Dom, 24 Giu 2007
Inauguriamo una nuova pagina: Monografie. Contiene articoli, testi di conferenze, lezioni, commenti e traduzioni che consideriamo adatti a costituire una raccolta, la cui unità interna è data non dall’argomento che volta per volta appare, ma dalla direzione che il testo nel suo complesso indica.
Quella che segue è la versione scritta del discorso tenuto da Giuseppe Jisō Forzani in occasione della festività del Vesak, a Roma
Roma – Vesak – 26 maggio 2007
Il titolo del ciclo di incontri che si conclude oggi, nell’ambito della celebrazione del Vesak 2007, è “Lezioni dall’alfabeto buddista all’illuminazione” e l’incontro che ci coinvolge ha per tema: “Identità e dialogo”. Mi sembra opportuno iniziare dal rapporto fra il titolo generale del ciclo e quello particolare della “lezione” che mi compete, per evitare che le parole scivolino via prima ancora che abbiamo cercato di afferrarne il senso.
Devo confessare che questo “Lezioni dall’alfabeto buddista all’illuminazione” più che servire da traccia per trovare dove collocarmi, mi ha posto delle domande e ha suscitato dubbi: il che dovrebbe significare che è un buon titolo, visto che l’argomento, proprio in quanto buddista, non può non stimolare l’intelligenza critica. Intanto quel lezioni mi ha spinto a chiedermi: si possono impartire o ricevere “lezioni di o sul buddismo”? E’ il buddismo equiparabile a una materia di insegnamento, per cui è appropriato il termine lezione nell’accezione in cui siamo soliti servircene? Autorevoli maestri e diligenti studenti di ogni latitudine diranno che sì, certo, si possono e si debbono offrire e ascoltare lezioni di buddismo: così si è sempre fatto a partire da Sakyamuni Buddha e da allora in tutte le comunità, templi, monasteri, università buddiste, e che proprio questo (anche questo) ha permesso la diffusione, la protezione, il mantenimento di quello che giunge fino a noi come Dharma di Buddha, almeno nella sua forma verbale. Se non ci fosse sempre lungo tutto l’arco della storia del buddismo chi dà e riceve lezioni (anzi, sarebbe meglio dire chi riceve e chi dà, perché non si può dare senza ricevere) oggi non saremmo qui: la cosa appare così evidente da non meritare rilievo. Eppure… Non discuto il fatto che nelle relazioni umane che caratterizzano il fenomeno che chiamiamo buddismo sia presente il fattore dell’apprendimento e dell’insegnamento, della parola e dell’ascolto, della guida e della fiducia, né che il rapporto col buddismo implichi anche il confronto con i testi e con lo studio. Piuttosto mi chiedo: qual è la materia delle lezioni? Chi è che insegna tale materia, e chi l’apprende? Una materia di studio, nella comune accezione del termine, ha ambiti precisi: una lezione di storia dell’arte non è una lezione di chimica, per quanto ci siano contatti e contaminazioni fra le due materie. Durante una lezione di storia della filosofia posso scantonare nell’ambito dell’economia o della musica, ma per illustrare la materia che sto insegnando. Che materia è il buddismo e per converso, di che materia si occupa?
Credo di non dire uno sproposito affermando che la materia di cui il buddismo si occupa è la mia vita. Quello che oggi chiamo buddismo è la relazione totale della mia vita con se stessa o, in altre parole, il nome che do al legame della mia esistenza con la vita. Potrei dire genericamente vita, oppure religione per sottolineare il legame, o in tanti altri modi ancora, ma preferisco dire buddismo (soprattutto in questa sede) perché mi sembra più onesto dichiarare lo specifico riferimento orientativo cui mi ispiro: ma ciò che importa è che si tratta della totalità della mia vita che si esprime in ogni istante di essa. La materia di cui il buddismo si occupa non è un settore della mia vita, un suo periodo o una sua fase, alcuni momenti più o meno lunghi, intensi, reiterati o privilegiati di essa, non è un capitolo o un argomento nel libro della mia vita, ma tutta la mia vita nel suo complesso e in ogni suo momento.
Non però nel senso di inglobarla e ingoiarla tutta intera all’interno di un sistema preconfezionato di riferimento cui adattarla: non concepisco il buddismo come un totalitarismo dottrinale pratico e teorico, un’ortodossia e un’ortoprassi, da imparare e da applicare pedissequamente, salvo qualche inevitabile adattamento alle circostanze. Buddismo è il nome, comune e provvisorio, della non frammentarietà dei diversi tempi e luoghi della mia vita: la quale dunque, se vista sotto la metafora scolastica, non è un insieme di materie indipendenti e selezionate a bella posta, ma la “materia” di cui tutte le materie sono fatte, la “materia” delle materie, che tutte le sostiene, le lega e le giustifica. A questa “materia”, tutta presente in ogni frammento di vita, che chiamo totalità della vita, si è aperta la coscienza della vita individuale di Sakyamuni, da allora detto Buddha: da qui prende forma quell’indicazione che chiamiamo via di buddha o buddismo: che è dunque “materia delle materie” e a sua volta materia specifica, quando preso in considerazione come fenomeno (religioso, storico, filosofico, esistenziale… – il buddismo come differenziabile e differenziato dal cristianesimo, tanto per fare un esempio).
Devo insistere ancora sulla differenza fondamentale fra totalità e totalitarismo, perché è argomento delicatissimo spesso frainteso soprattutto dai religiosi: le religioni infatti tendono ad approfittare del “verbo della totalità” (che tutte in un modo o nell’altro coniugano) per occupare confessionalmente tutti gli ambiti della vita con i loro dettami. Ma ciò che chiamo totalità non è la panacea, la chiave per ogni serratura, lo schema tattico totale da applicare caso per caso, il credo salvifico professato come rimedio universale: questo è totalitarismo, quantomeno ermeneutico. Non si tratta di infilare la realtà in un disegno globale, pretendendo di averne la chiave interpretativa. La totalità invece non dipende dalla mia visione, dalla mia comprensione, dalla mia coscienza e dal mio credo: è la qualità propria della vita, in quanto ogni momento della mia vita vive totalmente, manifesta e contiene l’interezza della vita. Nessun momento e nessun luogo è al di fuori di essa: non posso separarmi dalla mia vita neppure per un istante, né posso isolare l’uno dall’altro gli istanti della mia vita: io li vivo separatamente mentre la vita li anima tutti indistintamente.
Detto in altri termini, io mi occupo di buddismo perché il buddismo si occupa di me. Si occupa di me perché è la via che descrive (nel senso di tracciare e di esplicitare) il rapporto fra la totalità indiscriminata della vita che informa ogni vita e l’individualità discriminante di ogni vita che manifesta la vita. E’ l’indicazione a vivere ogni momento come forma della totalità e la totalità come espressa nel singolo momento: non c’è attimo che non sia espressione totale, non c’è totalità se non nella manifestazione di ogni attimo. La forma è vuoto, il vuoto è forma… Samsara è nirvana, nirvana è samsara…O, per stare alla metafora linguistica evocata dal titolo di questi incontri, l’alfabeto è il risveglio, il risveglio è l’alfabeto. L’alfabeto permette a una lingua (alfabetica) di dire tutto il dicibile in quella lingua, se tolgo anche una sola lettera quella lingua non sussiste più; ma una lingua non è solo la somma delle parole che la formano, così come una parola non è la semplice somma delle sue lettere. L’alfabeto senza significato è un’accozzaglia di suoni, il significato senza alfabeto è inespresso e perduto.
Allora, il buddismo si occupa di me perché io sono la materia del buddismo e nello stesso tempo il buddismo è per me materia (di applicazione, di indagine, di studio, di fede…): giochiamo ancora una volta col duplice senso della parola “materia” nella lingua italiana. Non è un esercizio di stile, un gioco di parole fine a se stesso, ma un’occasione, che a volte la parola ha il potere di esprimere, per sintetizzare il carattere formalmente ambiguo e sostanzialmente coerente della realtà: coerenza contraddittoria dell’esistenza.
Io sono l’oggetto di cui il buddismo si occupa e un soggetto che si occupa di buddismo. Ecco dunque il senso di considerare l’identità, nell’ambito di queste lezioni. Il cuore del buddismo è il rapporto fra la vita e la mia esistenza e il cuore di quel rapporto sono io: che cos’è questo io che sono?
Scrive Dogen, nel 1233: “Imparare [studiare, conoscere] la via di Buddha è imparare (conoscere, studiare) sé stessi (jiko)”. Che cos’è questo io, questo sé, questo jiko da imparare? Il buddismo non è forse la religione del non io, del non sé, anatta, anatman, muga… Perché allora si deve imparare qualcosa che non è? Ma poi, cosa vuol dire non io? Chi è che dice “non io”? Come posso “io” dire che io non sono? Io sono l’io che non sono?
Innegabilmente io sono. Comunque io chiami o non chiami il mio esserci, io comunque sono. E sono sempre: quando veglio e quando dormo, quando mi penso e quando mi ignoro, quando agisco e quando subisco, quando godo e quando soffro… non c’è discontinuità nel mio esserci. Altrettanto, non posso cogliermi nella globalità del mio esserci, solo nella particolarità contingente: la coscienza di sé è il principio della divisione e del passaggio dall’identità all’identificazione. Io identifico me stesso nelle particolarità del mio esserci: e così facendo mi trovo e mi perdo. Mi trovo perché mi riconosco identificandomi, mi perdo perché riconoscendomi scordo l’identità fondamentale. “Imparare se stesso, prosegue Dogen, è dimenticare se stesso”. La coscienza di sé è come uno specchio: mi riconosco in un’immagine di me che parla sì del mio esserci, ma riflette e dice solo un volto fuggente. Mi posso identificare in quell’immagine di me e in essa riconoscermi solo perché contestualmente scordo tutte le altre: guardando quell’immagine di me posso dire “io sono quello” solo perché le altre sono momentaneamente svanite. Il non essere ciò che non sono è costitutivo dell’essere ciò che sono. Nella lezione buddista troviamo sia l’indicazione a tenere costantemente pulito lo specchio, a pulirlo dalle immagini riflesse che mutano incessantemente e non sono mai il volto definitivo, a pulirlo dall’immagine precedente in modo che si possa rivelare la successiva, sia l’affermazione che non c’è nessuno specchio da pulire, perché la coscienza proietta comunque immagini relative e non c’è altro volto di me che non sia quelle immagini: invano cercherò lo specchio totale perché mi ha già trovato: è la mia vita stessa.
Anatta, muga, parla di un’identità incondizionata: l’io che non è, in quanto non è un ente, non si esaurisce in nessuna delle sue infinite identificazioni: il volto originario che non è né la somma né la sottrazione dei volti. Facciamo attenzione a non dare a quest’espressione un valore ontologico, a non fare del non io un super io o il vero io. Non io è l’indicazione a non far collimare idealmente identità e identificazione: a non fare di un’identificazione specifica la propria identità tout-court, a non cercare di identificarsi in una identità ideale. Un esempio, appropriato al contesto: se affermo “io sono un monaco buddista”, proposizione contemporaneamente totalizzante e rarefatta, sto descrivendo un’identificazione di me, un’identità costruita e in costruzione (identi-ficare, l’identità facentesi) che coesiste, coopera, confligge, con altre identificazioni di me (sono un maschio, sono di una certa età, sono italiano, sono marito, sono padre, ecc. ecc.). Essere monaco buddista non è tutto di me anche se dentro c’è tutto me stesso. Non io non vuol dire che io non sono i mille volti delle mie identificazioni, più o meno fittizie: vuol dire che nessuna di esse esaurisce la profondità, l’attualità e le possibilità del “io sono”.
Qui si situa l’importanza fondamentale del dialogo: il dialogo primario, quello da cui discendono tutti gli altri dialoghi, è quello fra le diverse identificazioni di me stesso fra loro e con l’idea di un’identità incondizionata (non io) che le anima. Il dialogo delle parti fra di loro e con la totalità che compongono e che le forma. Dialogo, non rapporto dialettico: non c’è un io dialogante con un tu che produce un noi, ma una “parola” (per mantenere il simbolo “logos”, ma preferirei “vita”) che attraversa e anima io, tu noi, ogni cosa. Non c’è io primario che genera o crea io derivati: il volto è ognuno dei volti. “Dimenticare se stesso è riconoscersi nelle diecimila forme, nei diecimila volti” per appoggiarci ancora a Dogen. Qui inizia e prende forma ciò che nel buddismo occidentale viene chiamato, con molta approssimazione, “pratica”: termine riduttivo e agglutinante, che dovrebbe tradurre svariate parole (pratipatti, adhyācāra, prayoga, yogācāra…) che la raffinatezza espressiva indiana ci ha tramandato e che indicano, con ricchezza di sfumature, l’applicazione e l’ottenimento, il dar inizio e il realizzare, l’impegno e la comprensione, il passo e la meta. Ciò che con una frase un po’ ad effetto potremmo chiamare “la pratica del risveglio che risveglia la pratica” in ogni circostanza della vita, e che si concretizza come cura verso il mio mondo, responsabilità verso la mia vita e il suo percorso, conversione incessante dall’egocentrismo alla dislocazione continua del centro.
Dogen conclude così questo famoso brano: “Riconoscersi nelle diecimila cose è considerare il proprio corpo e spirito (ego) e l’altro corpo e spirito (alter) abbandonando entrambi. Questo è il segno del risveglio senza il marchio del risveglio, l’assenza di traccia che fa proseguire senza fine il risveglio” (da Shobogenzo Genjokoan). Ciò che chiamo tu, non è che un alter ego: un tu che dice io in maniera diversa da me. Non ci sono due volti uguali, e a ben vedere neppure somiglianti: ma tutti dicono io. Se mi riconosco nei diecimila volti del mio volto, riconosco io anche nei diecimila volti di tu. La differenza è immutata, abissale, ma cade ogni distinguo ontologico fra io e tu. Il conflitto non ha base d’appoggio, superiorità e inferiorità sono sbuffi di vento. Una sola rinuncia è obbligata: quella a rimirare il mio io illuminato, a specchiarmi nella mia faccia bella. Lo specchio dell’ipocrisia religiosa è in mille pezzi, ogni frammento brilla di luce propria. Narciso non si innamora più solo del volto suo bello: amerà finalmente tutti i volti che brillano sul pelo dell’acqua.
Giuseppe Jisō Forzani
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