Sab, 6 Feb 2010
Porto all’attenzione del dotto pubblico che frequenta questo sito, un breve testo da me composto su un tema non più eludibile. Qualche cosa di così potenzialmente distruttivo per la comunità buddista e così evidente
da aver attirato l’attenzione anche della cultura non buddista: lo scrittore Giampiero Comolli se n’è occupato di recente nell’articolo La crisi della spiritualità orientale, che -al di là delle conclusioni e delle analisi- vi segnalo per l’aver colto dall’esterno (Comolli è un valdese) quello che non molti dall’interno hanno percepito. Come sempre pacatamente, ma senza risparmiarci nulla, potremmo commentare.
Nella geografia dei buddismi giunti in Occidente, è noto che il buddismo zen proviene dal Giappone, sede di una cultura il cui tessuto sociale è organizzato su basi confuciane. In quel Paese le gerarchie, i ranghi, le cerimonie formatisi nei secoli -soprattutto alla corte imperiale cinese nella casta detta dei mandarini (1)- accompagnano lo zen come il guscio dell’uovo.
Tuttavia, mentre in una cultura confuciana è fondamentale stabilire il rango di ognuno, la reciproca posizione dei vari attori in ogni scena rappresentata sul palcoscenico della vita ai fini di determinare le forme di comportamento, nel buddismo -e ancor più nello zen- la determinazione di ruoli gerarchici non riveste alcuna importanza religiosa. In quelle culture (Cina, Giappone, Corea, Vietnam) il codice confuciano è molto antico, talmente radicato da essere un prerequisito ad ogni attività, laica o religiosa. Per esempio, già sulla stele di Xi’an (2) risalente al 781, il più antico documento scritto del cristianesimo cinese, troviamo: «Il religioso Yisi, insignito del titolo di gran dispensatore, grande ufficiale della radiosa prosperità con sigillo d’oro e cordone viola vice comandante delle divisioni settentrionali ispettore alla sala degli esami, fu onorato del kasaya (3) viola (4). [“Gran dispensatore ecc. … ispettore alla sala degli esami” era uno dei titoli più elevati durante la dinastia Tang (618-907), compariva tra i gradi di mandarinato civile indipendente, cioè ranghi della gerarchia mandarinale che non corrispondevano a cariche reali. L’uso da parte dell’imperatore di conferire il kasaya viola ai monaci buddhisti quale speciale riconoscimento è attestato a partire dalla fine del VII secolo e poco dopo fu esteso anche a monaci cristiani e manichei]» (5).
Le gerarchie -civili, clericali- tramandate sino al Giappone odierno, tutti i ranghi dei vari kyoshi (6), i colori degli okesa, dei koromo (7), i titoli dei quali si fregiano i monaci giapponesi, sono lo schema in cui ognuno è incasellato, giochi di ruolo studiati dai cinesi per posizionarsi e rapportarsi all’interno di uno schema sociale confuciano, non hanno nulla a che vedere con la religiosità di una persona. Al punto che, già all’epoca di Bodhidharma, l’imperatore conferiva cordone ed okesa viola, indifferentemente a buddisti, cristiani o manichei, per elevarne il rango, la gerarchia utilizzando gli stessi simboli usati tra i mandarini.
Chi vuole titoli, ordinazioni, cariche e riconoscimenti, chi li propone come propedeutici o addirittura indispensabili nella via dello zen, chi pensa che il buddismo zen debba avere una forma fissa, magari imitata dalla cultura sino-giapponese, offre un involucro morto, al posto della vita che sprizza sempre nuova, ora, qui in Europa. Lo zen non ha bisogno di una forma particolare. Chi è interessato a queste cose non cerca né buddismo né zen, ama piuttosto giochi di ruolo nei quali la sua identità sia definita da un titolo, da un rango che gli permetta di amministrare potere. Qual è il senso, il merito di vestire un koromo o un kimono (8) ? Dove mai è detto che nel buddismo occorre imitare una forma culturale o esprimersi in una certa lingua? Come mai vi sono italiani, francesi, tedeschi… che, poiché si dicono buddisti, vivono in ambienti arredati alla giapponese, vestiti con abiti di foggia cinese, stringendo in mano uno scacciamosche (9) confezionato con peli di cavallo come fosse un oggetto sacro? Nella pratica dello zazen coltivare il desiderio di cariche e titoli, ordinazioni e paramenti colorati costituisce un pesante ostacolo. Nel percorrere la via dello zen, per praticare sereni e riservati, occorrono solamente un cuscino, buona volontà e qualche buon amico.
Se qualcuno avrà l’ardire di vestirsi da Buddha e indossare la sua veste perché suppone che questa sia in armonia con ciò che sta vivendo, potrà cucirsela da solo proprio come fece il Buddha, senza esibirsi, con fatica e pazienza. Nessuna ordinazione sarà più valida ed efficace, nessun titolo più grande di nessun titolo.
Note:
(1) Il termine trae origine dal portoghese mandarim, “ministro” o “consigliere”. Che a sua volta deriva dal sanscrito mantrim (“saggio”, “esperto nei testi”, “consigliere”) usato per tradurre il cinese guan, 官 “ufficiale”, “funzionario”, e derivata da mantra, dalla radice man– (“pensare”, “sapere”). Cfr. http://www.etimo.it/?term=mandarino
(2) Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_assira
(3) Nome sanscrito della veste che il Buddha si cucì con brandelli di stoffa usata per coprire i cadaveri. La parola fu traslitterata in Cina imitandone il suono con due ideogrammi (袈裟) ora letti jia sha in cinese e kesa in giapponese, che diventa okesa con l’aggiunta del prefisso onorifico. Kaṣāya, letteralmente significa “ocra”, “arancione”: nella comunità antica per uniformità e parsimonia le vesti andavano tinte, per tutti, del medesimo colore, il kaṣāya appunto, usando come colorante un certo tipo di argilla pigmentata.
(4) In Cina il colore viola degli indumenti era permesso solo ai ranghi più elevati dei funzionari, o mandarini.
(5) Cfr. Matteo Nicolini-Zani, La via radiosa per l’Oriente, Qiqajon, Magnano BI 2006, 205. La parentesi quadra è in nota nel testo citato. Il “religioso Yisi” è il «mar Yazedbozid, presbitero e corepiscopo di Kumdan, chiamato anche con il nome traslitterato Yisi, originario di Balkh, nella regione centro asiatica della Battriana» (ivi 101). Yisi fu uno dei primi evangelizzatori cristiani in Cina.
(6) 教師, letto kyōshi in giapponese e jiao shi in cinese, significa “insegnante”. È usato come suffisso nel nome di una ventina di ranghi gerarchici di tipo “mandarino” del clero giapponese, ora adottati da molti europei appartenenti al buddismo zen, specialmente di scuola Sōtō.
(7) Lunga veste cinese (cfr. http://www.zabuzabu.net/gfx_content/koromo.jpg ) con ampia gonna a pieghe e maniche larghissime, usata dai buddisti giapponesi ed ora dai loro imitatori occidentali. L’ideogramma 衣 (letto koromo in giapponese e yi in cinese) significa “vestito” sia nell’accezione di “indumento” sia in quella verbale.
(8) Adattamento giapponese di abito, per lo più femminile, di foggia cinese, ora usato come sotto-abito da molti buddisti europei.
(9) In giapponese hossu, 払子, (cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Hossu), scacciamosche in uso nell’antica Cina, ora oggetto rituale presso i buddisti giapponesi.
57 Commenti a “Pantomima 2: la stagione dei mandarini”
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6 Febbraio 2010 alle 7:11 pm
>nessun titolo più grande di nessun titolo
… e Non-Nome più valido di qualsiasi nome !!
😉
🙂
😀
6 Febbraio 2010 alle 7:16 pm
Amen!
7 Febbraio 2010 alle 3:04 am
Cheers Maestro!
Ma anche tu ultimamente hai letto l’anticristo di Nietzsche?;)
Scherzi a parte, e me ne scuso, a questo punto non farei che chiudere tutti questi discorsi, per limitarmi alla pubblicazione dei luoghi e giorni in cui sedersi.
Ti chiamo maestro non perchè qualcunque cosa tu dica sia oro colato.. ma perchè che tu voglia o no hai una maestranza maggiore della mia in certe tematiche.
Con affetto,
Rune
7 Febbraio 2010 alle 11:41 am
L’Anticristo di Nietzsche? No, non sono mai riuscito a leggerlo. Capisco cosa vuoi dire, purtroppo pubblicare solo luoghi e giorni non basterebbe. Siamo animali complicati e anche il mantenere semplici le cose semplici è un affare complicato. Però, soprattutto giocando pulito, è anche abbastanza divertente, no? Ciao, mym
PS: per la tua (e la sua) “salute” ti consiglio di non chiamare nessuno “Maestro”. Tra l’altro, in quest’area, l’ultimo è finito in croce.
8 Febbraio 2010 alle 12:56 am
L’aspetto interessante di tutta questa faccenda, per quanto mi riguarda, è che; quanto si constata che il re è nudo, tanto tocca imparare a pensare ed agire come un re.
8 Febbraio 2010 alle 12:16 pm
… che poi è il finale di “1984” di George Orwell.
Il grande Doc con il suo inquietante humour…
8 Febbraio 2010 alle 12:22 pm
Ho letto col consueto grande interesse la tua pagina e quella di Comolli, senza però riuscire a mettere a fuoco del tutto se tu concordi, e in che misura, con quello che dice lui. In realtà anch’io penso che nei decenni scorsi l’interesse grande per le dottrine orientali sia sorto in gran parte proprio per il loro essere “diverse” rispetto a una cultura cui ci si sentiva vincolati per educazione, tradizione, imposizione, e si voleva rompere con le tradizioni che uno si trovava offerte bell’e pronte e imposte da tutto il “sistema”. Credo che in gran parte, per molti, il fascino dell’esotico prevalesse sulla reale adesione a una dottrina e che, nel Buddismo in particolare, piacesse la mancanza del principio di autorità, dell’essere supremo, di una dottrina particolareggiata che regolasse ogni momento della vita e anche i pensieri. Non per tutti, ovviamente, ma certo per molti il fascino dell’Oriente ha giocato la carta vincente. Questo ora è finito, l’Oriente si è occidentalizzato e la sua voce suona molto simile a quelle che siamo soliti sentire… Cosa ne dici? Ciao. Cristina
8 Febbraio 2010 alle 12:29 pm
Comolli l’ho citato non per i contenuti ma perché se un autore valdese ha sentito l’esigenza di occuparsi del “problema” vuol dire che il cattivo odore si è sparso ben oltre le stagnanti acque buddiste. All’interno delle quali, invece, pare che si preferisca turarsi il naso piuttosto che scoperchiare il verminaio. Il buddismo non è Oriente, almeno non più di quanto il cristianesimo sia -tout court- Occidente, il fascino anarcoide che si percepiva, perché vi è connaturato, nel buddismo zen, non ha nulla a che fare con l’Oriente, tant’è che Cina prima e Giappone poi hanno ingabbiato lo scugnizzo, temendo facesse guai.
8 Febbraio 2010 alle 12:45 pm
Ciao,
trovo una certa ripetitività nella tessitura di questo ordito.
Tuttavia, penso che quanto ho letto nell’allegato voglia preludere a un linguaggio diverso da quello ordinario.
Sento che c’è un forte desiderio di non aderire a quella forma a quel linguaggio ritenuti appannaggio di altre storie diverse e lontane dalla nostra non solo geograficamente.
Tuttavia, chi usa un linguaggio ordinario non dovrebbe essere criticato nel senso ordinario del termine, penso che ognuno possa essere libero di parlare la lingua che più gli aggrada o gli corrisponde.
Se uno si sente affine a una modalità esistenziale, quella perseguirà e a nulla serviranno le critiche.
Io ho un figlio di 24 anni e per quanto mi sia sforzato di insegnarlgli a rapportarsi in un certo modo con l’esistenza, lui continua a fare, naturalmente, di testa sua con tutti i pro e i contro del caso. Tuttavia, ho potuto verificare che una possibilità di comunicazione e relazione con lui si produce solo con il mio fare, il mio esempio, quello lo elabora, lo considera, può anche farlo suo, e non quello che dico per quanto realistico e razionale possa essere.
Questo per dire che non credo che il dibattito sulle cosidette “pantomime” possa sortire un qualche effetto positivo ai fini dell’approfondimento del Dharma e dello zazen dalle nostre parti. E in definitiva ripeto, ognuno è libero di adottare il linguaggio che a lui è più affine, se altri lo troveranno adottabile procederanno per il loro cammino…che può darsi non giunga in nessun posto…ma ognuno non può che percorrere il suo karma, anche dentro allo zazen. E lo zazen non è contaminabile nè dagli usi cino-giapponesi, nè dagli usi europei. In definitiva, se non si trova propedeutico aderire a una forma, a una esperienza ritenuta troppo connotata, se la si ritiene un ostacolo sul proprio e altrui cammino realizzativo, l’unica via d’uscita non è provare a cambiare gli altri (impossibile comunque), ma partire sempre da se stessi, vale a dire dare forma ed espressione alla propria modalità religiosa senza curarsi troppo delle pantomime altrui, eterne in ogni modalità vengano a porsi in essere.
Nel Dharma.
Nello Genyo
8 Febbraio 2010 alle 12:50 pm
Sono d’accordo due volte: è un problema esistenziale ben prima che religioso quello che pone di fronte alla scelta se dedicare la propria vita a correr dietro ad una … sottana oppure
qualcuno vuol suggerire un’alternativa?
E poi: senza esempio di vita le parole diventato chiacchiere.
8 Febbraio 2010 alle 2:59 pm
Vedo che doc (5) sostiene che la nudità del re lo fa più re ancora: interessante. Sarà perché per nudi che si sia non lo si è mai abbastanza,
stante che anche il corpo è, in fin dei conti, un abito?
8 Febbraio 2010 alle 7:32 pm
Ciao Nudelook, benvenuto. Conosco doc per cui azzardo: il re che è nudo era re per l’abito (le pinzillacchere). Il pensare ed agire come un re è il… uuuh, come si dice, la … il coso lì, l’uomo interiore insomma, che -liberato dagli alibi- finalmente sboccia, libero e solo come un rinoceronte. O come un re.
9 Febbraio 2010 alle 2:31 am
Grazie mym. Però anche vederla come Nudelook – che la nudità del re lo fa più re ancora – è molto intrigante e a suo modo poetico. Solo che cambia un po’ il discorso.
9 Febbraio 2010 alle 10:37 am
Prego. Non credo che Nudelook intendesse esattamente così, ma, se azzardo finisce che qualcuno pensa che mi impiccio, e la cosa gli potrebbe essere nociva.
9 Febbraio 2010 alle 3:08 pm
Bello, si potrebbe lasciare così, con interpretazioni appena accennate, una eccentrica rispetto all’altra. Volendo però (ri)stabilire il senso della mia uscita, questo intendevo dire: se è l’abito a fare il re, tolti tutti i vestiti resta pur sempre il corpo nudo, che è un abito anch’esso, giovane o vecchio, sano o malato… – corpo di re perché senza alibi, credevo volesse dirci doc. La regalità allora consiste forse nell’indossare abiti il più semplici possibile, che vestano senza mascherare. O forse la nudità del re è togliergli lo specchio, più che i vestiti…
9 Febbraio 2010 alle 4:47 pm
Trovo su un giornale cattolico regionale:
>Racconta Carla, che ha una nipote affascinata dal buddismo: “Purtroppo, in giro, c’è troppa cattiva letteratura su Gesù e la Chiesa, gente che non lo conosce e si ostina a rimanere nei propri pregiudizi”.
Suggerirei alla nipote di Carla di tenerselo stretto, il buddismo, perché “purtroppo” la Chiesa non si è mai posta il problema della pantomima…
9 Febbraio 2010 alle 5:31 pm
Per ritornare all’argomento iniziale – o meglio come io l’ho inteso – la ‘pantomima’ è metaforicamente la forma che il Grande veicolo ha preso in questo periodo storico. Se questo è vero il re, cioè il veicolo, è mascherato dai scintillanti abiti dei suoi ministri, ovvero dalla ‘pantomima’. Ora, mym lo ‘smaschera’. Il re è nudo. I figli e figlie di buona famiglia che sinceramente si rivolgevano al veicolo (mascherato) per entrare nella corrente del risveglio, si ritrovano ad appoggiarsi su un veicolo denudato, che mostra adesso la sua vera natura. Che è quella della vacuità. Dunque non ci sono ministri, non ci sono maestri. Il gioco dei ruoli è effimero. Non c’è nessuno che possa dirci cosa fare, come pensare ed agire; nessuno che possa ottenere il risveglio per noi e servircelo preconfezionato in virtù della nostra adesione e sostegno ad una ‘chiesa’; del nostro farci ‘discepoli’ di qualche sottana illuminata.
Tolto l’abito della pantomima, il re è nudo: ed allora sono cavoli nostri. Se vogliamo entrare nel veicolo buddhico, se vogliamo ereditare la regalità del Buddha, dobbiamo agire in prima persona, smettendo di delegare ad altri la nostra salvezza, e farci re (di noi stessi) con le nostre sole forze. Per dirla con le parole dei patriarchi, lasciar cadere corpo e mente.
Compito immane! Cosa rimane a sostenerci? Una idea-forza (il Buddha), le orme di chi ci ha preceduto (il dharma) e i buoni amici (il shanga).
9 Febbraio 2010 alle 5:55 pm
>Cosa rimane a sostenerci? Una idea-forza (il Buddha), le orme di chi ci ha preceduto (il dharma) e i buoni amici (il shanga)
… e fiaschi de vin
9 Febbraio 2010 alle 5:57 pm
Basta che sia…vin santo.
9 Febbraio 2010 alle 5:59 pm
dr sei un bestemmiatore. E dico poco se dico poco.
9 Febbraio 2010 alle 6:07 pm
Doc, la tua interpretazione della pantomima ti fa onore. Tu pensi ad una allegra congrega di persone che, sinceramente, senza aver mai neppure dubitato di star facendo coglionate spacciate per insegnamenti religiosi, ha rivestito quel povero veicolo con le sottane attuali. Da mal fidente qual sono, penso che vi siano sì eccezioni ad un semplice andazzo ciabattoso e sciatto (in senso religioso e con tutto il rispetto, naturalmente), ma che siano proprio eccezioni.
9 Febbraio 2010 alle 6:22 pm
>sei un bestemmiatore
“Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando: Buon Vulcano, aiuta, aiuta!,
sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza,
non ne potrebbe aver vendetta allegra”.
(Chi era già? Alan Lasting, se non erro per una selva oscura…)
9 Febbraio 2010 alle 6:27 pm
A mym. Nessun onore, sai che so essere malizioso Q.B. Ma tu m’insegni <<...persino in quel tempo (del crollo della buona dottrina), Subuthi, ci saranno Bodhisattva dotati di buona condotta, di qualità virtuose, dotati di sapienza e che...comprenderanno la verità (di questo sutra)>>.
Parola di vèrita. Osi tu dubitare?! :-\
9 Febbraio 2010 alle 6:38 pm
Lo sventurato rispose: sì.
9 Febbraio 2010 alle 6:42 pm
(22): abbi pazienza dr/Alan, ma non ci capisco un’acca. Muta, naturalmente.
9 Febbraio 2010 alle 7:18 pm
sono le parole del bestemmiatore Capaneo all’inferno: “Scagliami pure addosso tutti i fulmini che vuoi, io non mollo!”
😀
9 Febbraio 2010 alle 8:40 pm
Fulmini finiti, va bene qualche accendino?
9 Febbraio 2010 alle 9:10 pm
L’accendino non servirebbe, perché, in perfeto Nagarjuna-pensiero…
Questa non è una pipa.
http://www.artsci.lsu.edu/phil/philo/fs_Magritte_Pipe.jpg
9 Febbraio 2010 alle 9:12 pm
Già. Il “problema” è ben posto, ma la strada è ancora lunga. Minimo minimo occorre fare un altro paio di passi: una domanda e una qualche risposta.
9 Febbraio 2010 alle 9:15 pm
Quando ho incontrato lo zen, non ho incontrato solo una pratica ma anche un modello interpretativo di me,della realtà, della vita.
Stare davanti al muro è stare davanti alla vita che accade, essere vita che accade: la portata di questa affermazione la si comprende solo nel tempo,
man mano che i processi interiori accadono lo sguardo cambia, si fa più profondo e meno condizionato.
Ci sono molti passaggi, molte stagioni nella vita di comprensione di una persona la quale si afferra, lungo il cammino, a molte “verità” transitorie.
In fondo non è altro che l’incontrare modelli interpretativi di sé e della realtà, accoglierli o respingerli, calarvisi dentro e sviscerarli, o lasciarsi appena sfiorare.
Ciò che si presenta nel nostro quotidiano viene interpretato alla luce del paradigma dentro al quale ci si sta calando: quel paradigma offre degli strumenti di lettura di sé e se si ha ancora bisogno di una definizione della propria identità, si piegherà il paradigma alla propria necessità; se si sta coltivando un abbandono radicale si utilizzeranno gli aspetti del paradigma che sono utili per quella fase.
Un paradigma è sempre abbastanza vasto ed elaborato da poter corrispondere alle esigenze della persona sia quando questa si stà edificando come individuo, sia quando va verso la scomparsa del suo esserci distinto e separato. Che allora esistano forme, pratiche, simboli, riti, concetti e filosofie, psicologie e teologie, libri sacri e libri profani, ruoli e funzioni, è nelle cose.
La vita delle persone è costituita di tutto questo e a questo esse sono più o meno attaccate, più o meno identificate: possono farne a meno?
Può fare a meno il bambino del suo corpo bambino? Può fare a meno l’adolescente della sua psiche adolescente? Posso farne a meno io? Ogni giorno mi misuro con un perdere, un lasciare andare; ogni giorno osservo parti di quell’uomo che è stato che scompaiono ed osservo ciò che resiste.
E’ possibile un paradigma che proponga solo la resa e l’abbandono? Direi proprio di si, ma sarà utilizzato da persone che sono in un divenire, che da un lato hanno necessità identificative di sé e dall’altro vivono questa necessità di togliere: quelle persone si attaccheranno a qualcosa, anche nel niente, e attraverso l’insegnamento che il loro attaccamento produrrà avranno una occasione per andare oltre.
Passaggio dopo passaggio, quello sguardo presente sulla realtà, quel continuo lasciar andare, diventano un consapevole lasciar andare l’interpretazione che noi diamo del reale. Ma se muore l’interpretazione, muore l’individuo: quando c’è solo l’accadere e nulla viene aggiunto alla realtà, allora e solo allora, esiste soltanto quel che è.
Credo che la via sia questo incedere di interpretazione in interpretazione finchè, dentro di te, sorge un silenzio, accompagnato da uno stupore: ti rendi conto che sulla vita che accade non hai più niente da aggiungere.
Chiaro che a questo punto non c’è più colui che si interpreta come il discepolo, come il monaco, come il maestro: scompaiono i gesti, i riti, le vesti, i libri, le parole.
Altrettanto chiaro che quegli occhi non vedono più alcuna via, alcuno zen, alcuna pratica.
Che cosa rimane?
La vita.
10 Febbraio 2010 alle 11:21 am
Direi che così è più che sufficiente. Però c’è un però. Da sempre, per vocazione e per inevitabilità, la Stella si propone (anche) come indirizzo generale. Per cui non solo per ciò che è sufficiente ma per ciò che esubera. Ed esubera di modo che il gioco continui. Se non avanza non basta, dicono nelle Marche… Per usare la metafora proposta da doc, una volta che tutti i re sono nudi, se voglio che il gioco continui servirà comunque una bandiera da sventolare (“Hei! Siamo qui!”) e una forma di comunicazione (non finalizzata ad una lettura della realtà, alla definizione di identità ecc.) affinché il gioco riproduca se stesso. Qui la “cosa” si fa molto difficile: tutti son chiamati a collaborare, non è alla portata di tutti.
10 Febbraio 2010 alle 7:26 pm
Appunto. Il re nudo è pure invisibile, se nudo è davvero, perché è re di niente, un niente di re. Ma nulla vale occuparsi del niente, per cui, per inevitabile vocazione, ecco che ci riguarda il resto di niente (l’avanzo di cui parla mym). Cercasi dunque una sottoveste per il re, magari trasparente il più possibile, facile da mettere e da togliere, ma pur sempre (ri)conoscibile come abito (con tutte le implicazioni etimologiche). Roba da sarti sopraffini: qui comincia l’avventura…
10 Febbraio 2010 alle 8:28 pm
Ciao Nudelook, in effetti il gioco è aperto e tale dovrebbe restare. Il primo che dice “è così” è il primo da spogliare. Se sotto al vestito si troverà qualcuno sarà nuovamente nudo.
10 Febbraio 2010 alle 10:32 pm
Buongiorno! Intervengo in merito al tema della cucitura dell’O-kesa, sperando che il mio commento non arrivi troppo tardi, essendo rimasta per alcuni giorni senza connessione a Internet. Vedo che la discussione ha preso pieghe e risvolti inaspettati, ma, se permettete, desidererei tornare all’argomento della cucitura dell’O-kesa.
Ringrazio molto mym per l’interessante documento – che, combinazione, ho letto rientrando a casa dopo una giornata di cucitura al nostro dojo – e sono d’accordo su gran parte delle sue affermazioni; anche perché non sarebbe ragionevolmente possibile affermare il contrario.
Mi ha lasciata, invece, alquanto perplessa l’ultima, e cioè l’invito a cucirsi da soli la propria veste, avvalendosi di indicazioni ricavate dal web. È vero, il Buddha si è cucito da solo la propria veste, ma era solo anche durante la meditazione sotto l’albero della bodhi, e nei nostri centri s’insegna che lo zazen è una pratica individuale, ma che è bene, almeno di tant’in tanto, sedersi insieme ad altri. Anche la cucitura dell’O-kesa è una pratica, e le sue modalità vanno al di là delle culture che ha attraversato in due millenni e mezzo di storia; da tutte ha assorbito qualcosa, e sicuramente col tempo sarà influenzata anche da noi. Per esempio, noi non cuciamo in seizà nel dojo (com’è normale in Giappone), ma seduti sulle sedie a un tavolo, e questo è già un primo apporto.
L’idea, poi, di mettersi davanti a un video per avere indicazioni su come cucire, mi sembra davvero peregrina! Nel momento in cui ci sono persone che apprezzano questa pratica, e trovano qualcuno, un amico/a, che abbia già esperienza in merito, perché dovrebbe essere “esibizione”, “vanto” riunirsi per praticare insieme? Non è meglio avere a che fare con persone, piuttosto che continuare ad alimentare il nostro solipsismo epocale, limitandoci a confrontarci con un computer?
Certo, quanto sto dicendo riguarda essenzialmente la cucitura degli O-kesa, non l’uso dei kimono e dei koromo – che, sono d’accordo, per l’occidente andrebbe riconsiderato -. Ma anche in questo caso, come pure per il codice cromatico tradizionale degli O-kesa, ritengo che sarebbe utile una decisione che riguardi tutti i centri dello Zen Soto occidentali, o perlomeno europei.
So che mi sto rivolgendo a un pubblico di praticanti, molto sinceri e determinati, ma perlopiù convinti che il microgruppo sia assolutamente preferibile ai grandi centri e alle istituzioni inglobanti e, quindi, condizionanti; in parte concordo, purché, però, non si cada nell’individualismo a tutti i costi. Ora, fermo restando il principio di base secondo cui, come scrive mym: “Nella pratica dello zazen cariche e titoli, ordinazioni e paramenti colorati sono pesanti ostacoli. Nel percorrere la via dello zen, per praticare sereni e riservati, occorrono solamente un cuscino, buona volontà e qualche buon amico”, non ci si può nascondere il fatto che lo zen in occidente sia ormai costellato di tantissime e variegate realtà, e che tra queste realtà ci siano sempre più occasioni di scambio e conoscenza, che è spesso motivo di arricchimento reciproco. Adottare, quindi, un codice comune, non mi sembra né negativo, né secondario.
Che, poi, la mente umana si attacchi a qualsiasi cosa, anche a “cariche”, “titoli”, “ordinazioni” e “paramenti” – ma non solo, anche l’essere “contro” o “alternativo” a tutti i costi è della stessa natura – per distinguersi e autoaffermarsi, è un dato di fatto. Ciascun praticante può riconoscere nel proprio percorso fasi in cui è rimasto sviato da tali o simili abbagli, e per rientrare nel “retto intendimento” il rapporto con maestri/insegnanti/anziani/buoni amici esperti, o che dir si voglia, è molto importante.
11 Febbraio 2010 alle 8:06 am
Avvolto nel mio mantello di stelle esco dal 1904..(Per la serie ‘vacanze’ romane:7 days without thecnology;).Chi ha poca dimestichezza con il platonismo non capisce la ‘speculazione’ mondiale sul concetto di Dio (specie se non legge l’Anticristo). Nobilitare Dio affermando che non esiste è cosa inconsulta ed asiatica. La teologia occidentale – a parte quella ufficiale – inchioda il concetto alle sue responsabilità: Dio ben meritava l’esistenza e l’esistenza ben meritava Dio.
11 Febbraio 2010 alle 8:09 am
L’intuizione istantanea o satori è un lampo improvviso.Penetrare intellettualmente la dottrina del Buddha non è l’importante:l’’illuminazione’ è un fatto personale.Il punto è la ‘ragione sociale’ dei centri che esistono solo in quanto soggetti di diritto e titolari di interessi(economici). Insomma senza un’attività commerciale non c’è ‘vita’ .In termini più rigorosi: il codice civile fascista del 1942 non consente il riconoscimento normativo di una dimensione sociale capace di produrre servizi e prestazioni di “benessere” finanziariamente insostenibili dallo Stato(l’art. 3,co.II della Cost. è lettera morta).Assodato che questi “corpi intermedi” abbisognano di organizzazioni gerarchiche e pantomime quid iuris quando vengono gestiti in modo irrazionale e poco trasparente?Non è che il buddismo è in crisi piuttosto è lo stato di diritto in putrescenza.
11 Febbraio 2010 alle 8:10 am
Il buddismo è inconciliabile con la dimensione dell’io. Se si accetta che L.S.D. e i Beatles hanno avuto un ruolo determinante per il successo del buddismo in Occidente converrete che il dibattito sulla tossicofilia è insulso e fuorviante. Povero amico Morgan..Se Baudelaire è il poeta del male io sono un santo..
11 Febbraio 2010 alle 11:03 am
Cara Chiara (34), grazie per il tuo commento articolato. Sono ben lieto se laddove qualcuno abbia deciso di vestirsi da Buddha approfitti, per confezionarsi la veste, di un gruppo che pratica la cucitura. Qui mi esprimo via web e questo strumento ho usato. Riguardo invece a “in questo caso, come pure per il codice cromatico tradizionale degli O-kesa, ritengo che sarebbe utile una decisione che riguardi tutti i centri dello Zen Soto occidentali, o perlomeno europei” diciamo che saremmo d’accapo. Oppure, forse, che Chiara non ha compreso la “portata” del mio discorso.
11 Febbraio 2010 alle 11:26 am
Ciao Homosex, arrivi a ondate, tu… Me ne corre di puntualizzare il tuo 35: l’Asia non professa la negazione del Nostro, diciamo che si occupa d’altro. Riguardo poi al Suo meritarsi o meno l’esistenza questo è uno dei classici problemi di cui noi, per una volta filo-asiatici, non ci occupiamo. Riguardo al 36 sono totalmente d’accordo, al rovescio: ritengo che satori, illuminazioni et alia siano così poco importanti che di quelle si potrebbe far commercio istituendo autorità che certifichino e asseverino, maestri che insegnino ecc. Lascerei quindi la ragione sociale dei “centri” libera da tale ingombrante incombenza, epperciò semplificando la loro attività alla pratica dello zazen, allo studio dei testi ed al sostegno reciproco. Il 37 è malandrino ma, riassumendo, consiglio vivamente di non far uso di droghe, qualsiasi sia la “carriera” che si intenda intraprendere.
11 Febbraio 2010 alle 11:57 am
Lo noto ora: se, come dice Chiara (34), siete “perlopiù convinti che il microgruppo sia assolutamente preferibile ai grandi centri” be’, ragazzi-ragazze, siete una banda di pisquani. Con tutto il rispetto, naturalmente.
12 Febbraio 2010 alle 9:47 pm
A proposito di paramenti. Che differenza fa se uno si siede in zazen a piedi nudi o con le calze di lana? Bisogna per forza gelarsi per essere dei buoni praticanti?
13 Febbraio 2010 alle 3:13 am
Ciao mym,mi piace il surf..I Paradisi artificiali di C.B. sono una apologia del vino(non degli ubriaconi).Il giudizio sulle droghe è netto.Pesco a caso: “l’hascisc è inutile e pericoloso”(Garzanti 2000 pag.43).Che la droga faccia male non c’è nemmeno bisogno di dirlo; è un tipico enunciato della responsabilità che non serve a niente..
13 Febbraio 2010 alle 3:14 am
.”La storia intima dell’uomo è fondata sulla successione degli stupefacenti” – è un tipico enunciato dell’irresponsabilità che spiega l’allucinato secolo XX e getta la luce sulla demenziale cultura europea di oggi.Tuttavia C.B. si ingannò quando affermava che il male è il limite oltrepassato il quale non si crede più a niente.Io preferisco dire che il mondo ci è contro, ma questa è un’altra storia..
13 Febbraio 2010 alle 3:15 am
Dunque se l’illuminazione non vale 2 lire non la commercio;una decorosa ragione sociale sarebbe, esemplificando, una economia solidale che parta dal basso – per dire. “E mò chi jo spiega ar prete er concetto de upaya?”. I sempiterni principi costituzionali non si attuano perché l’ordinamento non da una risposta positiva alle nuove forme di bisogno sociale generate dall’evoluzione socioeconomica.Per essere criptici: IL LIBERISMO HA I GIORNI CONTATI e i cinesi sono comunisti (Però ‘noi’ lo sappiamo).
13 Febbraio 2010 alle 3:18 am
Ho capito! Ogni X commenti ZZZANG TUMB TUMB ammutinamento di cento echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all’infiniiiiito dal centro di quel zzzang tumb tumb spiaccicato (ampiezza 10 cmq circa) tagli pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia re-go-la-ri-tà strani folli agitatissimi acuti della battaglia Vedi Probabilmente me la pratico la poesia, in ogni caso, praticamente così: anch’io sogno di sprofondarmi dentro un assoluto anonimato,:(e questo significa,credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,):
13 Febbraio 2010 alle 11:29 am
Uiiiii, ciao Isabela, ben tornata. Quel “batterie tiro rapido” mi ha riportato alla gioventù. Chissà dove hai “fatto” il militare, tu. Un militare se lo son fatto quasi tutti… Ogni X commenti, dici. Secondo me è più complesso, ma se hai ragione son contento.
14 Febbraio 2010 alle 11:22 am
Homosex, non è che ci sia propriamente un tema, me se tu e Isabela continuate ad andar per le fresche frasche vi censuro. Augh
14 Febbraio 2010 alle 11:28 am
Ciao Cristina (41), in realtà non lo so perché sia “meglio” sedersi senza calze. Io (e non sono il solo) mi trovo meglio, ma questo non basta, penso. Si può arguire che da quando il Buddha ha asseverato quella posizione (a piedi nudi, comunque) la cosa ha immediatamente iniziato a decadere. Tra le poche cose a cui possiamo rimanere aggrappati in questo continuo processo di decadenza vi è la forma. Tuttavia occorre notare che, normalmente, quando ci si siede a gambe incrociate non accade che i piedi si freddino anche quando la temperatura è bassa.
14 Febbraio 2010 alle 12:28 pm
Se dal relativismo passiamo alla relatività possiamo incontrare qualche “punto fermo”(48):la postura e il significare, la domanda sempre aperta, come dimensioni della pratica in cui ci riconosciamo.
Tra negare e affermare c’è, penso, l’esserci della nostra pratica.
Chiedo al “maestro”-guida-esperto-responsabile del sito-..:avvicinarsi al buddismo, riconoscersi nel buddismo(o almeno in questa forma di pratica “religiosa”)non è, come ogni domandare, già ri-conoscere?
In questo processo esistenziale in cui nessuno possiede Verità, possiamo individuare almeno un rapporto con l’errare e con l’errore.
In questo procedere c’è “l’esperto” dell’errare,cioè colui che ha già fatto un sacco di errori.
Riconoscere “l’esperto” non è beatificarlo, ma riconoscere il senso di un certo percorrere.
Concludo: non è un problema di titoli (qualche parola per capirci la dobbiamo pur usare), ma di universalità del significato (significare) nel buddismo; tradotto: lo sotozen ufficiale sà “che cosa vuole”, “dove stà seduto”?
Tra anarchia e diplomificio mi sembrava esserci quel “mani vuote” e “ritorno al paese natio”, almeno credevo di averlo riconosciuto in qualcuno..
14 Febbraio 2010 alle 12:30 pm
Ciao Dario. Provo a rispondere alla tua domanda. Direi che se è un ri-conoscere allora possiamo fare a meno di usare il termine buddismo. Postura e domanda aperta. Contro chiacchiere e distintivo, se mi si consente.
14 Febbraio 2010 alle 1:58 pm
La mannaia del censore ha eliminato ben tre commenti (Homosex e Isabela). Quando ce vo’ ce vo’, diceva (in maghadi) pure il Buddha..
14 Febbraio 2010 alle 5:12 pm
Caro Mym,
intervengo ancora nell’agone (anche se, a quanto vedo, viaggia per plaghe che esulano completamente dall’argomento iniziale) per chiarire un probabile equivoco.
Non ho capito la battuta:
“… se, come dice Chiara (34), siete “perlopiù convinti che il microgruppo sia assolutamente preferibile ai grandi centri” be’, ragazzi-ragazze, siete una banda di pisquani. Con tutto il rispetto, naturalmente.”
Se, come temo, intendevi che da parte mia ci fossero intenti sarcastici o denigratori, tengo a precisare che non è così. Semplicemente, volevo dire che in un piccolo gruppo di praticanti che non ha, e non vuole avere, rapporti con altri gruppi e, tanto meno, istituzioni “superiori”, è ovvio che se uno di loro vuole dedicarsi alla pratica della cucitura, userà la stoffa che riterrà più opportuna (anche verde a pallini viola, se troverà una partita di stracci siffatti sulla strada del cimitero … ). In centri più grandi, invece, e in rapporti con altri centri e istituzioni, se l’intendimento è che il codice cromatico tradizionale non abbia ragion d’essere, e che il ruolo all’interno del sangha (ristretto o allargato) di ogni praticante non debba essere manifestato dal colore dell’O-kesa che indossa, mi va benissimo, purché sia una decisione unitaria. Altrimenti, diventa fonte di continui fraintendimenti, commenti, discussioni, e finisce per assumere un’importanza esagerata, che non è proprio il caso che abbia. Piuttosto, è meglio mantenere la situazione attuale.
14 Febbraio 2010 alle 5:33 pm
Ciao Chiara, confesso che mi cogli impreparato, ci penserò.
14 Febbraio 2010 alle 5:37 pm
Caro Mauricio, grazie del contatto che continui a mantenere con tutti noi. Non so bene chi siamo ma so che tu continui a mantenere i contatti e mi sembra una cosa bella.
Ora mi è venuta una perplessità che sicuramente tu saprai chiarire. In quella deliziosa paginetta sui Mandarini, mi sembrava di aver capito che chi segue lo zen non ambisce, né cerca, né ha motivo di avere cariche di alcun tipo. Allora (mi riferisco al post in home oggi, 14 febbr. ed alla mail inviata alla mail list della Stella) che senso ha “Direttore dell’Ufficio Europeo del Buddismo Soto Zen di Parigi”? Ovvero “Direttore responsabile di”? Grazie delle spiegazioni che saranno sicuramente esaurienti.
Renata
14 Febbraio 2010 alle 5:45 pm
Ciao Renata, benvenuta. Neanch’io so bene chi siano quelli a cui mi indirizzo con la mail list della Stella: ho trovato negli archivi della Stella un tot di indirizzi (circa 300 inizialmente, ora più o meno 230) ed uso quelli sperando di non disturbare.
Il senso di Direttore ecc. a Parigi potresti chiederlo direttamente a Jiso però posso risponderti in quanto “Direttore responsabile della Stella, Kokusai fukyosi (insegnante diffusore) del soto zen, monaco con il rango (kyoshi) di insegnante ecc. ecc.”: non c’è uno di questi titoli che abbia voluto, cercato ma sono tutti appioppati o d’autorità o perché “tocca a te, per cui… pedalare”. Il problema non è il titolo ma il rapporto col medesimo. Se stai cercando il modo di liberartene allora sei la persona adatta a portarlo. In questo caso, però, un titolo non è un rango o uno status, bensì una funzione.
14 Febbraio 2010 alle 9:05 pm
E poi, vogliamo trovare il coraggio di dirlo una volta per tutte? Sono meglio i mandaranci.
16 Febbraio 2010 alle 7:24 pm
Cara Chiara, ci ho pensato e provo a risponderti (52-53): se qualcuno, per conto proprio, decide di cucirsi una veste, un manto, penso possa farlo in libertà. Se per imparare a cucire intende rivolgersi a un gruppo che pratica la cucitura, all’interno di quel gruppo rispetterà le indicazioni che riceverà. Se poi, dopo aver imparato a cucire, pur avendo appreso le regole dei colori secondo quel gruppo, vorrà usare altri colori, suppongo che possa farlo in libertà. La veste del Buddha non ha un colore particolare.