Sab, 12 Mag 2007
Presentiamo la recensione di un libro non solo interessante ma estremamente anomalo, oltreché coltissimo, come tutte le opere del suo autore: Giovanni Semerano
UNA SERENA FILOLOGIA CON IL MARTELLO
(A cura di Dario Rivarossa)
I presocratici, questi sconosciuti. In definitiva, esistono due modi di base per affrontare il loro pensiero. O li si descrive come degli scimmioni che in modo abbastanza goffo tentavano di accozzare qualche idea a proposito del mondo; e questa è la chiave di lettura adottata da Aristotele, quindi da Hegel e ancora adesso, in genere, dai libri di testo per la scuola.
Oppure si afferma che, semmai, è stato Aristotele a non capire niente, o a fabbricare false prove contro i suoi predecessori, i quali avevano una filosofia infinitamente più sviluppata della sua. E questa è la posizione di Giovanni Semerano nel suo L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, 2005.
Un saggio che rappresenta il canto del cigno del grande filologo, scomparso anzianissimo proprio nel 2005; quarant’anni di studi raccolti in forma compatta, affascinante e toscanamente sferzante. L’equivoco a cui si riferisce il titolo riguarda…
il termine greco apeiron, di solito tradotto con “illimitato” o appunto “infinito”, e da Platone in poi è sicuramente così… ma prima? C’è infatti una famosa sentenza di Anassimandro che, nelle usuali versioni, suona: “Tutto nasce dall’infinito e torna all’infinito”, dando la stura agli sberleffi o all’ammirazione mistica degli studiosi. Ma, lingue mesopotamiche alla mano, Semerano dimostra che il significato originario del termine anche in Ionia era “polvere”, per cui Anassimandro veniva a formulare la semplice verità: tutto nasce dalla polvere e alla polvere ritorna.
Tutto qui? Anzi, addirittura “tutto qui”. Perché, reinterpretato a partire da questa chiarificazione terminologica, il pensiero frammentario di Anassimandro, snobbato dai “grandi”, si rivela come una lucida riflessione sulla condizione umana e sulle leggi dell’universo. Molto più significativa di tanta fuffa dei secoli e millenni successivi.
Semerano, grazie al cielo, non è un filologo di quelli con le ragnatele indosso ma di quelli con il martello, come Nietzsche, e con il vantaggio di possedere una serenità mentale che Nietzsche non poteva neanche immaginare. Questo libro è probabilmente uno dei più formidabili saggi sulla cultura greca antica, pieno di folgoranti rivelazioni quanto La nascita della tragedia. Semerano non si limita affatto a collegare infinite parole greche a infinite radici sumeriche o accadiche, ma, armato delle proprie scoperte, rilegge non solo la filosofia dei presocratici ma l’intera storia della civiltà occidentale. Così, miti arcinoti assumono un colore diverso che ce li fa ammirare come fossero nuovi splendenti, e personaggi che credevamo arcinoti, tipo Eraclito, diventano quasi eroi da romanzo, che ti inchiodano alla lettura pagina dopo pagina. A proposito, sottolinea Semerano: solo chi del pensiero di Eraclito non aveva la più pallida idea poteva permettersi di bollarlo come “l’oscuro”.
Dalla Grecia antica l’autore prende l’abbrivio per riflessioni, a volte articolate, a volte sotto forma di lampi, sulla filosofia in generale, la letteratura, la scienza. Incantevoli, in particolare, le riprese di tanti versi di Dante. E poi avanti, fino alla fisica di Einstein e oltre, alla teoria astronomica delle “corde a dieci dimensioni”.
Una filologia militante, che a partire da Anassimandro si introduce nell’ironia di Senofane e di lì negli aforismi di Eraclito, e trova il suo culmine nella filosofia di Parmenide, considerato il vertice assoluto del pensiero, umiliando Platone e Aristotele. Con doverosi omaggi a Emanuele Severino, il quale in quarta di copertina si scappella e restituisce la cortesia (“I libri di Semerano sono una festa dell’intelligenza”).
Questo “infinito in polvere”, con la sua impermanenza e la sua inafferrabilità, strizza a volte l’occhiolino alla visione buddista delle cose. Però Semerano non si sbilancia mai con paralleli forzati, e Shakyamuni compare solo per qualche fuggevole cenno.
Ogni tanto viene da fare qualche piccola pulce. La celebrazione dell’universo “parmenideo” si basa infatti sull’adozione di un pensiero, quello di Parmenide, sulla cui autenticità non è facile mettere la mano sul fuoco; lo ha rilevato criticamente Salvatore Natoli proprio a proposito della filosofia di Severino. A me sembra che la filosofia – non solo filologia – di Semerano potrebbe in modo pertinente appoggiarsi a quella di Baruch Spinoza. E qui, il busillis: Spinoza viene citato solo a pag. 158, attribuendogli una frase che dice l’opposto di quanto ci si aspetterebbe: “La visione del mondo sub specie aeterni è la visione di esso come un tutto-limitato”, N.B. limitato. In nota, come fonte della citazione viene indicato “Tractatus 6, 45”. Ora, al capitolo 6 del Trattato teologico-politico di Spinoza, che si occupa di tutt’altro (la polemica contro i miracoli), la frase non compare, né si capisce a che si riferisca il numero 45. Oh l’è bellina codesta, oh mica si sarà fatta confusione con il Tractatus di Wittgenstein?! (1)
Un altro punto che lascia un minimo perplessi è l’etimologia dei termini “Dio” e “Zeus”. Secondo Semerano, Dio deriva dall’accadico di’u, pietra sacra (pag. 40); Zeus proverrebbe invece dall’accadico zinu, pioggia (pag. 74). In questo modo però si stacca la parola Zeus dalla parola Dio, eppure lo stesso autore ricorda che il genitivo di Zeus è Dios (pag. 130); perfino il “Dio” iniziale di Dioniso deriva da di’u (pagg. 136-136), e allora perché Zeus no? Difficile raccapezzarsi.
Infine, qualche slabbratura nella visione del cosmo proposta da Semerano sulla scorta di Parmenide. A pag. 212, il nostro autore crea un parallelo da brivido, in senso positivo, tra la celebre “sfera” di Parmenide e l’universo di Newton, il quale prevede “un osservatore onnipresente e unico che può scorgere nella loro contemporaneità tutti gli eventi del mondo, nella loro distanza spazio-temporale, in un tempo assoluto che scorre uniforme”. A pag. 224, tuttavia, pone i due pensatori su fronti opposti: “Parmenide non avrebbe potuto concepire un tempo assoluto”.
Frammenti, frammenti infiniti. Pulviscolo di nomi, di particelle, di polvere, da cui proveniamo e a cui torniamo. In mezzo a questo pulviscolo, ecco quello luccicante prodotto dal martello di Giovanni Semerano. Anche lui, come tutto, destinato ad accendere qualche bagliore per poi reinabissarsi. Ma averne tanti, di questi bagliori!
1.La citazione è effettivamente dal Tractatus di Wittgenstein, esito a pensare però ad un errore di Semerano: o è uno stranissimo refuso oppure non escludo che l’Autore abbia voluto lasciarci un piccolo enigma. mym
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