Mar, 18 Ago 2020
In soli 19 giorni, grazie alla vostra collaborazione, abbiamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati. Anzi, lo abbiamo superato, seppure di poco. Per la stampa del libro La pratica dello zazen, il lavoro del grafico e la spedizione dalla tipografia alla Stella, abbiamo speso circa 600 euri. Per spedirvi circa 110 copie, abbiamo speso (buste+affrancatura) circa 400 euri; il totale delle spese è stato quindi di 1.000 euri. Le vostre generose donazioni ammontano a circa 1.100 euri, che terremo da parte per il prossimo lavoro.
Che si annuncia molto più impegnativo: un Editore si è detto disposto a pubblicare la traduzione di tre opere di Vasubandhu ed una di Asanga, con i rispettivi auto-commenti e commenti da parte di Vasubandhu e Sthiramati, oltre a puntuali spiegazioni da parte del curatore inglese e del curatore italiano; un’opera estremamente interessante, seppure non facile, alla quale ha lavorato un team di 5 persone durante gli ultimi 4 anni. La pubblicazione, speriamo prima della prossima estate, sarà possibile (come oramai è prassi presso quasi tutti gli editori) grazie all’esborso di una somma, in cambio della quale alla Stella verranno assegnate alcune centinaia di copie. A quel punto torneremo nuovamente a chiedere la vostra collaborazione. Grazie.
PS: Il testo La pratica dello zazen è ora disponibile gratuitamente nella versione ebook, sia nel formato epub che in quello pdf. Come di consueto, potete trovare le versioni digitali nella pagina Librionline
14 Commenti a “Missione compiuta!”
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21 Agosto 2020 alle 9:49 am
Buongiorno a tutti.
Ho letto con attenzione il testo ‘La pratica dello zazen’ apprezzandone la chiarezza e alcuni aspetti sempre da approfondire. Approfitto di alcune perplessità che mi sono sorte leggendo le pagine 100-101 dove si parla della postura dello zazen. La prima riflessione che mi è apparsa nella mente è stata: “Se questa è, come sembra dal dire, l’unica postura (loto o mezzo loto) che consente di fare zazen, allora lo zazen è interdetto al 99 per cento della popolazione occidentale.” Ricordo che nell’opuscolo ‘Sedere in pace’ sempre edito dalla Comunità della Stella del mattino non è esattamente così.
Do per saputo, dato il pubblico a cui mi rivolgo, che c’è sempre un ‘tendere’ alla postura corretta, questo, però secondo me, non dovrebbe passare attraverso dolori lancinanti. Frequento il Centro di Vicenza ormai da 10 anni e anche da parte dei giovani,(sulla trentina) risulta impossibile (cioè la gamba non va proprio su) anche mettersi in quarto di loto. Con dedizione e tempo qualcuno riesce ma cosa dovrei dire a chi, pur dedicandosi sinceramente alla pratica sia al dojo che a casa, non può fare altro che praticare sinceramente sedendosi sul panchetto?
Un saluto con riconoscenza per ciò che mettete a disposizione di quanti cercano di seguire la Via.
PS Refusi: pag 43 terz’ultima riga (accento)
pag 47 ultimo capoverso (accenti)
23 Agosto 2020 alle 9:26 am
Ciao Marta. La questione che poni non è semplice, anzi, è proprio una “grande questione”. Le risposte di Paolo Sacchi in Sedersi in pace mi paiono spendibili.
Mishima fu un campione di kendō e lo zen un tema ricorrente nelle sue opere. Scrive in Sole e Acciaio: «Grazie all’acciaio [dei bilancieri] appresi molte verità sui muscoli. Era quella la conoscenza più spontanea, che né i libri né l’esperienza del mondo potrebbero assolutamente donare. I muscoli, oltre ad essere una forma, erano anche una forza, e la responsabilità della sua direzione era infinitesimamente suddivisa tra tutti i fasci di muscoli, proprio come una luce creata nella carne.»
Un corpo che esegue perfettamente la posizione del loto emana una luce che un corpo sgraziatamente seduto non emana. Ma è davvero così? Non lo so. Ne Il padiglione d’oro, il personaggio che per la sua bellezza attira l’invidia del protagonista aspirante monaco è uno storpio, dunque uno impossibilitato a sedersi nella posizione del loto.
23 Agosto 2020 alle 9:26 am
Yokoyama Sodō accenna in Accanto alla vecchia pietra (La pratica dello zazen, p. 73.) alla relazione tra buddismo e kendō e forse ci fornisce una chiave per risolvere la questione. Quello che conta, dice, è «Non risparmiarsi alcuno sforzo». Certo che un trentenne che non ha elasticità alle gambe, non dico di mandarlo alla scuola militare, ma dei seri esercizi di stretching, propedeutici alla postura, glieli prescriverei (almeno 6 settimane, e se è il caso, aiutandosi anche con delle corde). Indovino l’obiezione: «Seee, figurati!, etc». Eppure a p. 76 è scritto che «Nel buddismo lo “sforzo” non è limitato a questa vita. Comprende la risoluzione a praticare per innumerevoli nascite e morti, per l’eternità.» Dunque, che dire ai praticanti? Dipende da caso a caso. Se hai davanti uno di quei rari esseri che usano la religione come strumento di autodisciplina e elevazione, allora va bene la durezza. Tali soggetti si motivano meglio tanto più la pratica è odiosa. E se hai di fronte una persona ordinaria, che usa la religione per abbellire la propria miserevole esistenza? In questo caso vanno bene le risposte di Paolo Sacchi al paragrafo 9.
Ma sono forse un maestro zen? Se si escludono alcune sfrenate fantasie dove tiranneggio un manipolo di esaltati, direi proprio di no.
23 Agosto 2020 alle 9:52 am
Buongiorno Marta,
mi permetto di intervenire perchè faccio parte dei “giovani a cui risulta impossibile”.
Secondo me parlare di “unica postura che consente etc…” è eccessivo. È
indubbiamente la migliore, quella che facilita il risvegliarsi, e questo è facilmente verificabile empiricamente.
Oltretutto da un certo punto di vista (al netto di anche molto “chiuse” che scaricano la torsione sulle ginocchia e ciao ciao menischi) è la più sicura. Nella posizione birmana o in quelle “intermedie” le ginocchia sono molto distanti fra loro e questo comporta una posizione del femore relativamente all’acetabolo molto poco simpatica che a lungo (o medio) andare causa/puó causare problemi (tipo appunto la sindrome femoro-acetabulare). Il panchetto non è male secondo me, peró non è facile trovare un buon allineamento con la schiena a meno che non sia uno di quei panchetti “dondolanti”. E comunque l’hara è meno aperto rispetto alla postura a gambe incrociate. La sedia è la posizione peggiore perchè per mantenere un po’ di retroflessione del bacino bisogna sedersi “più in alto delle ginocchia”, quindi “in pendenza”. Il che, non essendoci poi le ginocchia sul pavimento a frenare, causa l’attivazione dei quadricipiti e comporta comunque una posizione instabile per la schiena che va “sostenuta di più” (e che si irrigidisce, duole etc..). Tralasciando il mal di chiappe allucinante che viene dopo un paio di periodi visto che “si scivola comunque”…
Anche io penso che il “tendere a” non dovrebbe passare attraverso dolori lancinanti. È un approccio che puó funzionare per qualcuno ma puó essere estremamente traumatico per altri, risultando poi controproducente. È un “tendere a” che va fatto con delicatezza e con discernimento. E con costanza.
Personalmente penso che il fatto di praticare sul panchetto o sulla sedia abbia dei risvolti interessanti. In un certo senso sono situazioni svantaggiose, in un altro senso no. Rendono più difficile la pratica del “lasciare andare”, ma allo stesso tempo evitano prese di posizione troppo rigide tipo “lo zazen è per forza così o cosà”.
Il gioco sta nel non cadere nè nel “li mortacci sta vita infame che non mi posso sedere nel loto e non riuscirò mai a praticare il Vero
Zazen”, nè nel “Faccio cose vedo gente, siamo tutti illuminati a prescindere e il panchetto è uguale allo zafu”
23 Agosto 2020 alle 10:01 am
@3 HMSX
Se con “chi usa la religione come strumento di autodisciplina e di elevazione” fai quel giochetto lì, secondo me lo spingi ancora di più dove non dovrebbe andare…
23 Agosto 2020 alle 11:06 am
Ciao Marta, bentornata, grazie per la segnalazione dei refusi.
Molto chiaro quello che dici. Tuttavia, a mio parere, dai per scontate alcune cose che non è detto debbano necessariamente essere nel modo in cui dici. Ti hanno già risposto egregiamente sia Hmsx e Fago, ma siccome le pagine 100 e 101 sono uscite dalla mia … tastiera non mi sottraggo e ti dico la mia. Sono un esperto di dolori alle gambe. Per sedermi, per 40-50 minuti, nel mezzo loto senza patire le pene dell’inferno, ho impiegato decenni. Il fatto è che la situazione delle gambe di noi occidentali non è un dono del cielo, non è una condizione ‘naturale’. Ce la siamo procurata noi, smettendo di sederci a livello pavimento, ovvero con l’uso delle sedie e dei loro equivalenti. La nostra rigidità, in primo luogo quella delle anche, è causata da un nostro comportamento contrario o disarmonico con la posizione dello zazen. Se vogliamo recuperare l’elasticità delle gambe necessaria allo zazen, una capacità già nostra dalla nascita, occorre seguire il percorso inverso, ciascuno secondo le proprie condizioni, con tutte le difficoltà del caso. Ci sono dei video tutorial, tipo questo e questo, i cui esercizi seguiti giornalmente, con costanza, conducono (quasi) chiunque almeno al mezzo loto. Il “quasi” sta per chi ha, o ha avuto, patologie o traumi invalidanti. Ma anche in questo caso, con la costanza e la dedizione si ottengono risultati apprezzabili. Conosco una persona, anziana, che lo scorso novembre ha subito un’operazione di protesi completa al ginocchio: significa ritrovarsi con una gamba dritta e rigida come un bastone che duole terribilmente al minimo tentativo di piegarla. I primi mesi si esercitava per un’ora e mezza al giorno, ora ha ridotto a trenta minuti. In nove mesi ha ripristinato la possibilità di sedersi nel mezzo loto, sia a destra che a sinistra, seppure per periodi non lunghi. Dai suoi racconti so che non è stata una passeggiata. Se i giovani di cui parli, durante gli ultimi anni, avessero trascorso, ogni giorno, almeno un’ora a eseguire gli esercizi necessari, sono sicuro che non avrebbero i problemi di cui parli o li avrebbero in misura trascurabile.
È difficile? Certo. Nessuno ha mai detto che sarebbe stata una cosa facile. Anzi. Per imparare a fare davvero zazen, spesso occorrono decenni trascorsi seduti davanti al muro. Perché non dovrebbe essere che occorra un tempo analogo per far assumere al nostro corpo la forma dello zazen?
23 Agosto 2020 alle 12:29 pm
Caro fago, @6 non ho mai spinto nessuno a fare alcunché.
La mia testimonianza è questa. Dai venti ai trent’anni ho praticato molto sport. Sia per potenziare i muscoli, sia per allungarli, perché ero rigido come un tronco. Il mio scopo era sedermi nella posizione del loto, e ci sono riuscito. Dopo mesi e col beneficio della giovinezza. Di compagni non ne ho mai trovati. Anche perché la concezione del culturismo in Mishima è l’antitesi di quello che si respira comunemente nelle palestre: chi mai avrei potuto spingere? Ciò vuol dire che una volta divenuto capace di sedermi nella posizione del loto ho ricevuto l’illuminazione? No. L’illuminazione, nel senso più ampio possibile, è accaduta. All’improvviso e nel modo più imprevedibile. E continua ad accadere perché non si dà una illuminazione che sia definitiva. Anzi, la ‘visione profonda’, diciamo, può anche decadere, o degenerare. Una mente vigile come la mia, registra anche questi eventi, come conseguenza di un certo lassismo nella pratica (leggi: mancanza d’impegno). Mentre l’esercizio della virtù, non so se alimenti la visione, ma di certo rende ricettivi. Se non suonasse empio, direi che “misteriose sono le vie del Buddha”. Un vero enigma.
23 Agosto 2020 alle 2:11 pm
Capito, grazie
Ma con “strumento di elevazione” intendi tipo quando uno dice a un pensiero “e levati dal ca…” 😉
Daje si scherza, un saluto
23 Agosto 2020 alle 4:51 pm
Io, fin dal primo giorno della mia vita che mi sono seduto in zazen, potevo già farlo nella posizione di il loto intero, anche prima di sedermi in zazen potevo già sedermi così, da sempre; è una grazia che la natura mi ha concesso, sebbene sembra strano in Occidente. Ma questo non credo che necessariamente rende il mio zazen migliore o peggiore di altri. Tuttavia, quando ho dovuto spiegare agli altri come sedersi in zazen, anche se ho iniziato a mostrarlo con questa postura, se non sono riusciti, cosa che spesso accade, non ho insistito; gli ho semplicemente detto che si tratta di una postura con molti vantaggi avalatte dalla tradizione, ma che l’importante è sedersi il meglio possibile, con la schiena diritta ma non rigida, e anche che, se volevano, potevo dare loro degli esercizi che facilitassero una progressione verso la postura a gambe incrociate (questo ultimo, per quanto ho visto, con risultati non troppo buoni, perché credo che nessuno abbia fatto questi esercizi).
Ma, seguendo la legge dell’inesorabile impermanenza di tutte le cose, da qualche mese il ginocchio sinistro mi fa un po’ male, solo un po’, sebbene non tanto da non potermi sedere con le gambe incrociate. Comunque, vedendo che la cosa non si fissava da sola, decisi di cominciare a sedermi a mezzo loto, invece che a mezzo loto, con la gamba sinistra sempre sotto, in modo che il ginocchio sinistro fosse più riposato; cosa che avevo già fatto in precedenza, quando ho dedicato qualche giorni alla pratica intensiva dello zazen, dove alternavo il loto con il mezzo loto, alternando in quest’ultimo la gamba che rimaneva sopra.
All’ultimo di questi ritiri, circa un mese fa, (gia, da prima, tutto il tempo in mezzo loto, con il piede sinistro sotto, senza alternare) dopo tre giorni di seduta, con i dolori del ginochio più o meno come al solito, cioè perfettamente sopportabili, ho notato però durante un riposo che il ginocchio sinistro si era gonfiato notevolmente. Un po’ sorpreso dalla novità del peggioramento, ho deciso che forse era il momento di lasciarlo riposare pienamente, e ho cominciato a sedermi su una sedia. Una bella novità per me! Secondo me, ha stato una fortuna che questo sia successo in un ritiro, perché avevo ancora davanti a me un giorno e mezzo e molte sedute, e questo mi ha permesso di studiare attentamente diversi modi di sedermi sulla sedia, e alla fine ho concluso che la posizione che sembrava funzionare meglio per me era quella di mettere uno zafu sulla sedia, che è il modo in cui mi siedo ancora oggi, perché ancora non ho un panchetto con cui sperimentare.
Dopo anni seduti in pieno loto, senza problemi, penso che questo cambiamento, invece di essere un passo indietro, sia stata una buona lezione, prima di tutto per il mio orgoglio narcisistico, ed anche per assaporare un po’ meglio l’impermanenza, che è un alimento che a partire da una certa età comincia ad essere frequente nei nostri pasti, e forse anche per evitare fantasie fuori luogo negli altri solo per avere un’innata flessibilità. Devo dire che non ho osservato una grande differenza tra il mio zazen attuale, su una sedia con uno zafu sopra, e quando mi sono seduto in pieno loto (forse perché il mio zazen era pessimo prima, o forse perché non era affatto tanto pessimo); quindi penso che la differenza con uno zazen buono o cattivo non dovrebbe essere in questa cuestione, per quanto sacrosanta sia per la tradizione.
Secondo me l’abbandono dello spirito, chez Dogen, consiste nel non lasciarsi trascinare dai pensieri quando appaiono, neanche dal sonno, svegliandosi e tornando mille volte a zazen ogni volta che ciò accade. E che l’abbandono del corpo sia quello di rimanere immobile in una postura che renda possibile e favorisca il risveglio di cui ho appena parlato. Quindi la postura del corpo deve essere quella che favorisce questa immobilità risvegliata, qualunque essa sia, momento a momento e per lungo tempo. Semplicemente.
Si dice spesso, ad esempio in questa sede, che quando non possiamo sederci sul kekafuza, dobbiamo comunque “tendere” ad esso. Ma mi chiedo: cosa significa questo “tendere”? Che quando mi siedo in una postura che non è un kekafuza perfetto penserò al kekafusa, sognandolo? o che penserò durante lo zaazen che dovrei fare un tale e tale esercizio in modo che nel tempo X posso sedermi in un modo diverso da quello che sto seduto ora? No! Mi siedi come mi siedi, questo è il mio sedersi adesso, la realtà che sto vivendo ora e nessun’altra (solo ideale, pensata), ed è a quella seduta, qui e ora, che devo ritornare ogni volta che me ne vado con i miei pensieri, il meglio che puoi.
Non so se alla fine sarò in grado di sedermi di nuovo sul loto completo o no, o, se non ci riuscirò, ovvero se dovrò indagare sulla posizione su un panchetto, ma in ogni caso ciò a cui devo prestare attenzione ora è il modo in cui mi trovo seduto ora; non se ci sarà un modo migliore di sedersi, in futuro, o come mi sono seduto in passato, neanche come si hanno seduto i antenatti. Forse, tenendo conto del fatto che oggi la maggior parte delle persone in Occidente non è in grado di sedersi nel loto, e sembra che anche in Giappone questo stia cominciando ad essere comune, questa situazione dovrebbe cominciare a normalizzarsi, senza milanconia. Nello Theravada sembra, per quello che dicono, che sia già così.
23 Agosto 2020 alle 8:58 pm
Grazie per gli interventi e per i tutorial.
24 Agosto 2020 alle 9:17 am
Ciao Marta, fa piacere risentirti, le firme femminili sono rare come la neve d’agosto da queste parti; anche se personalmente sono portato a pensare che esista un solo genere che, chissà, forse ci accomuna, quello umano, all’interno del quale ognuno è temporaneamente un esemplare unico, quindi ognuno fa genere a sé. Ma sto già divagando.
Alla domanda che poni sono state date risposte articolate e pertinenti, se non esauriscono la questione è perché non è questa la funzione delle buone risposte.
Ferme restando le considerazioni elaborate da quelle risposte, vorrei spostare l’attenzione, ampliando accenni già presenti negli altri post, sull’altra parte della posizione zazen, che è definita “la parte non fisica del nostro essere” alla fine di pag.101 del libro in lettura. A seguire leggo: “Il modo corretto di fare zazen è non occuparsi dei pensieri che sorgono, rimanere tranquillamente seduti, mantenendo la posizione. Facile a dire, ma molto difficile da realizzare…”: mi fermo, mentre invito a rileggere ancora il seguito fino in fondo.
24 Agosto 2020 alle 9:17 am
Tu scrivi (@1): “Se questa è, come sembra dal dire, l’unica postura (loto o mezzo loto) che consente di fare zazen, allora lo zazen è interdetto al 99 per cento della popolazione occidentale.” Parafrasandoti, una riflessione che a me viene alla mente è: “Se questa è l’unica postura – non occuparsi dei pensieri che sorgono, rimanere tranquillamente seduti, mantenendo la posizione che qui è, anche, la posizione “mentale” di non occuparsi dei pensieri che sorgono – allora zazen è interdetto al 100% della popolazione mondiale, di ieri, oggi e domani”. Il rovescio dell’universalità. Dividendo ciò che non va separato, se la posizione fisica zazen è difficile, la posizione mentale zazen è impossibile. Come faccio a non occuparmi dei pensieri che sorgono, se per farlo devo scorgerli sorti o sorgenti, dunque me ne sto in qualche modo occupando? Eppure, di questo si tratta.
Tutti o quasi lamentano la posizione fisica, e si comprende, fa male di un dolore riconoscibile: ma se la prendiamo dal punto di vista della difficoltà, beh allora la posizione mentale è molto, ma molto più dura, mette di fronte al dolore di una perdita a confronto della quale un po’ o tanto male alle gambe è poca cosa. Dico questo perché non vorrei che, focalizzandosi sul problema postura fisica, si sottovalutasse l’impegno estremo che richiede la (non) posizione mentale. Ci vuole niente che si passino anni seduti (nel loto intero o mezzo, in una delle varie alternative a terra, su un panchetto, su una sedia…) a vagare più o meno inconsapevolmente nei pensieri, o a pensare di non star pensando…
24 Agosto 2020 alle 9:17 am
Zazen è una forma del “taci e muori” altrove evocato. É il sacrificio di ciò che più amo, le facoltà del mio intelletto, del mio sentimento, della mia volontà. Ivi compreso il “buon senso”. Non sono previsti patteggiamenti e sconti di pena. Fukanzazengi di Dogen (pag. 16-19 del libro) è una specie di carta costituzionale del popolo zazen. Le carte costituzionali vanno studiate, spiegate, commentate (è quel che vien fatto nel libro) e si possono anche criticare e modificare, ma mai per adattarle alle proprie personali confacenti misure: altrimenti non sarebbero per tutti (fukan). Essendo per tutti, sono anche per nessuno in particolare. La forma (gi) fisica di zazen, doviziosamente spiegata, è forse la sola forma buddista visibile rimasta intatta nei secoli e nei territori, fino a qui oggi. Non è mai stata congeniale a nessuno, e qualora lo fosse, questo è solo una difficoltà in più. Ci andrei piano a introdurre modifiche generalizzate e a consigliarle agli amici. Siamo al tempo della wellness, della fitness, della mindfulness… ma qui nisciuno è ness. La postura è quella, fisica e mentale. Non riuscire a “tenere” né l’una né l’altra, che sono la stessa, è normale. La pratica è tendere verso, sedendoci dentro. Questo è l’impegno di tutti, per ciascuno diverso. I buoni consigli su come fare son già stati dati.
24 Agosto 2020 alle 8:28 pm
Buongiorno Jiso, concordo pienamente con quanto hai scritto e quindi niente ho da aggiungere se non che sempre si deve ritornare su questa Grande e forse unica Questione. Pure, come conclusione della domanda da cui sono partita, vorrei, sperando di non essere considerata una sentimentale o una presuntuosa, condividere alcuni aspetti della mia pratica. Uchiyama Roshi (pur non avendolo conosciuto) è stato per me il maestro grazie al quale (attraverso anche l’impegno della Stella del mattino) ho conosciuto e amato la pratica dello zazen. Nell’ultimo discorso, quando ha lasciato Antaji, le sue ultime parole sono state di speranza che i suoi discepoli contribuissero a far vivere dei luoghi in cui le persone di buona volontà potessero praticare lo zazen, così lui avrebbe potuto sorridere.
Questo è il voto che ho sentito mio e a cui cerco di dare vita impegnandomi nel luogo in cui mi trovo a praticare. Cosa c’entra questo con la mia riflessione iniziale? Due sono le risposte che mi sento di dare. Anzi in realtà si riducono ad una sola. Cioè all’evitare di dare giudizi sulla pratica di chi si siede, di chi continua a venire al dojo (ma poi chissà se un seme si è depositato anche in chi è venuto solo una volta?) a sedersi e tendere alla postura del corpo e della mente magari usando anche la sedia (una sciatica mica è semplice da gestire per esempio) e magari lo zazen che manifesta è (si può dire?) migliore del mio che mi siedo sul cuscino a gambe incrociate.
Un saluto rinnovando la mia gratitudine per ciò che trasmettete.