Mar, 17 Feb 2009
In attesa che qualcuno lo legga e ce lo recensisca, anticipiamo -sarà in libreria a fine mese- l’uscita di un testo che promette bene. Ecco la scheda di autopresentazione:
di Laura Badaracchi, Ed. Gli asini (www.gliasini.it), Roma 2009
Esiste il mestiere di prete? Essere sacerdote è solo una vocazione o anche una professione? Domande provocatorie per far pensare che, in fondo, ogni lavoro dovrebbe avere un’anima, nascondere in sé una sorta chiamata.
Tenendo presente che anche per diventare presbitero, come per altri “mestieri”, occorre una formazione specifica, lunga e complessa. Non si tratta di una scelta estemporanea o a cuor leggero: il seminarista, o aspirante prete, ha a disposizione molti anni per scandagliare la sua vocazione, con l’aiuto del direttore spirituale e del confessore, di compagni di strada e amici con cui confrontarsi.
Ma per quali vie si diventa preti oggi? Nulla è cambiato nella Chiesa cattolica, in particolare quella italiana, nel percorso proposto ai giovani e agli adulti che oggi chiedono di diventare ministri del Vangelo e dei sacramenti? Qualcosa si muove, visto che nel terzo millennio Dio chiama anche su YouTube e tra i nuovi areopaghi della vocazione compaiono siti, chat, blog… E quali sono le sfide a cui i nuovi sacerdoti devono rispondere con la vita, in parrocchia e in altri contesti più o meno ecclesiali?
Il taglio del volume oscilla tra il manuale e l’inchiesta: all’itinerario “classico” previsto per diventare sacerdote si affiancano alcune voci che raccontano in prima persona gioia e difficoltà vissute dal clergyman.
Nelle 260 pagine, che si chiudono con un’ampia bibliografia “professionale”, le testimonianze e le storie vocazionali – tra gli altri – di mons. Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana, e di mons. Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana (Ati) e preside dell’Istituto universitario “Sophia”, inaugurato nei mesi scorsi a Loppiano (Firenze) presso la Cittadella dei Focolari.
Ma si raccontano anche parroci e viceparroci romani, con una lunga esperienza nelle periferie di Centocelle o dei benestanti quartieri Ardeatino e Prati Fiscali (don Fabio Pieroni, don Francesco Galluzzo, don Gianpiero Palmieri). Non mancano le vicende dei preti impegnati tra gli emarginati e le persone in difficoltà, come don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, e dei cappellani che operano in carcere, negli ospedali, sulle navi o tra gli immigrati.
C’è chi ha deciso di lottare contro le mafie puntando sulla formazione dei giovani, come don Luigi Merola, ex parroco a Forcella (Napoli) e ora presidente della fondazione “A voce de creature”, e chi punta sull’evangelizzazione di strada, come don Davide Banzato, dell’associazione Nuovi orizzonti.
Spazio anche alla voce di don Roberto Fiorini, prete operaio, direttore della rivista che dà spazio a questa esperienza ancora presente nella Chiesa italiana e non solo. Don Emilio Grasso, invece, racconta dal Paraguay la sua chiamata missionaria.
L’autrice interpella anche don Paolo Selvadagi, rettore del Seminario minore romano, sulle questioni che riguardano la formazione sacerdotale dei ragazzi non ancora diciottenni. E poi la realtà delle diocesi di rito bizantino, con i preti sposati; un “ex” sacerdote, F.N., che racconta i motivi dell’abbandono… Infine, un capitolo è dedicato al rapporto tra preti e media, un altro all’abito “che fa o non fa il prete”, e poi dati sui sacerdoti stranieri in Italia, su quelli che tornano al ministero dopo aver chiesto la dispensa, sul calo di vocazioni e l’aumento di quelle “adulte”…
L’autrice
Laura Badaracchi, giornalista professionista, collabora con diverse testate cattoliche, tra cui il quotidiano Avvenire, l’agenzia Sir, e i mensili Jesus, La vita in Cristo e nella Chiesa, Mondo e Missione. Corrispondente da Roma dell’agenzia Redattore Sociale dal 2001 al 2006, è autrice della biografia Luigi Di Liegro. Profeta di carità e giustizia (Paoline 2007) e della raccolta Allo specchio e altri racconti (Infinito 2007). Ha curato per le edizioni San Paolo i volumi Donna dell’unità. Beata Elisabetta Hesselblad (2006) e Santa Brigida di Svezia. Sentieri di luce. Parole e pensieri della mistica del Nord (2002).
14 Commenti a “Fare il prete non è un mestiere?”
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21 Febbraio 2009 alle 5:08 pm
Chissà perchè la vocazione segue tutto questo iter lungo, formativo e complesso quando si tratta del genere maschile. Le vocazioni femminili sono ancora nell’ombra: siamo inadeguate noi all’ Istituzioni o sono loro che sono inadeguate a noi?
Devo dire che almeno nel campo della mistica cristina possiamo trovare qualche “importante” figura femminile .. ma per quanto mi sforzi, non riesco a trovarne nè nel buddismo, nè nell’ ebraismo ecc. Ciò mi fa sorgere un “serio” dubbio: non è che la religione sia ancora “un affare” da maschi? E, di conseguenza, la femminilità, dal punto di vista religioso, è un’utopia verso cui tendere o …qualcosa da evitare?
Ciao a tutti
21 Febbraio 2009 alle 5:19 pm
Tra i sutta del Tipitaka (e sono migliaia) ve n’è solo uno la cui redazione è attribuita ad una donna, l’Itivuttaka. Tra i sutra mahayana neppure uno. L’unica analisi fatta veramente bene da me trovata sino ad ora sull’argomento “la religione è una “cosa” da maschi?” l’ho ascoltata (per bocca di una donna) nella scena finale de Samsara, quello che a mio vedere è il miglior film buddista prodotto ad oggi. Forse è possibile meno perigliosamente rispondere al quesito finale, ovvero se “la femminilità, dal punto di vista religioso, è un’utopia verso cui tendere o …qualcosa da evitare”. Io direi da evitare, come ogni genere, maschile, bi, tri ecc. Quel poco che ho capito di religione mi porta a dire che è uno dei pochi luoghi sufficientemente profondi da potersi dire androgini o asessuati o dove non ci sono (più) differenze neppure di genere. Interessante, comunque, che sia una donna a scrivere sul “mestiere di prete” e ancora una donna ad aver scritto un commento a questo post
5 Marzo 2009 alle 8:02 pm
Ma certo che la femminilità è un qualcosa da evitare!! Quantomeno da un’ottica maschilista… Si può affermare anche l’esatto contrario, se come punto di osservazione e valutazione scegliamo invece quello femminista. Ma entrambi non sono altro che i due “inutili” opposti! Sottoscrivo quanto affermato da mym, ossia che la religione sia un ambito sufficientemente profondo da poter dire che non vi siano più differenze neppure di genere. Affermazione interessante…
16 Marzo 2009 alle 10:17 pm
Certo, bisognerebbe capirci sul significato della parola “religione”, ma penso che la discussione sarebbe piuttosto lunga. Vorrei essere però un po’ polemica: non è che a forza di stare sul “fondo”, si corra il rischio di dimenticarsi di quello che succede in “superficie” dove le differenze di genere e d’altro hanno un’ influenza decisamente marcata?
Negare le differenze ( sia pure sul piano religioso ) non favorisce, in qualche modo, il mantenimento di uno status quo, dove la dimensione religiosa della vita ( che prevede rispetto, condivisione ecc. ) sembra talvolta essere un lusso per pochi?
17 Marzo 2009 alle 8:50 pm
A me sembra che nella religione, come in qualsiasi altro ambito cui ogni persona si impegna con tutto il suo essere, proprio per questo siano di gran peso, anzi determinanti, le caratteristiche dell’essere stesso. In questo caso, essere donna o essere uomo: non è un particolare insignificante, “io” sono donna o uomo al 100 per 100, quindi sono “donna di religione” o “uomo di religione” al 100 per 100. E quanto più profondamente sono una cosa, tanto più profondamente sono l’altra…
18 Marzo 2009 alle 9:20 pm
Se non ho capito male, ogni persona porta con sè, inevitabilmente, nei vari ambiti, tutto ciò che fa di lei quel che è, e quindi anche il suo genere. E sono d’accordo, ma questa potrebbe essere solo una differenza individuale tra le altre… oppure il fatto di essere donna o uomo porta con sè delle caratteristiche, a prescindere quasi dalla singola individualità? …
Personalmente non mi piace parlar per categorie, però talvolta è difficile non farlo, non fosse altro per cercare di evitarle almeno nelle dimensioni più “vitali”…
18 Marzo 2009 alle 10:14 pm
Si, hai capito bene. Naturalmente non sono in grado di generalizzare, e nemmeno mi piacerebbe farlo: mi sento di parlare solo per me. In questo caso, di sicuro sono “donna”, qualunque cosa io faccia o dica o pensi: non so se ci sia differenza tra quello che, in un determinato ambito, faccio, dico, penso io “donna” e quello che nello stesso ambito farebbe, direbbe, penserebbe un uomo… non ho mai provato a essere uomo! Però ci sono delle divergenze comportamentali, cioè derivanti da una diversa lettura della realtà, facilmente riscontrabili, che credo si possano attribuire genericamente alla differenziazione sessuale. E’ chiaro che questo non intacca minimamente l’individualità, ogni essere umano è comunque “altro” da ogni altro essere umano. Unico, inimitabile, irripetibile.
19 Marzo 2009 alle 4:47 pm
Sono fondamentalmente d’accordo con te. Ma se noi proviamo a tornare nel fondo dell’ambito religioso da cui siamo partiti, non è che alla fine queste (indiscutibili) divergenze comportamentali “diventino” solo parziali punti di vista? E quindi come tali da superare?
Tu dici, giustamente, che si rimane donna o uomo qualunque cosa si faccia…
Però quando mi siedo in zz non mi “sento” donna, quindi, in qualche modo, in questo caso almeno,le differenze non influenzano un modo di essere…
Mi verrebbe da concludere che ci sono livelli diversi anche in ambito religioso. Credo che un prete- donna ( o un suo equivalente in altre realtà religiose )sarebbe sicuramente diverso da un prete-uomo e ciò sarebbe, a mio parere, una ricchezza, per svariati motivi, che vanno al di là di un approccio maschilista o femminista..
Andando più a fondo, dato che l’essere religiosi non si esaurisce certamente nell'”abito”..forse non ha più senso parlare di differenze…
20 Marzo 2009 alle 12:48 pm
Mah, io non sono così addentro nella pratica religiosa da poterne parlare con piena cognizione di causa. Tuttavia, c’è in me la convinzione che, anche quando sono seduta in zz e nella mia mente c’è il vuoto, questo vuoto sia diverso da quello di chiunque altro… anche o proprio perché è diverso il “pieno” che sta dall’altra parte e delimita, definisce il vuoto. O forse perché, se il non essere è, allora anche il non essere è condizionato dalla stessa soggettività che condiziona l’essere, cioè l’ umana conoscenza dell’essere. Ma con questo mi accorgo di sconfinare clamorosamente dall’argomento iniziale rischiando inoltre di dire troppe stupidaggini: meglio che smetta salvando la dignità… e prima che qualcuno commenti: discorsi da donne!
20 Marzo 2009 alle 5:27 pm
Haa haaa! Ma allora C’È un poco di resipiscenza nell’animo femminile, almeno quando le sparano grosse… Le diversità del vuoto. Effettivamente quando non c’è nulla questa assenza È un po’ colorata da ciò che la circonda. Mi ricorda quella del Negroni: “Mi prepara un Negroni senza fettina d’arancia, per favore?” “Mi spiace signore, le fettine d’arancia sono terminate”, “Pazienza, me lo prepari senza fettina di limone allora.” 🙂
20 Marzo 2009 alle 10:24 pm
Ci avrei giurato su quanto “tu” hai di più caro che quello che sarebbe intervenuto in proposito saresti stato tu, però la storiella del Negroni io la sapevo al contrario!
21 Marzo 2009 alle 11:38 am
[36]Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. [37]Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. Mt, 5.
La storiella del Negroni al contrario? Wow! Dev’essere bellissima. Comunque, quello che intendevo dire, in sintonia con Matteo, è che certi argomenti non vanno presi alla leggera. Le ipotesi buttate lì su ciò che è al cuore della vita spirituale delle persone quando vengono prese in modo… umoristico occorrerebbe ringraziare: potevano arrivare scrosci ben più sonori.
PS: il Negroni prevede una fettina d’arancia nella sua ricetta base. Chiedere un Negroni senza fettina di limone, anche in assenza di limoni, di regola, non sortirebbe lo stesso risultato.
21 Marzo 2009 alle 9:08 pm
A questo punto, se ribatto mi comporto da petulante; se non rispondo, da indifferente e maleducata. Qual è il male minore? Forse un brindisi a suon di Negroni senza la scorzetta di cedro?
22 Marzo 2009 alle 11:58 am
Noooo! La scorza di cedro non ci sarebbe comunque. Sarebbe come chiedere un Negroni senza un topo dentro…
Però, in quello che diceva Cristina c’è una parte di “vero”, inteso come reale. Per questo, o partendo da questo, le sue conclusioni eccentriche hanno una base che condivido. A volte succede.
Il fatto a cui mi riferisco è che durante zazen il ritorno a me in quanto non-me (e perciò privo di qualità o attributi) è appunto un ritorno. “Ciò” da cui torniamo è maschio, femmina, ambedue ecc. come pure è questa persona e non un’altra. E questo è parte integrante della pratica, non è una deviazione. Per cui si può dire che durante la pratica religiosa profonda uomo donna, ricco povero, giovane anziano hanno ancora senso, anche se è un senso negato, di cui ci si libera appena possibile.