Ven, 23 Gen 2009
Dal blog nel blog: “Ogni giorno è un buon giorno?”, a cura di Marta e Doc
Per stare in tema….buongiorno a tutti.
Non so a voi, ma a me il nome di questo neo-nato blog mi ha riportato immediatamente alla mente il momento del risveglio. Non del “Risveglio”, ma del normale risveglio mattutino. Quello un po’ difficile, in cui, dopo che il corpo ha lasciato la tranquillità del sonno, mette in movimento il pensiero attorno alle varie “cose” da fare durante la giornata. Velocemente si passano in rassegna i vari impegni, vengono previste
azioni e reazioni. Il tempo viene riempito prima che arrivi. Anche il tempo “vuoto” viene incasellato tra una cosa e l’altra. Sembra quasi una legge fisica da cui non ci si può sottrarre. Devo, in qualche modo, pensare prima ciò che dopo vivrò. Questo mi dà sicurezza… ma poi mi dà anche la sensazione di ripetere cose già viste, di vivere quasi sempre lo stesso giorno. Chi se ne intende lo definisce stress, lo stress del vivere moderno.
Ma…. torniamo indietro, al risveglio, quello solito, sempre quello mattutino. E’ un giorno nuovo, unico, diverso da ieri e diverso da domani. Un tempo che non si ripeterà più, in cui ciò che accadrà sarà unico, sia in negativo che in positivo. Un giorno in cui molte cose si presenteranno a me ( se le voglio vedere ) nella loro realtà, che io posso ignorare, ma che posso anche cercare di comprendere. non per analizzarle, ma perché, in qualche modo, hanno a che fare con la mia vita.
Certo, le cose da fare rimangono le stesse, ma noi possiamo essere un po’ diversi e forse un po’ di “ansia” è scomparsa.
Forse…davvero ogni giorno può essere un buon giorno!
11 Commenti a “Il buon giorno”
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23 Gennaio 2009 alle 5:29 pm
Buongiorno Marta. Eccoci qui, dunque; a partire – giustamente – dal risveglio.
Ahi ahi! Un tema ostico ai bradipi serotini tra i quali ho l’onore di annoverare la mia modesta persona. Anche noi bradipi, nel nostro piccolo, ci troviamo, al mattino, con gli occhi cisposi di sonno, già a fantasticare sul tempo che viene e ad organizzarci in qualche modo la giornata. Non mi è difficile esserti controparte su questo tema; mi sembri una personcina ‘serenamente organizzata’, che non si lascia prendere facilmente in contropiede nella quotidianità.
Il ‘tema del risveglio’ incarna a mio parere una delle maggiori difficoltà della vita ‘laica’: non essendoci una regola di comunità che ci permetta di agire momento per momento perché qualcun altro (la comunità, la regola, l’abate) scandisce il tempo per noi, ognuno si organizza a modo suo ma nessuno sfugge alla tirannica ‘legge della programmazione’. C’è chi stende elenchi infiniti di cose da fare, scadenzati magari con orari e tempi (i tempi/metodi delle programmazione industriale trasferiti concettualmente alla vita famigliare); c’è chi lo fa la sera prima, per poi addormentarsi con la coscienza a posto. C’è chi cerca di ridurre al minimo questa fonte di stress, chi invece ci sguazza e ne fa una ragion di vita.
Per me rimane a tutt’oggi un nervo scoperto; una delle difficoltà maggiori che mi sono trovato ad affrontare negli ultimi 26-27 anni, da quando, cioè, ho cercato di far quadrare il connubio tra una vita ‘contemplativa’ ed una vita sociale-produttiva.
Non esistono regole, neppure in questo campo.
Tuttavia una considerazione che mi pare interessante è questa: nella nostra esigenza di costruirci ‘sicurezza’ – è vero, una buona programmazione dà senso di sicurezza e di potenza – stiamo attenti a non metterci da soli in trappola. Voglio dire: troppo spesso ci costruiamo bisogni impegni e scadenze che hanno giustificazione ed origine solo nella nostra mente e poi…ci sentiamo obbligati a rispettare quel programma ad ogni costo. E poiché di solito il programma è ridondante – quante cose dovremmo/vorremmo fare! – non solo non abbiamo più tempo per noi stessi e di conseguenza per gli ‘altri’, ma qualunque intoppo od imprevisto (ad esempio l’interferenza con i programmi altrui, la ‘crisi del bagno occupato’…) rischia di divenire per la nostra mente via via più eccitata una sorta di congiura, nei nostri confronti e nei confronti del nostro ‘santo sforzo’ di vivere ordinatamente. E così si porta via quell’ultima, residua speranza di tranquillità dello spirito.
Se ho ben capito, tu sei molto abile a costruirti la giornata; semmai il tuo stress si chiama ripetitività. Ma, ne converrai, molti tendono a capitalizzare, monetizzare il tempo; e questo sovente – molto sovente – collide con gli interessi (‘programmi’) altrui generando contrasti e tensioni. E inibendo anche la capacità di apprezzare buona parte delle ‘cose che si presentano a me’, impreviste ed inaspettate. Uniche, come tu osservi.
Quanti fiori calpestati, quanti paesaggi ignorati, nella nostra folle corsa verso…il nulla. Quanti clacson suonati senza nessunissima allegria!
23 Gennaio 2009 alle 8:12 pm
Caro doc, bentrovato! Il tuo commento mi ha fatto ritornare alla mente una domanda che mi ha assillato per parecchio tempo e per la quale non credo, tutto sommato, di avere ancora una risposta “certa”.
Quanto è necessario per una persona “laica” ricavarsi uno spazio-tempo per “coltivare” la vita contemplativa? Cosa fa nascere in una persona “normale”, l’esigenza di porsi di fronte al problema del perchè della sua esistenza? E di tentare di cercare una risposta appunto attraverso un percorso di studio, di meditazione, di pratica, che vada al di là della normale partecipazione ai riti ( senza nulla togliere al significato che questi hanno)? Se la scelta di vita è stata quella dell’ inserimento nella società, diciamo produttiva e familiare, quanto è giusto ricavarsi il tempo per sè e magari sentirsi insofferenti quando gli impegni ti impediscono di “rientrare” nel tuo spazio-tempo?
Decisamente non è un problema di poco conto tentare di conciliare questi due aspetti della vita, senza che uno prevalga sull’ altro o che entrambi “sovrastino” sulla vita che dovrebbe (?) essere vissuta nel modo più autentico possibile. A dire il vero, a volte sono stata tentata di ridurre al minimo ( se non di eliminare ) i momenti “meditativi” e per qualche periodo l’ho anche fatto per vari motivi. Ma dopo un po’, anche l’altro versante ( quello familiare e sociale ) ne ha risentito perché quello che mi mancava non era “altro” rispetto alla normale vita ma ne faceva così parte che nell'”eliminazione” ( perdonami il termine) avevo tolto, come dire, una parte di linfa che alimentava tutto il resto. Chissà se mi sono spiegata! Intanto… buona serata!
24 Gennaio 2009 alle 2:33 am
Ciao Marta,
hai centrato il nocciolo della questione, secondo me. Anzi, di due questioni.
Ti propongo di analizzare la prima col metro del dolore’, del ‘disagio’. ‘Dukkha’ nelle sue molteplici forme; la prima nobile verità. E’ quella che ci introduce al problema fondamentale, alle domande fondamentali: fatte salve possibili eccezioni, tutti si parte da lì no?
Doghen rimase orfano di entrambi i genitori in tenera età, per fare un esempio a noi ‘vicino’. Lui, che era Doghen, ha reagito allo shock con una domanda ‘autentica’ (cioè al di là dei riti) di ‘verità’. Altri avrebbero reagito forse con spirito di rivalsa sulla vita, di vendetta rabbia odio frustrazione ecc. Molti avrebbero vagato ancora a lungo prima di raggiungere un carico di sofferenza tale da costringerli di nuovo a fermarsi e ‘convertire’ la loro visione delle cose.
Non credo che con questa chiave di lettura ci siano ancora tante persone ‘normali’: la sofferenza è nella vita, è in noi come è fuori di noi. Nessuno ne è esente, anche se qualcuno ne è solo sfiorato ed altri ne sono sovrastati. Però, mi pare tu dica anche, cosa è quella ‘sensibilità’ che fa si che allo stesso stimolo doloroso, due persone reagiscano in modo difforme? Immagino che un buddista dovrebbe qui tirare in ballo la questione della ‘maturazione karmica’ o qualcosa del genere. Un cristiano potrebbe forse parlare di ‘èntità’ del peccato originale?
Però mi sembra uno di quegli interrogativi che ci portano a spasso inutilmente, un po’ come la storiella buddista del soldato colpito da una freccia, che non si fece troppe domande ma se la fece estrarre.
24 Gennaio 2009 alle 2:34 am
E questo mi conduce alla seconda questione. Mi pare che, per chi entra nella via, man mano che la funzione del dolore come carburante del processo di autosviluppo diminuisce, subentrino altri elementi: la volontà, la comprensione, anche l’attesa di risultati, una sorta di entusiasmo, per arrivare alla fede ed a quello che la fede di ogni tempo e latitudine esprime a parole come l’inarrestabile desiderio di stare sempre più vicini a…. E nello stesso tempo una sorta di ‘disinteresse’, distacco dalle cose del mondo. E infine la testimonianza. Più che elementi irrinunciabili credo siano tutti aspetti del proprio modo di (tendere a) vivere in modo autentico. Dovremmo forse recitare una parte? E che parte? In un cero senso, recitiamo sempre delle parti, ed ogni tanto abbiamo bisogno di ritrovarci, perché umanamente, tra uno spettacolo e l’altro, ci siamo persi.
La pratica “meditativa” e la vita famigliare –sociale-produttiva si influenzano pesantemente l’un l’altro. Interdipendono strettamente, come il cerchio e la botte. Si va avanti così: un colpo al cerchio…uno alla botte… Così ci si affina, alla scuola dei mastri bottai: sbagliando, sbagliando e sbagliando ancora. Almeno, questo è quanto mi capita, e certo ogni buon consiglio è il benvenuto
24 Gennaio 2009 alle 11:16 am
Buongiorno a voi, Marta e Doc. Ieri ero in viaggio e non ho potuto contribuire con il mio augurio: buon futuro al vostro blog nel blog della Stella!
25 Gennaio 2009 alle 9:50 am
Grazie mym. Ciao doc. Adesso andrò sicuramente fuori tema ( ahi ) ma vorrei comunque comunicarti i pensieri che mi sono apparsi durante una passeggiata pomeridiana “pensando” a quello che avevo letto sul blog. Premessa: io sono, a detta di chi mi frequenta, una persona notoriamente (sig!) seria, del tipo ” il giorno vissuto è sempre imperfetto quindi…” ecc
Sentire la tua conclusione sulla “ineluttabilità” dello sbagliare ha risvegliato in me il pensiero: ma sbagliamo proprio sempre? …….facendomi riflettere su alcune mie posizioni. Ma non voglio entrare in merito alla cosa che mi porterebbe in un’altra direzione. Mi ha colpito il fatto che ad un ceto punto alcune parti di me venivano portate, per così dire, alla mia “coscienza” attraverso l’ascolto delel tue parole ( cosa che probabilmente avviene nella normale comunicazione ma senza rendercene conto ).
Hai presente quando hai la percezione di toccare con mano un’idea che avevi letto da qualche parte ( che magari ti sembtava di avere capito ma che era rimasta a livello intellettuale? )
Ecco, l’idea era proprio questa: che si comincia a conoscere veramente sè stessi quando ci si trova di fronte ad un altro, che cessa di esssere “altro ” da te ma diventa un “tu”. Conosco “me” quando trovo qualcuno ( a volte qualcosa ) che com-partecipa della mia stessa situazione ( in senso lato ): con questo non voglio chiaramente dire che si debba essere d’accordo sulle cose, si può averle anche opposte ma è la dimensione e l’atteggiamento che fa la differenza.
Ecco, questo ri-annodare una parte interiore di me con un’altra, in una conoscenza reciproca, mi fa intuire uno dei possibili motivi di senso di essere in questo blog. Tu cosa ne dici? Un saluto
25 Gennaio 2009 alle 4:43 pm
Penso anch’io che questo dia significato al blog. E’ vero, è una specie di ‘dimensione’ quella che fa la differenza. Le persone (noi tutti) si incontrano di solito per competere, affermare, affermarsi e via dicendo: su quest’altro versante accade invece che ci accorgiamo che c’è un ‘filo’ che ci unisce tutti per cui non ci sentiamo più cose diverse, separate, antagoniste. Siamo ‘lo stesso funzionamento’. Come le zucche della parabola di Uchiyama, che dopo aver litigato a lungo si accorsero di essere tutte collegate allo stesso ramo.
Ma questo non risolve naturalmente i problemi e le difficoltà della vita di ogni giorno dove, come singole monadi separate e sovente impazzite, sbagliamo in continuazione. Ma cosa vuol dire che sbagliamo? è chiaro che quella mia è una affermazione relativa e discutibile. Perciò, essendo per me troppo difficile definire lo ‘sbagliare’ al di là della accezione corrente della parola, preferisco cercare di caratterizzarlo in negativo. Quando è che NON si sbaglia? Casualmente sto leggendo un libro degli anni ’70 che non avevo mai letto, di tal Daniel Goleman; qui ho trovato questa frase: “il frutto del Nirvana per il meditante è la purezza morale senza sforzo; infatti la purezza diviene l’unico comportamento possibile”. Ecco, lì non si sbaglia. Ma basta lo spazio di un capello per essere in errore, in un certo senso. E’ un po’ come dire, con Paolo: “ogni uomo è mentitore, solo Dio è verità”.
Scusa se le ho sparate un po’ grosse: quando si affrontano certi temi sarebbe più prudente forse tacere, per non ‘mentire’ troppo. Ma se tacciamo tutti …
un amico mi ha detto, non molti giorni fa, per incoraggiamento: ‘senza castronerie, non c’è Zen’.
25 Gennaio 2009 alle 8:17 pm
Carissimi, essendo un grafomane rompitasche parteciperei ben volentieri alla seduta, ma non si potrebbe “concentrare” un pochino? in fondo è molto zen: mettere bene a fuoco, per poter lasciar-andare meglio… E qui m’interrompo, altrimenti (come scriveva Confucio) rompo gli zebedei. ciaooo
26 Gennaio 2009 alle 12:28 am
Grazie dr, hai ragione. Stiamo provando a trovare una cadenza equilibrata. Troppo diluito o troppo concentrato, non va bene. Benvengano dunque i suggerimenti e gli inserimenti di questo tenore; ed anche nel merito. Buona settimana a tutti.
27 Gennaio 2009 alle 10:26 am
… oops, mica stavate aspettando me? non ho argomenti “in proprio” da lanciare. ma se buttate un sasso in piccionaia, farò volentieri da piccione. buona settimana anche a voi.
27 Gennaio 2009 alle 3:55 pm
No dr,rilassati pure. Non “aspettiamo” nessuno: il tuo intervento è stato già interessante e utile così. Certo, se la prossima volta sarai della partita, sarai il benvenuto! ciao