Mar, 16 Dic 2008
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie recita una nota poesia di Ungaretti, intitolata Soldati, bosco di Courton luglio 1918. Il tema della fugacità della vita è al centro della nuova puntata de All’ombra del Partenone. Un’audace e azzeccato richiamo al Leopardi e la Grecia antica ci parla del dramma del tempo che sfila via mentre la vecchiaia annuncia la fine della vita. Una traduzione originale, sempre per la penna di CC.
“Noi, quali le foglie che la stagione di primavera dai molti fiori genera non appena crescono ai raggi del sole, ad esse simili godiamo per il tempo di un cubito dei fiori di giovinezza, dagli dei non sapendo né il bene né il male; ma già ci stanno vicino le nere Parche, reggendo l’una il termine dell’odiosa vecchiaia, l’altra quello della morte: il frutto della giovinezza dura un attimo, quanto sulla terra si diffonde il sole. Ma quando il termine di questa stagione sarà passato oltre,
allora l’esser morto è meglio della vita, molti infatti sono i mali del cuore: ora la casa è in rovina e ne vengono le dolorose molestie della povertà; uno desidera figli, per la mancanza dei quali più che per ogni altra cosa soffrendo scende sottoterra nell’Ade; un altro ha una malattia che distrugge l’animo; e non c’è nessuno degli uomini al quale Zeus non dia mali in gran copia.” (Mimnermo 2 D.)
“Quale vita, quale gioia senza l’aurea Afrodite? Che io muoia quando non mi stiano più a cuore queste cose: l’amore furtivo e i dolci doni e il letto, fiori di giovinezza che sono desiderabili ad uomini e donne; ma una volta che sia giunta la dolorosa vecchiaia, che rende un uomo brutto quanto spregevole, sempre odiosi affanni a lui logorano la mente, né si rallegra vedendo i raggi del sole, ma inviso ai ragazzi, spregevole alle donne: così il dio volle penosa la vecchiaia.”
(Mimn. 1 D.)
Questi versi valsero al poeta Mimnermo, vissuto a Colofone o a Smirne tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., l’appellativo di “ il Leopardi dell’antichità”. E tuttavia nemmeno il lettore più frettoloso si lascia ingannare dall’apparente comunanza del tema: la fugacità della giovinezza e dei suoi doni, l’incombere della vecchiaia coi suoi affanni. Così il Leopardi caratterizza l’estrema stagione della vita: “… quando muti quest’occhi all’altrui core / e lor fia voto il mondo, e il dì futuro / del dì presente più noioso e tetro…” (Il passero solitario, vv. 53-55).
E altrove: “…Estremo / di tutti i mali, ritrovar gli eterni / la vecchiezza, ove fosse / incolume il desio, la speme estinta, / secche le fonti del piacer, le pene / maggiori sempre, e non più dato il bene.” (Il tramonto della luna, vv. 45/50).
Il poeta greco ignora la dimensione interiore del tempo, dove lo scorrere degli anni toglie agli occhi non tanto la funzione visiva quanto la capacità di parlare al cuore altrui, la percezione della pienezza del mondo, la possibilità di figurarsi un “dì futuro” sgombro da tetraggine e noia esistenziale; né lo turba il dissidio tra il vigore intatto del desiderio e il crollo definitivo della speranza. Non è certo, questo, difetto di Mimnermo: la scoperta dell’interiorità avviene nel mondo greco soltanto secoli dopo, né la società aristocratica arcaica, che è l’ambito in cui la poesia si sviluppa e al quale si rivolge, chiede al poeta di svelare il proprio animo. La poesia lirica nasce nell’ambito del simposio, istituzione che ha un ruolo di primo piano in tale società. I giovani uomini delle famiglie aristocratiche si riuniscono per banchettare, bere (1), intrecciare relazioni amorose,
giocare e discutere degli argomenti che stanno a cuore a tutti, a volte anche per organizzare azioni comuni riguardanti la vita pubblica e l’attività politica. Il poeta è colui che sa dare voce alla visione della vita propria del suo mondo socio-culturale: è il cantore dei temi comuni all’eteria cui appartiene, temi che spaziano dalla politica alla guerra alla caccia ai riti conviviali all’amore – anche quest’ultimo, al pari degli altri interessi, inteso non come un sentimento che coinvolge l’intimità individuale, ma come una delle vie attraverso le quali la stagione di giovinezza offre la gioia della vita.
(1) Non dimentichiamo il significato rituale del bere assieme, dalla stessa coppa, un po’ come oggi dalla valdostana “coppa dell’amicizia”. Allora il rito aveva però un valore ben più pregnante presentando una forte connotazione religiosa in quanto il vino è il dono che Dioniso diede agli uomini: bere assieme era celebrare il dio, cosicché i legami dell’eteria consacrati nella comunione del simposio erano più vincolanti di quelli della parentela e la vergogna più grave era tradire gli etairoi, i compagni.
6 Commenti a “Come le foglie”
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17 Dicembre 2008 alle 12:51 pm
Suggestioni sul tema del tempo e della fugacità della vita: tra Leopardi e Ungaretti … preferisco Pascoli!
Tu dici, É l’ora; tu dici, É tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo,
cose ch’han molti secoli o un anno
o un’ ora, e quelle nubi che vanno.
(L’ora di Barga)
17 Dicembre 2008 alle 7:37 pm
Un altro modo di intendere il tempo, dovuto a una sensibilità né migliore né peggiore: diversa… come ogni persona è diversa da ogni altra.
23 Dicembre 2008 alle 8:45 am
Il frutto della mia givinezza non è altro che la rimembranza di feste e banchetti al modello del Simposio.Un ricordo avvizzito dalle odierne e borghesi cene di lavoro o di famiglia, in cui si esclude il cazzeggio o il delirio(controllato) e si riempono le pance. Sebbene ci si alzi da tavola dopo aver assoporato le pietanze più prelibate e i vini migliori, ci si sente denutriti di valore e di senso.La nostalgia del mondo greco è nostalgia del politeismo; di una cultura che ha avuto il merito di concedere al divino la facoltà di esprimersi con tutte le forme umane (ciò rappresentano gli dèi) esemplificando al sommo grado la tolleranza.Il principio della tolleranza si basa proprio sulla molteplicità, di cui non è capace il monoteismo, detentore di una verità assoluta.Le domande assillanti allora sono queste: Ridendo della morte del dio crisiano siamo condannati ad un paganesimo senza Olimpo?E come si fa a riprendersi la vita?E il tempo?
23 Dicembre 2008 alle 11:15 pm
Bella domanda: come riprendersi la vita e il tempo? Non credo proprio che esistano formule capaci di rispondere ugualmente a tutti, formule universalmente valide che restituiscano individualmente ad ognuno il “proprio” tempo: pensa che Proust ci ha impiegato sei ( o sette) volumi? e ha ritrovato solo il suo… Personalmente non mi è servito nessun dio, né unico né appartenente a un pantheon variegato, né alcuna fede o ricetta trascendente o al di là dell’umano: l’ho trovato dentro di me, ma devo stare attenta a non perderlo di nuovo, anzi a ritrovarlo ad ogni passo… Non credo che i Greci di allora si ponessero il problema in questi termini: la ricerca della Verità ha cominciato a turbare le menti solo in tempi molto più tardi di quelli che videro il fiorire dei poeti interessati essenzialmente a cogliere i fiori della vita – che allora era ben più difficile di quanto la possiamo conoscere noi oggi!
24 Dicembre 2008 alle 1:34 am
Io ho ritrovato me stesso e pure il tempo.Detto in termini metafisici il trascendente (Dio) è divenuto immanente, cioè contenuto della ragione.Avendo ritrovato me stesso (e godendo di buona salute) non voglio ri-scrivere la Recherche, però se non scrivo mi perdo…La Verità?La bellezza? Sono passati i tempi, ora ci vuole di più molto di più.Il problema del tempo si pone in termini di pazienza. Per esempio quanto tempo ci vuole per ‘vedere’ 5000 anni di storia delle religioni?Cominciando dagli indiani, escluso i greci, in due minuti è
tutto finito.Ma se invece di tempo parliamo di pazienza e chiediamo:”Quanta pazienza ci vuole per arrivare dai Greci a noi?”. Se si parla di tempo in un’ora si è già arrivato a Parmenide. Se si parla di pazienza io non ci ho ancora messo piede.Ecco perchè si parla continuamente di tempo:perchè in men che non si dica tutto è fatto. Per questo il mio turbamento è la pazienza.
Felice Natale.
P.S. Penso che anche per gli indigenti poeti contemporanei (poveretti) sia difficile,al pari
dei greci, cogliere i frutti della vita.
24 Dicembre 2008 alle 8:54 pm
Credo che per cogliere quei frutti ci volesse molto più impegno allora che oggi: pensa solo all’eventualità che quei poverini avessero mal di denti!
Sono contenta, per te, che il tuo dio sia divenuto, da trascendente, immanente, anche se non mi è chiaro come ciò possa succedere: mi è invece chiaro come una soluzione che soddisfa uno non soddisfi necessariamente un altro. Ne abbiamo già parlato pur se in altri termini: così se ci sono cose belle non conosciamo tuttavia la Bellezza, e a questo punto si deve scegliere se credere che da qualche parte ci sia e continuare a cercarla, oppure accontentarsi di godere delle cose belle: perciò, buon Natale a te! Cristina