Sab, 14 Nov 2009
Pubblichiamo oggi un testo raro, oltreché profondo. Un fratello cristiano, padre Carlo Maria Alfredo De Filippi, ci invia una riflessione personale sulla sua esperienza di cristiano che da 25 anni pratica lo zazen. Naturalmente padre Carlo vive tale pratica in un “ecosistema” culturale e religioso completamente cristiano e questo rende particolarmente interessanti le sue osservazioni: “la stessa cosa” vista da un’altra angolatura rivela bagliori inaspettati. La preziosità di questo scritto non è solo nel fatto che un sacerdote cattolico pratichi a lungo lo zazen e conduca da molti anni un gruppo di pratica a Gallarate, il centro Areazen Omega, ma il fatto che padre Carlo ne parli con la semplicità di chi è avvezzo a frequentare il buddismo zen come un ambiente che può incontrare alla pari, senza timori, con la più grande considerazione.
Il testo dell’articolo è scaricabile qui in formato PDF.
Il primo incontro
Era l’estate del 1985 quando con una telefonata da Roma, allora ero a Firenze, un confratello mi chiedeva se ero disponibile a fare da traduttore/interprete dal tedesco all’italiano, nel primo sesshin in Italia di padre Hugo Lassalle, da tenersi in autunno. P. Lassalle era un pioniere nella presentazione di questo tipo di meditazione al mondo cattolico europeo. P. Lassalle, tedesco di origine, era stato per molti decenni, subito dopo la 1° guerra mondiale, missionario gesuita in Giappone. Nel suo percorso di inculturazione
aveva anche accostato il mondo buddista giapponese, aveva fatto pratica di zazen e un giorno il suo maestro riconobbe che aveva fatto l’esperienza del “risveglio o illuminazione”. Dopo la 2° guerra mondiale il suo percorso di missionario invertì direzione: dal Giappone all’Europa per portare la conoscenza dello zazen a popoli che avevano bisogno di ritrovare se stessi nel silenzio e nella contemplazione aniconica, in una comunione dei cuori ineffabile ma reale. In Giappone era stato compagno nel lavoro missionario con p. Pedro Arrupe, allora superiore generale della compagnia di Gesù, che, si diceva, praticava regolarmente la meditazione seduta (zazen).
Il sesshin, giorni di ritiro spirituale con pratica concentrata di zazen, dalle 7 alle 8 ore al giorno, doveva aver luogo a Roma, a Montecucco, nella casa di spiritualità di una congregazione femminile spagnola. La casa non era attrezzata per un ritiro di questo tipo, e ci furono alcuni momenti di tensione dal punto di vista organizzativo, ma l’entusiasmo dei neofiti italiani e la pazienza del maestro ritornato dall’Oriente li superò egregiamente.
Il mio ricordo indelebile di quel primo incontro con lo zen è legato al dolore tremendo alle ginocchia, che è durato per anni, ma mai come in quella prima volta.
Ero stato interpellato come interprete e non come partecipante, ma come si fa a non partecipare a un’esperienza simile avendone l’opportunità? Mi sono posato sul ramo e sono rimasto invischiato, fino ad oggi.
Ma è anche indimenticabile il ricordo della persona, della affabilità, della semplicità e naturalezza nel comportamento e nel parlare di p. Lassalle. E’ questo ricordo vivo che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà, che col tempo si sono presentati.
L’incontro continua
Per alcuni anni ho seguito i sesshin che venivano organizzati sempre a Roma, ancora un anno o due con p. Lassalle, poi con altri maestri zen. Forse l’inizio era stato troppo grandioso, e non mi trovai più bene come la prima volta. Ci fu un’interruzione di un paio d’anni, poi mi avvisarono che a Dietgurt in Baviera un compagno di p. Lassalle, nel senso che aveva frequentato la stessa scuola, fondata da Koun Yamada Roshi, teneva dei sesshin nel suo convento di appartenenza, un convento francescano. Così frequentai p. Viktor loew per alcuni anni, fino alla sua morte. Anche p. Lassalle nel frattempo aveva varcato la soglia verso l’Indicibile. Ma arrivò quasi subito la notizia che un altro maestro zen, della stessa scuola di p. Lassalle e che un anno prima avevo incontrato a Roma, Joan Rieck, aveva iniziato a tenere dei sesshin in Alto Adige, a Voels, all’inizio dell’Alpe di Siusi. Da allora frequento regolarmente i sesshin a Voels, anche se da un anno Joan Rieck non vi viene più, ma ha lasciato un valido successore. Anche i maestri-zen invecchiano e muoiono.
Difficoltà e superamenti
Sinceramente nei primi anni di pratica dello zazen non ho sentito, come cristiano e neppure come sacerdote cattolico, alcuna difficoltà spirituale nel praticare la meditazione zen. Il ricordo della persona e delle parole di p. Lassalle erano tropo vive in me per lasciar sorgere dubbi sulla liceità o giustezza di questo mio pregare/meditare: lo “zazen è un pratica, non una dottrina” diceva p. Lassalle. E mi ricordo che dicevo ad amici e conoscenti: praticando zazen ho imparato a fare silenzio in me, ad ascoltare la voce della mia vita e la voce del Signore nella mia vita, ciò che non ho appreso negli Esercizi Spirituali, fatti per tanti anni.
E poi c’era anche la convinzione (oggi ho leggermente cambiato prospettiva) che il buddismo alla sua origine non fosse una religione e che lo zazen non fosse una pratica religiosa, nel senso tradizionale del termine (azione cultuale, privata o comunitaria adempiuta nella relazione esclusiva con un dio riconosciuto come il proprio Signore).
Negli anni seguenti mi dedicai anche alla lettura di libri sullo zazen e sulla tradizione mistica nella chiesa cattolica, trovando conferme della liceità di questo tipo di rapporto religioso anche con il dio biblico, ma anche libri di autori cristiani contemporanei che come p. Lassalle avevano vissuto la fede cristiana e fatto pratica di zazen. E conobbi meglio la figura esemplare di maestro Eckhart, teologo e mistico domenicano del 1300, particolarmente vicino al mondo spirituale del buddismo zen. E fu anche bello ritrovare nelle sacre scritture ebraico-cristiane i riferimenti al silenzio dell’uomo di fronte al dio della rivelazione biblica. Un esempio per tutti: l’esperienza di Elia come ci è narrata in 1 Re,19,1ss.
Certamente le divergenze esistono, ma direi più sul versante del pensiero riflesso e discorsivo, a livello di Weltnschauung, di comprensione intellettuale della realtà del mondo e dell’uomo. Ma lo zazen è oltre il pensiero discorsivo.
La pratica dello zazen è la dimensione spirituale della vita, la pratica è la nervatura della vita quotidiana, è ascolto della realtà qui ed ora, senza la pretesa di volerla cambiare con argomentazioni logiche cogenti, o di volerla programmare secondo un mio progetto di bene migliore.
La pratica è apprendimento dell’umiltà, della finitezza del proprio esistere, è anche rispetto dei tempi dell’altro nella sua crescita, rispetto che nasce dal rispetto verso me stesso, è anche attenzione ai suoi bisogni, attenzione che nasce dal cuore e senza motivazioni di ricompensa o profitto, anche morale o spirituale.
Il silenzio e l’ascolto sono per me il grande dono dello zazen, un dono prezioso, sempre a portata di mano, … o di ginocchia.
Ma è anche la scoperta che di dio non possiamo dire nulla di definitorio, ma solo sperimentarlo, secondo i tempi e i luoghi, e cercare di comunicare questa esperienza, con discrezione, a chi incontriamo nella nostra via, con attenzione concreta, più che con le parole, frutto dei nostri pensieri, spesso distaccati dalla realtà attuale della vita, rivolti a ricordi passati o a progetti futuri.
Condividere l’esperienza
Nel 1997, dopo un anno dal mio arrivo a Gallarate e dopo un anno di esperienza di incontri di introduzione alla Bibbia, seguiti poi da incontri di lettura commentata di testi neotestamentari, pensai che forse valeva la pena di condividere con altri la mia seconda passione: la meditazione zen. Non avevo nessuna autorizzazione o avvallo ufficiale, nessun titolo, ma solo il desiderio di condividere una esperienza spirituale molto positiva. Con un po’ di incoscienza superai i miei timori e nella tarda primavera organizzai tre cicli di incontri di 5 giorni di seguito. Passarono in quei giorni una quarantina di persone, una dozzina di esse si presentò l’autunno seguente e da allora, con numero variabile di presenze incominciammo la serie di incontri settimanali. Il numero decrebbe, ma ci fu sempre qualcuno che si presentò, fino ad oggi, e ci furono periodi di mia assenza prolungata, nei quali alcuni si ritrovavano regolarmente a fare zazen (ottimo segno che il non-maestro non era necessario). La cosa che mi colpisce di più in questa esperienza comune della meditazione silenziosa seduta è la profonda comunione che si instaura tra i partecipanti, comunione che poi nella vita pratica di incarna nell’attenzione ai bisogni dell’altro nella vita concreta. Usando una terminologia cristiana direi che è la fede che si incarna nella carità, e dove c’è la carità, lì c’è lo Spirito di Dio.
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