Sab, 5 Dic 2009
Passato il clamore sulla sentenza della Corte Europea che vieta il crocefisso nelle scuole dell’Unione, pubblichiamo sull’argomento una riflessione edita, alcune settimane or sono, da padre Luciano Mazzocchi, amico, fratello, cristiano. L’uso dei simboli non ricondotti alla loro essenza e funzione non è religione: in hoc signo vinces fu un grido di guerra, non di pace.
Il Vangelo di questa domenica, Luca 23,36-43, richiama la sentenza della Corte europea che ha proibito il crocefisso nelle scuole. Subito affermo che la questione mi tocca molto poco, nel senso che tra il crocefisso sui muri delle scuole e quello della vita testimoniato dal Vangelo passa un’enorme distanza, a meno che il crocefisso sui muri della scuola abbia cambiato la direzione della vita a qualche professore o studente, per esempio abbia trasformato i sentimenti di razzismo in sentimenti di fraternità, o abbia convertito la tentazione alla droga in gioioso spirito di impegno. Il crocefisso che non cambia la vita non ha rapporto con quello del Vangelo.
Sento insulsa e disonorante la reclamata separazione nei comportamenti di una persona in privato e in pubblico,
come se un uomo possa essere frivolo nel privato e serio nel pubblico. Ci fosse, sarebbe una persona schizofrenica e falsa in ambedue gli ambiti. In ogni uomo scorre un solo flusso di energia che anima la sua vita spirituale, sociale, artistica. L’aver declassato la religione a materia facoltativa e confessionale è stato una scelta miope. Chi, oggi, può comprendere un islamico ignorando il suo tipo di religiosità? Oppure un orientale, o un sudamericano? E chi può comprendere la storia di questa Italia, ignorando la religione cattolica? L’ora di religione deve essere fondamentale per tutti e gestita dalla scuola come le altre materie importanti.
E’ questa ora di religione fatta con serietà la vera sede della religione nelle scuole. Il crocefisso sui muri è arcisecondario; se poi fosse inteso al posto dell’obbligatorietà dell’ora di religione, è nocivo. In politica ogni favore alla religione (qualora un crocefisso sui muri fosse da ritenersi religione) è pericoloso! Timeo Danaos etiam dona ferentes! A Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio (parole di Gesù), non perché i due ambiti siano indifferenti l’un all’altro, ma perché sono differenti i punti da cui si vede. La politica fa consistere nel tempo; la religione scioglie le consistenze temporanee nell’eterno. L’ambiente dove queste due attività si incontrano o anche si scontrano non sono né i palazzi né i templi, ma la coscienza delle persone. Personalmente chiedo al politico di darmi schietta la res politica, e alla religione pura la res religiosa. Chiedo che non me le pasticcino e che lascino alla mia coscienza di discernere e integrare, consapevole che la natura della res politica è temporanea e circoscritta, quella della res religiosa è eterna e universale.
Si parla delle radici cristiane dell’Europa. Certamente la fede cristiana nei popoli europei è stata fonte di energia: non è possibile comprendere il crollo del comunismo polacco senza l’apporto della religione cattolica. Tuttavia l’espressione “radici cristiane dell’Europa” – anche nella bocca di papa Giovanni Paolo II – in me missionario risuona come un declassamento del Vangelo da messaggio religioso, quindi universale, in messaggio culturale, quindi locale. Infatti, ne conseguirebbe che io, missionario, annunciando in Giappone il Vangelo vi ho trapiantato le radici europee. No! Il Vangelo non si identifica con nessuna radice; ma, come Vangelo, le irrora tutte.
Luciano Mazzocchi, sx
10 Commenti a “Dopo i minareti… il crocefisso”
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6 Dicembre 2009 alle 11:30 pm
(copio un post che avevo scritto su un altro blog tempo fa)
Strano ma vero, la cosa [la questione del crocifisso] potrebbe essere considerata in chiave polemica anche da un punto di vista cristiano.
Infatti per almeno 500 anni — quindi ben oltre le necessità di “segretezza” imposte da persecuzioni a ritmo alterno — i cristiani per primi non si sarebbero mai sognati di esibire dappertutto l’immagine del Crocifisso. Il quale, per ammissione dello stesso Gesù e poi di Paolo, aveva un valore scandaloso, quasi orrorifico, una “medicina forte” contro qualsiasi pericolo di idolatria. E invece… si è riusciti a trasformare in un idoletto perfino quello, soprattutto a partire dal XIV secolo a opera dei francescani.
Una storia che, nel suo insieme, ha risvolti davvero paradossali.
7 Dicembre 2009 alle 10:34 am
“per ammissione dello stesso Gesù”. Fammi capire meglio: il crocifisso esisteva già come simbolo in Palestina/Israele, prima della crocifissione di Cristo?
7 Dicembre 2009 alle 10:40 am
Caro doc,
esisteva come PATIBOLO ed esclusivamente così. Un patibolo riservato agli schiavi senza dignità e ai peggiori delinquenti — i cittadini romani venivano decapitati, che era considerata una forma di onore, diversamente dalla gigliottina nel ‘700. Per gli ebrei era sinonimo non solo di esecrazione ma di maledizione.
Per questo, adottare la croce come “trono della divinità” era uno scandalo inconcepibile.
7 Dicembre 2009 alle 6:11 pm
Già, e come uno “scandalo” viene percepito da coloro che, non “resi ciechi” dall’abitudine, lo vedono per la prima volta. Non è infrequente nelle scuole elementari trovarsi a dover “giustificare” la strana presenza di “quell’uomo” messo in croce ai bambini stranieri. Certamente non viene vissuto come un simbolo di pace e di amore. E spiegarne la storia veramente non è semplice…
Ci sarebbero tante altre cose da dire prima…
11 Dicembre 2009 alle 7:42 pm
Intervengo con un sensibile ritardo perché ho pensato a lungo se, e come, esporre il mio dubbio in relazione a quanto scrive padre Luciano. Leggo nel suo Corollario: ” Chi può comprendere un islamico ignorando il suo tipo di religiosità? Oppure un orientale, o un sudamericano? E chi può comprendere la storia di questa Italia, ignorando la religione cattolica?” Questo mi trova pienamente d’accordo: nell’attuale convivenza di culture diverse è, più che importante, essenziale conoscere la componente religiosa di ognuna di esse. Ma a questo punto mi sconcerta l’affermazione successiva che “il messaggio religioso, quindi universale” sia declassato a “messaggio culturale, quindi locale”. Cosa significa? Come può essere universale un messaggio che si può comprendere, come è stato appena detto, solo in relazione a una determinata cultura e viceversa? Se è un messaggio universale, è ugualmente comprensibile in quasiasi tipo di cultura, per definizione stessa del concetto di “universalità”. Oppure tutte le religioni sono universali, ma qualcuna è più universale delle altre?
11 Dicembre 2009 alle 9:55 pm
Cara Cristina, il dubbio che proponi è, almeno formalmente, solo in apparenza problematico come a te appare. Infatti Luciano (mi permetto qui di interpretarlo, ma credo di non sbagliare) scrive “come si può comprendere la storia di questa Italia, ignorando la religione cattolica?” e non come si può comprendere la religione cattolica ignorando la cultura italiana (o europea o occidentale). E’ vero che nella prima frase c’è un doppio scarto, perché si parla della religiosità di un islamico (che non è una definizione né etnica né geografica ma religiosa) poi della religiosità di un orientale o di un sudamericano (cioè del sentire religioso in base alla geografia culturale) e poi dell’influsso della religione cattolica (la Chiesa? l’educazione ricevuta? il sentimento diffuso? il fatto che comunque dai e dai qualcosa è permeato del messaggio religioso cattolico?). Però è difficile negare, quale che sia l’accezione in cui quell’affermazione è dichiarata, che la storia italiana non è comprensibile ignorando la religione cattolica (italiana, aggiungerei io). Tutt’altra storia è parlare di radici cristiane dell’Europa, questa sì un’affermazione incomprensibile dal punto di vista religioso. Ammesso e non concesso che la religione abbia e metta radici (il Figliol dell’Uomo non ha dove posare il capo, ma dove piantare i piedi sì?) visto che l’albero si giudica dai frutti e l’Europa è il frutto dell’albero cristiano… auguri. Ma sopratutto, dire che le radici dell’Europa sono cristiane equivale a dire che le radici cristiane sono europee (a ogni albero la sua radice, da una radice un’albero), e dunque l’unica possibilità di essere cristiani è europeizzarsi, almeno nel modo di intendere la religione. Questo è il piccolo grande trucco pseudo-religioso dei nostri tempi, a questa greppia li trovi tutti, cristiani europei, islamici arabi, buddhisti giapponesi e via cantando. L’equazione cristianesimo uguale fede evangelica più logos greco che manda in visibilio papi e teologi è, alla fin fine, una forma di colonialismo culturale che ogni Chiesa declina a modo suo ma che, a me pare, con la religione nulla ha a che fare.
11 Dicembre 2009 alle 10:09 pm
A Luciano, piuttosto, chiederei altro, ma non so se mi sente, quindi lo chiedo a che ascolta. Scrive: “L’aver declassato la religione a materia facoltativa e confessionale è stato una scelta miope”. Ma in Italia l’insegnamento della religione è sempre stato confessionale, anche quand’era obbligatorio. E definire la religione una materia mi pare discutibile. Penso che si dovrebbe sì insegnare a scuola la religione, altroché, ma so anche che la religione non si insegna. Oggi si pongono problemi che un tempo non sussistevano. Ai miei tempi, nel medioevo di cinquant’anni fa, la religione era una e “insegnare” quella voleva dire insegnare tutta la religione. Non è più così e non lo sarà mai più, per quanto scalcino i nostalgici. Che fare?
14 Dicembre 2009 alle 7:11 pm
Caro jf, forse non mi sono spiegata bene: convengo pienamente sul fatto che la storia d’Italia, ma non solo la storia: anche la letteratura, l’arte, le tradizioni popolari e la concezione stessa dei rapporti sociali, non è coprennsibile a prescindere dalla religione cattolica, e convengo altrettanto pienamente sul fatto che qualsiasi altra storia, di qualsiasi altro paese, non sia comprensibile ignorandone la, o le religioni. Precisamente questo è, secondo me, il punto: la religione si dimostra, proprio perciò, un importantissimo fattore “culturale”. E con altrettanta chiarezza si dimostra “non universale”: a ogni cultura la sua religione, a ogni religione la sua cultura. Suggerisco di abbandonare la metafora dell’albero: certo un albero ha un’unica radice e da’ frutti tutti uguali. Pensando all’Europa, non mi pare proprio che – cito a caso – Greci, Lapponi, Svedesi, Islandesi, Portoghesi siano frutti tutti uguali dello stesso albero dall’unica radice. Semplificazioni di questo tipo sono eccessivamente riduttive, il linguaggio figurato ha un suo fascino evocativo ma a a volte è opportuno non lasciarsene suggestionare. Dire che le radici dell’Europa sono cristiane equivale a fare un’affermazione senza senso. Meglio tacere, lasciar parlare il silenzio. E non perché io abbia paura a parlare.
14 Dicembre 2009 alle 7:49 pm
Cara Cristina, pienamente d’accordo ad abbandonare la metafora dell’albero: le metafore sono come le zattere, servono fin quando servono, poi sono d’ingombro. Credo che nel nostro discorso si mischino almeno due piani. La religione è certo un fattore culturale, ma la formula “cuius regio, eius religio” (a ogni regione la sua religione) non dice tutto. Un cristiano lappone (ce ne sarà uno), un cristiano vaticano, un cristiano del Bangla Desh, hanno un quid religioso in comune? E se ce l’hanno, è quella l’universalità del cristianesimo? O è nel fatto che un lappone, un vaticano e un Bangla Desho possono riconoscersi cristiani? Io da un po’ di tempo a questa parte penso che l’universalità, intesa come fattore che tutti accomuna consista nell’unicità di ciascuno, non in qualche forma di generica eguaglianza. Ognuno di noi è unico, siamo nati tutti, ma ciascuno è nato lui , lei, non altro; moriamo tutti, ma solo io muoio come me. In questo siamo accomunati e uguali, nell’essere ognuno unico, e qui ci possiamo ritrovare. Francamente non so se c’entra molto con il discorso che stavamo facendo, ma mi viene di “risponderti” così.
15 Dicembre 2009 alle 7:54 pm
Nemmeno io so bene se c’entri, che ridere! ed è forse per questo che ora mi sento sulla stessa lunghezza d’onda. In effetti le definizioni perdono consistenza di fronte al fatto che “ognuno è nato lui/lei; solo io muoio come me.” Questo, si, è “universale”… Ciao.