης (…) την λειτουργιαν, “la liturgia della tristezza”, intesa come percezione del dolore, il quale dolore a sua volta è effetto di una mancanza, di una carenza, di una perdita. L’antropologia delle prime 2 Nobili Verità, in sostanza.
Quella “liturgia” – in qualche modo – viene a corrispondere alla terza e quarta Nobile Verità: un costante atteggiamento vitale che assume la condizione umana in tutta la sua precarietà e sofferenza, nell’ottica di una “beatitudine” che è l’unica cosa importante, ma è inconcepibile, irraffigurabile, ecc. Il samsara non si sposta di un millimetro, ma si capovolge in nirvana.
14 Novembre 2011 alle 11:43 am
@27. Nessuno ha mai preteso che le persone intelligenti siano di appannaggio buddista. Il problema è inverso: quanti cristiani (chiedo scusa per la generalizzazione) si sono messi in grado, sono disposti a porsi in grado di compiere una lettura (opinabile o meno che sia) come questa?
14 Novembre 2011 alle 12:06 pm
tra i cristiani-cattolici, direi pochini. e per i protestanti, “peggio mi sento” (peruginismo).
può andare meglio con la tradizione ortodossa, ancora oggi. cfr. quel libro sul monte Athos recensito non molto tempo fa:
http://www.lastelladelmattino.org//index.php/6618
del resto, un “sentire” simile era percettibile anche nell’arte di Chagall, che era ebreo sì, ma aveva respirato la spiritualità della Chiesa ortodossa russa. (cfr. la rubrica su Chagall che tenni sul blog Le Ragazze… please nessuno fraintenda il nome: sono tre signore romane, sorelle tra loro, auto-ironiche)
14 Novembre 2011 alle 12:10 pm
P.S. d’altra parte, l’arguzia dialettica e de-costruttiva dello stesso ebraismo ha qualcosa che ricorda i vari Nagarjuna, Dogen, mym, jf…
14 Novembre 2011 alle 12:11 pm
… e Doc! (ciàmu scüsa)
14 Novembre 2011 alle 12:27 pm
Già alcuni decenni or sono E. Bianchi, di Bose, ha tracciato un parallelo tra lo spirito che si coglie nei detti degli (dei?) Chassidim o Hassidim, e gli scritti dello zen. Recentemente ho trovato un articolo (non eccezionale, per la verità), Zen Buddhism and Hasidism, similarities and contrasts, in: Buddhism and interfaith dialoge, di Masao Abe (il “successore” del dott. Suzuki) e Steven Heine.
14 Novembre 2011 alle 1:12 pm
>Già alcuni decenni or sono E. Bianchi, di Bose
uno che di Silenzio se ne intende, insomma