Dom, 22 Feb 2009
La pagina Libronline si è arricchita di un nuovo testo. Breve, intenso, inusuale. Si tratta del racconto redatto da Kosho Uchiyama roshi, già abate di Antaiji negli anni ‘60 e ’70, sulla sua vita da monaco, a Kyoto, sostenuto unicamente dalla questua. Il periodo narrato è quello dei difficili anni immediatamente successivi all’ultima guerra mondiale. Ma il vero senso dello scritto del roshi risiede nel tentativo di comunicare la sua personale comprensione -che è pratica quotidiana- del significato di “retto sostentamento”, uno degli otto rami dell’Ottuplice Sentiero. È strano ma l’argomento “denaro” non viene quasi mai affrontato nei moderni testi buddisti. Si discetta di sottigliezze, ci sono forum e siti web dove si arriva a minuzie incredibili riguardo alla dottrina buddista. Si pubblicano libri su ogni aspetto della pratica e della caccia all’illuminazione. Ma come i singoli interlocutori sbarcano il lunario… è sempre nell’ombra. Eppure l’unico mezzo di cui il Buddha ha dato esempio per vivere è la questua. Quando il racconto di Uchiyama è stato pubblicato sulla rivista della Stella un membro autorevole della medesima mi ha comunicato le sue “perplessità circa la pubblicazione di un testo sulla questua, ora, proprio da noi, in Italia”. Chissà perché. Non sarà che, sotto sotto, non possiamo non dirci (demo)cristiani?
19 Commenti a “Guadagnare è peccato?”
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24 Febbraio 2009 alle 9:48 pm
Ciò che io sono e posso non è affatto determinato dalla mia individualità.Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne.E quindi io non sono brutto,perchè l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva è annullata dal denaro.Io sono un uomo malvagio,disonesto,senza scrupoli,stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo
possessore.Il denaro è il benbe supremo, e quindi il suo possessore è buono.Io sono uno
stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le coe, e allora come potrebbe essere
stupido chi lo possiede?Inoltre costui potrà sempre comprearsi le persone intelligenti, e
chi ha potere sulle persone intelligenti non è più intelligente delle persone intelligenti?Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui aspira il cuore umano non possiedo forse tutte le facoltà umane?E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo?E quindi non è forse anche il dissolvitore universale?Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società. In quanto moneta corrente il denaro è ricchezza.In quanto gforza galvano-chimica che struttura tutte le relazioni sociali il denaro è sistema. Che me ne faccio dell’illuminazione se non ho denaro?Per questo la nolontà o l’etica della rinuncia non è più percorribile.E sul cristianesimo che dire?Il suo colpo di genio fu la carica di ottimismo impresso all’occidente grazie alla vittoria sulla morte con la promessa di una vita ultraterrena.Ma io non sono cristiano, o per intenderci sono pessimista e il pessimismo lo apprendo da mestesso, non me lo insegna nessuno.Jai guru deva (om).
26 Febbraio 2009 alle 12:10 pm
Jai guru deva om. Mi riporta ai Beatles, tanto tempo fa. Invece la galvano-chimica ai “Gatti di Vico Miracoli”: Travaiava alla foto galvanica, el crediva n’tel bum economico, el disian ch’era filobolscevico, perché andava a dormire alle tre…
Uno dei meriti del pezzo di Uchiyama presentato nel post è il tentativo (alchemico? Galvanico?) contrario alla norma comune: trasformare il denaro-potere in mezzo di sussistenza mondato, puro. Per fare ciò, propone l’atteggiamento della questua: basare (anche) la sopravvivenza economica, materiale, su un atteggiamento privo della coltivazione del desiderio, indirizzato alla gratuità. Secondo il principio del Vinaya: non impossessatevi di ciò che non vi è stato liberamente e consapevolmente dato. Non cercate di ottenere null’altro che il necessario ad una vita volta alla pratica religiosa.
26 Febbraio 2009 alle 2:07 pm
Se ho ben inteso, concordo.
Ne consegue che: A) la questua come mezzo per la sussistenza, è una attività economica come qualunque altra (per evitare equivoci verbali consideriamo solo quelle che i testi legittimano a cortollario del ‘retto sostentamento’). B) che quello che fa la differenza nelle attività ‘economiche’, cioè finalizzate alla sussistenza, non è il ‘cosa’ ma il ‘come’, cioè l’atteggiamento indirizzato alla gratuità o al non-tornaconto personale. C) che la questua è una ‘pratica’, un esercizio suggerito per comprendere ed imparare a praticare quell’atteggiamento. D) che, dato C, considerare la questua ‘il’ modo per sbarcare il lunario presuppone la scelta di non entrare a far parte attiva della società comune, con forte sospetto di ‘spocchiosità religiosa’.
26 Febbraio 2009 alle 2:18 pm
Un aspetto che mi ha colpito maggiormente della questione denaro nel racconto di Uchiyama è la dimensione del tempo: tutti quegli anni vissuto e sofferti senza in realtà vedere ( neanche pensare )ad una fine nè a breve nè a lungo termine…. è tanto lontano da noi ( soprattutto occidentali )come attteggiamento, quanto l’uso del denaro…
E poi un cambiamento della sua “tecnica di questua” da chi è stato provocato? Non dalla pratica di zazen, non dallo studio.. ma da un colombo! Incredbibile!
A proposito, non mi ero accorta della possibilità dei libroline, è un bel servizio, grazie.
26 Febbraio 2009 alle 4:13 pm
Ehilà, ciao doc. Dato che quando ho scritto il mio intervento non c’eri, ti rispondo …
Io personalmente sottolinerei la B), soprattutto considerando le necessità di allargare la “base” di coloro che intendono seguire le via. La “questua” come esercizio religioso lo vedo collocato in un determinato tempo e spazio in cui farlo era quasi una cosa consueta ( mi vengono in mente tutta la serie di questuanti di cui parlava ) forse adesso, in questo tempo e spazio, altri modi possono essere trovati per rispettare il principio di Vinaya.
Forse meno appariscenti ma ugualmente validi….forse..
26 Febbraio 2009 alle 4:53 pm
Ciao Marta,
è vero che lo spazio-tempo cambia molte cose. Non a caso ci fu la svolta di quel patriarca cinese (il 7°,l’8°?…)che stravolse l’ormai anacronistico (ab)uso della questua coniando il motto: ‘un giorno senza lavoro, un giorno senza cibo’. Questa opzione, se la memoria non mi tradisce , salvò il buddhismo da una deriva gravissima e addirittura forse dal rischio estinzione in quelle lande. (Mym, fresco di ripassi, mi cazzierà e avrà la compiacenza di correggermi se i miei ricordi sono troppo appannati e distorcono la verità storica). Aggiungerei, a titolo personale, che paesi a regime tuttora ierocratico farebbero bene a riconsiderare certi eventi storici.
26 Febbraio 2009 alle 5:07 pm
Spezzo il mio intervento in due parti per comodità di lettura.Non ti si può nascondere nulla caro mym,eh?L’attualità del marxismo è impressionante tuttavia dopo una giornata spesa a guadagnarsi il pane chi ha tempo e pazienza di studiare(e capire) le 1529 p. de Il Capitale?Meglio stordirsi con le boiate del GF9 e i proclami alla nazione del nostro ‘intelligente’ premier…Tuttavia l’ordinamento capitalistico è un’enorme cosmo, in cui il singolo viene immerso nascendo, e che gli è dato, per lo meno in quanto singolo, come ambiente praticamente immutabile in cui è costretto a vivere.Allora, per me, comunismo è il legame solidissimo che si crea in occasioni di catastrofi quando gli uomini si tengono stretti sull’orlo dell’abisso per affrontare il pericolo di essere. E qui si pone il problema del desiderio.Io desidero essere me stesso, voglio cioè unire carne e idee in quanto il problema dell’incarnazione mi ricorda come ciò che si fece carne fu Logos. E allora se la giustizia è l’effetto del compimento della vocazione naturale di ognuno, cioè la misura di sé(Platone, Repubblica,cap.I), non desiderare di essere se stessi significa rinunciare ad essere un filosofo in senso ontologico per fingere di essere quello che non si è: un ens immaginarium.A me scorrono le lacrime dagli occhi (come Amleto) e domando: cosa fare se lavorando rinuncio al mio talento?(Oppure, cosa ho da guadagnare se conquisto il mondo e perdo me stesso?).
26 Febbraio 2009 alle 5:08 pm
Across the universe…Se la cifra di questo secolo è la brevità solo la canzone riesce a inseguirla e a raggiungerla, essa di brevità se ne intende.La canzone è un occhio puntato contro questo tempo: come uno gnostico il batterista punta l’arma e spara direttamente contro il cielo…Dio mi pesta a dovere e io gli canto in faccia.La musica, quell’occulto esercizio matematico dell’anima che non sa numerarsi, ha lo scopo di divertire.Nell’età del pessimismo, cioè la nostra, il divertimento è la risposta di chi sa.In questo stupido mondo ridere e divertirsi è la massima che dovrebbe figurare sul frontespizio di un’etica buontempona.Una buona etica (magari un’etica alla buona) si riconosce dal riso che concede.La musica è la risposta della nostra epoca al pessimismo più cupo.L’addio al mondo sarà cantato:”This is the end,beautiful friend..”. L’inno alla musica è un ringraziamento reso al godimento che essa genererebbe.Il suono ci lega alla vita.L’animo riluttante che vuole sfuggire ogni legame si sente catturato e in trappola.”Un’altra catena mi è stata legata,un altro chiodo mi è stato ribadito”lamenta il Buddha.Tuttavia una conoscenza approfondita del mondo può portare contemporaneamente al pessimismo e all’ottimismo(come comunemente si chiamano), al dolore universale e alla placida serenità.
26 Febbraio 2009 alle 5:41 pm
Il lavoro è fatica e messa alla prova dei propri “talenti” (a parte quel minimo 99% dei casi in Italia in cui è semplice parassitismo).
Ora, sul secondo aspetto (la realizzazione di sé ecc.), per quanto suoni accattivante a noi padani, è tuttavia lecito sollevare qualche dubbio, perché può essere tutta un’auto-illusione.
Però quanto alla fatica, è lì che ci si deve confrontare con il samsara. E senza samsara, ciao ciao nirvana.
26 Febbraio 2009 alle 5:43 pm
Direi che doc mette più di un dito nella piaga. Il fatto è che l’unico modo che il Buddha mostra per procurarsi da vivere è la questua. Il corollario è che allora l’unico modo per percorrere la via era quello monacale (in comunità o da eremita). Per di più la storia del patriarca cinese che disse “ogni giorno ecc.” è una doppia bufala: l’episodio è stato costruito (per motivi di necessità di copione) trecento anni dopo che Dai Daoxin (così si chiamava) era morto (probabilmente mai sognandosi di riformare la questua) e, clamoroso, in nessun monastero chan o zen (a parte Antaiji) nessuno ha mai lavorato se non in termini simbolici, rituali. Interessante (ciao dr) questa cosa di confrontarsi col samsara per “salvare” il nirvana.
26 Febbraio 2009 alle 5:54 pm
Bè, homosex, meno male che alla fine la conoscenza può portare contemporaneamente sia il dolore che la placida serenità. Trovo sinceramente che fra il Capitale di Marx e i proclami del nostro premier ci sia spazio per qualcos’ altro ( almeno lo spero ). Tu per primo ci hai messo Platone, Amleto, la musica e pure il Logos… Scherzi a parte,credo che ognuno si sia trovato almeno qualche volta, a volte molto spesso, in un posto che non riconosce come suo e pertanto si sente “fuori” da se stesso ( neanche Uchiyama si sentiva tanto al suo posto ad essere un questuante, per un certo tempo almeno…)ma questo non ritengo voglia dire non poter avvicinarsi al proprio sè…
Sarei d’accordo con te sull’ importanza della musica, ma più che come risposta al pessimismo come segnale di continua speranza. Cosa vuoi sono un’inguaribile ottimista.
26 Febbraio 2009 alle 10:44 pm
Perdonate la lunga assenza ma quando il capo chiama…e poi tornato dal lavoro ho avuto problemi di connessione (solo per questo sito,mah!).Non è la fatica che mi spaventa quanto appunto il talento, la vocazione, il demone (daimon) da cui sono posseduto e che non può esprimersi.Detta meglio: sono un pessimo avvocato ma (potenzialmente) un pensatore capace di usare la filosofia in modo geniale.Rivendico il diritto al lavoro, ma ad un lavoro che non sia parassitario(per fare l’avvocato la competenza giuridica è irrilevante,basta sapersi vendere, una bella cravatta,un abito di buona fattura e una dialettica mendace sono più che sufficienti e di simili avvocati i tribunali ne sono pieni!). Allora amici tutto ciò che posso concedermi è stare insieme e filosofare insieme per un breve momento!Oltre non credo possano andare le ambizioni di un fugace ragionamento.Sempre più gli effetti del filosofare si vanificano e ogni dialogo è un dialogo infelice.Tuttavia parliamo?Allora scrivo di filosofia, perdonatemelo,è un lusso che con il lavoro che svolgo non mi concedo (quasi) mai.Sulla questua credo che si addica ad asceti che mortificano carne e spirito, mentre io,che non voglio mica farmi il suv, desidero vivere, ebbene?Nei prossimi brevi interventi spero di spiegarmi meglio.
26 Febbraio 2009 alle 10:44 pm
Apprendo dai Lineamenti di filosofia del diritto (Hegel):il meglio non è altro che la realtà così com’è.Ciò che mi meraviglia è l’impossibilità di sottrarmi alla costrizione logica.I fatti logici sono fatti bruti e nulla c’è di vitale in una logica che costringe.Al mio sguardo ogni relazione causale è data come un nesso tra incubi.Se la ragione non è che un sistema nervoso, le sue Idee sono solo ambivalenti barriere che con la loro efficiente pazzia difendono l’individuo da qualcosa di peggiore e l’idea di Mondo è l’idea di qualcosa che ha vinto e che, per conservarsi, deve continuare a vincere.(L’idea di qualcosa che fa continuamente vittime).Ora, il dolore non deve mai presentarsi da solo se non vuole restare inefficace, ma deve armarsi di tutte quelle regole della retorica che non lasciano la sofferenza trascinarsi come un miserabile patire, ma la ingabbiano in un sistema di nessi non meno rigoroso di quello formato dai concetti di una scienza logica.La vulgata pessimista(che include Schopenhauer,il Buddha d’Occidente) non rende onore al PESSIMISMO perché indulge ai lamenti del soggetto sofferente e tosto seguono pianti e lamenti e un dolore da gabinetto dentistico.(Tuttavia è vero, autentico soggetto chi soffre.Oppure sofferenza e lotta:pessimismo greco, corpi atletici e mano alle spade…pessimismo del futuro).
26 Febbraio 2009 alle 10:45 pm
Il pessimismo, o meglio, il Peggio, appartiene all’immaginazione filosofica.Nessun ente corrisponde a questa parola.Ma il Peggio accade.Una volta accaduto, accade ciò che dice.Qualunque che sia il suo statuto ontologico, è quando lo si pronuncia che prende esistenza, come se la aspettasse da millenni.Le parole del genio della lampada gli si addicono: ho aspettato migliaia di anni etc.etc.Esso entra nel pensiero e il pensiero diviene fido depositario.La vita meschina dei più o il dolore di una decina di Werther non sono ancora pessimismo, così come la felicità di chi ‘sta meglio’ o quella degli stupidi non sono ottimismo. Allora come può esserci un pessimismo felice?
26 Febbraio 2009 alle 10:45 pm
In quegli atteggiamenti che comunemente si chiamano pessimismo e ottimismo il dolore è necessario e insufficiente insieme.La fessura del dolore tuttavia sembra faccia entrare l’uno e l’altro.Permane l’avvertimento di Platone:”…all’uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l’ottimo e l’eccellente, e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacchè la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima”(Fedone,97 d).Allora il filosofo pessimista vulgaris è semplicemente un illuminista fallito, o uno che, pur avendo lo sguardo al pessimum, cammina tuttavia di buon umore recando doni e promesse, fossero pure il ‘nulla’.Il pessimismo invece lotta per il suo futuro.Nel Fedone Platone induce a pensare che il meglio e il peggio in qualche modo si appartengano. Come se avesse voluto dire che il meglio che può toccare al mondo è il peggio per cui esso è.O più sommessamente:il pessimismo è la ‘migliore’ filosofia per coloro che abitano il ‘peggiore’ dei mondi.(Del resto che non ci sia niente di peggio del mondo non si deve dimostrare).
26 Febbraio 2009 alle 10:46 pm
Una nota pseudobuddista.(Oppure sul ‘buddismo del futuro’ o che so io….).La tecnica mi sembra una specie di rinuncia, una specie di nirvana di tipo occidentale.L’uomo inventa la macchina per sfuggire alla vita. La pace della ‘macchina’, la pax tecnica, è questa immensa quiete davanti allo schermo.L’era della vita, che si pensò interminabile, e su cui vivono tuttora strani pregiudizi, finisce.La tecnica è la rinuncia dell’uomo maturo alla vita selvaggia per farsi impassibile macchina.La tecnica è la via occidentale del nirvana.Lo spirito della tecnica non è lo spirito diabolico né la cieca fede attivistica.L’uomo-cosa è esaltante come il vuoto mistico, e il suo sangue è freddo come sangue di serpente.Ci laveremo con esso e ne avremo refrigerio.Ecco il nuovo modo di essere e di avere a che fare con se stessi.Il processo di ‘macchinizzazione’ del sociale è impegnato a far sparire il vitale.Il collegamento della tecnica col pessimismo mondiale non viene individuato.Questo pessimismo non frigna.Ha altro da fare.Non mira all’annullamento come soluzione individuale, come autorinnegamento della volontà, tipico della fase neobuddhista.Questo pessimismo è trapassato nella realtà, si è oggettivato.Il pessimismo decifrato deve decifrare i suoi duri passaggi, non la rassegnazione dell’uomo desolato.Esso ormai rifugge dalla volontà, che ha fallito la propria negazione.Ma spia l’annullamento realizzarsi nelle cose.La tecnica mi appare come il compiuto processo dell’annullamento della volontà sfuggito alla volontà individuale.L’assimilarsi alle cose realizza la nolontà, fallita sul piano individuale.Le cose sono nolontà coagulata.Il vecchio racconto di Schelling – “…nelle cose dorme uno spirito gigante…”- esalta il momento in cui lo spirito si sveglia e riconosce nelle cose se stesso.Ma è tempo, pare, che lo spirito torni ad addormentarsi in esse, e s’acquieti in un sonno senza sogni.Appena scosso da impercettibili movimenti che indicano il palpitare tranquillo del suo cuore.Un caro saluto a tutti.
27 Febbraio 2009 alle 5:07 pm
Per questa volta è andata. Ero pure assente… Dalla prossima ti censuro. Non per quello che scrivi -a parte le bizzarrie erpetologiche- ma perché 1) vai costantemente e consapevolmente fuori tema, 2) occupi tutto lo spazio. Se ti accontenti di essere fuori tema ma lasci che altri si esprimano prima di continuare ben, altrimenti: taglio. E se altri non si esprimono? Allora vorrà dire che la “discussione”, per quella volta, è finita.
27 Febbraio 2009 alle 9:49 pm
Prendo atto di questo irrigidimento e me ne dispiaccio.A mia discolpa preciso che il mio era un tentativo, assolutamente ingenuo, di ravvivare un post interessante(per me) ma che non decollava.Ho cercato di seguire un filo logico economia-guadagno,politica-religioni non pensando che eventuali uscite dal tema potessero scatenare addirittura la censura.Rilevo,senza voler polemizzare e proprio perchè nella vita assomiglio molto più a un Candido che a un Faust,che nel post su Eraclito si passa disinvoltamente dal logos alle puzze di Nietzsche…Dunque anch’io finisco dietro la lavagna sperando nel perdono e magari, col tempo, di imparare un pò di etichetta ‘cibernetica’.
Ciao
28 Febbraio 2009 alle 11:34 am
Chi è senza peccato… Insomma: dietro alla lavagna c’è (ci dovrebbe essere) più gente che davanti. In altre parole: a chi la tocca la tocca. Ciao