Dom, 14 Gen 2007
Per assenza di prove
È come se Einstein venisse ricordato esclusivamente per aver detto: “Dio non gioca ai dadi”, e quindi sia nell’immaginario collettivo che sui libri di testo lo si identificasse con un propugnatore dell’universo medievale, senza mai fare cenno alla teoria della relatività! Sarebbe un bel po’ assurdo…
Beh, è proprio quello che è successo a sant’Anselmo di Aosta con il suo Proslogion. Dappertutto, il suo nome è collegato a una sola e unica idea: la cosiddetta “prova ontologica” dell’esistenza di Dio, secondo cui Dio deve necessariamente esistere, perché è perfetto. Dal monaco Gaunilone in poi, nella storia della filosofia è stato una continua querelle per stabilire se si tratti di un’intuizione geniale o di una vaccata pazzesca.Peccato che la “prova ontologica” sia solo una goccia nell’oceano del Proslogion, e che anche questo specifico argomento, all’interno del libro, venga rapidamente ribaltato. Ora, è vero che Anselmo, nel famoso capitolo II, paragrafo 2, definisce Dio aliquid quo maius nihil cogitari potest, qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande. Però, anzitutto l’uso del termine “qualcosa” dovrebbe mettere in guardia; e soprattutto, l’esistenza di Dio viene affermata non come una dimostrazione scientifica ma come un flash, un’improvvisa, inafferrabile lama di luce nella mente dell’autore.
Come se non bastasse, al capitolo XV, con un lieve slittamento delle parole latine, l’aliquid quo maius nihil cogitari potest diventa quiddam maius quam cogitari possit, un qualche cosa, più grande di ciò che possa mai venir pensato. Un mistero impensabile.
E ancora prima, al capitolo XIV, dopo avere esplorato da vari punti di vista la sua idea, Anselmo esclama: “Anima mia, hai forse trovato ciò che cercavi?… Se lo hai trovato, perché non lo senti? Perché, Signore Dio, la mia anima non ti sente, se ti ha trovato?… La mia anima si sforza di vedere di più, ma non vede altro che tenebre”.
Questa – secondo i manuali – sarebbe una dimostrazione razionale.
Le tenebre mistiche, che seguono alla luce della rivelazione, costringono a reinserire la cosiddetta prova ontologica nel più ampio orizzonte del Proslogion, opera di ridotte dimensioni ma superconcentrata.
Il libro si apre con un poemetto il cui primo verso suona Eia nunc, homuncio: “E allora, omiciattolo…”. Segue una descrizione della condizione umana in cui si parla di ignoranza, di misera sorte, di caduta, di dolore, di morte. Le iniquità, come un peso insopportabile, obvolvunt, termine che si potrebbe ben tradurre con “samsara”. Come rimedio, l’uomo viene perciò invitato a “sottrarsi al tumulto dei suoi pensieri”.
Il radicale anelito alla salvezza permea tutta l’opera. A sua volta, questo tema fa tutt’uno con la mistica a cui si è accennato. A tale proposito, il monaco Anselmo è molto meno inquadrato di quanto verrebbe da credere. Per esempio, sant’Agostino insegnava che, per ritrovare Dio, occorre rientrare in se stessi; ma Anselmo capovolge il discorso: Tendebam in Deum et offendi in me ipsum, volevo tendere verso Dio e invece sono inciampato in me stesso.
La parte del Proslogion più lontana dalla sensibilità buddista è il finale. Vi si immagina una Biologia escatologica, cioè la trasformazione della corporeità nel Pléroma (ad plenum) definitivo. Come a dire che l’universo può riservare delle belle sorprese, nei secoli dei secoli… ancora più sorprendenti della teoria della relatività.
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