Lun, 1 Ott 2018
Parliamo oggi di due libri particolari: uno è un libro parlato, un audio libro, l’altro, invece, è di carta. Questo, uscito nel marzo del 2018 edito da Servitium, s’intitola L’altra riva, ed è scritto da Henri Le Saux. Iniziamo parlando proprio di quest’ultimo. È inusuale, su queste pagine, recensire in home un libro che non sia della ‘casa’ almeno nella redazione. Se questa volta facciamo un’eccezione è perché vi abbiamo trovato qualche cosa e vorremmo condividerlo. Il titolo è ambizioso: questa riva è la nostra, nel samsara quotidiano, che tutti -ognuno a suo modo- conosciamo. L’altra raramente è argomento di conversazione, per limiti oggettivi: si trova in un’area, per così dire, inaccessibile alle parole, vissuta -o solo sbirciata- più o meno di frequente, da chi si arrabatta tra l’inizio di uno zazen e la fine di un altro. Frate Henry ci prova e riesce a trasmettere
la sua voglia di paradiso ma, parlandone, usa quasi solo le parole della tradizione delle Upanishad o dei Veda; poco o quasi nulla ci dice del suo nirvana. L’ideale è bello, entusiasma, ma chi pratica vorrebbe anche ascoltare qualche cosa di più … casalingo, se mi concedete il termine.
La vita di Henri Le Saux (1910-1973) è un interessante e profondo esempio di dialogo tra le religioni: monaco benedettino, sacerdote, nel 1948 dalla Francia si trasferisce in India dove entra in contatto con la mistica hindù e, dopo una lunga riflessione interiore, senza rinunciare alla fede cristiana diviene un sannyāsī, “colui che rinuncia”, con il nome di swāmī Abhishiktānanda e si ritira, sino alla fine della sua vita, in un eremo presso le sorgenti del Gange. Il libro non è scevro da difetti (quale libro lo è?) e l’assenza di bibliografia crea non pochi problemi nell’identificare i testi abbreviati in nota, ma al suo interno cristianesimo e induismo o, più correttamente: il vangelo di Gesù e il sanātana dharma, trovano un’accoglienza non solo equilibrata ma così partecipata e profonda che viene quasi da rimpiangere che tra i cristiani nessuno, sino ad ora, abbia saputo vivere e soprattutto dire il buddismo in una maniera altrettanto competente e profonda. A p. 57, citato da le Upanishad, troviamo: “attraverso se stesso, in se stesso, raggiunge se stesso”, che ricorda molto da vicino il detto attribuito a Kodo Sawaki roshi: “il me, in me, fa me”, o: “me, da per me, fa me”.
Ed eccoci all’audio libro: anche questa è una novità per la Stella. S’intitola Il cercatore della Via, discorso d’addio ad Antaiji ed è una nuova versione, tradotta direttamente dal giapponese, dell’ultimo sermone tenuto da Kosho Uchiyama roshi (1912-1998) ad Antaiji nel febbraio del 1975.
Su progetto iniziale di Paolo, vi hanno lavorato Jiso -per la traduzione dal giapponese e la voce narrante- e Carlo che ha curato la registrazione e tutta la parte tecnica. Lo trovate in fondo a questa pagina, con tutte le indicazioni sul testo -già noto ai lettori del blog della Stella- e sulla sua genesi.
33 Commenti a “Uchiyama, Le Saux e il dialogo”
Se volete, lasciate un commento.
Devi essere autenticato per inviare un commento.
4 Ottobre 2018 alle 7:47 am
A mio parere, in questo libro la parte più interessante (per chi pratica zazen) è la chiarezza con cui Le Saux parla del ‘monachesimo universale’, quello che con altre parole possiamo definire monachesimo interiore, che fa di ciascuno di noi il proprio monastero e che vede l’istituzione come l’inizio della fine della non appartenenza, e quindi della vera libertà.
23 Ottobre 2018 alle 7:25 am
Il sito va e viene (migrazione sulla cloud, dopo la rottura del server, mi dicono in regia) eppoi non vi sono reazioni né al libro di Le Saux né all’audio libro. Approfitto allora per aggiungere una considerazione su un elemento che a me suscita stupore. A p. 184 s. del testo, troviamo: «La venuta di Gesù è stata necessaria per liberare la rivelazione biblica dal suo particolarismo e consentire la fondazione del ‘cattolicesimo’. Ma le radici da cui le Upaniṣad sono venute all’esistenza, sono incomparabilmente più universali di quelle della Bibbia, o persino del Vangelo, perché Gesù è un personaggio storico e senza una relazione con la sua persona che trascenda il tempo non è possibile nessun cristianesimo. I ṛṣi (veggenti vedici) delle Upaniṣad, invece, come anche il Buddha, non hanno una personalità da affermare, né una storia in cui debbano essere collocati. La scoperta del Buddha è la scoperta propria di ciascun uomo; la scoperta dei ṛṣi è alla portata di chiunque voglia davvero dedicarsi alla ricerca interiore e trovare la propria libertà. La scoperta del centro più profondo dell’essere e del sé è una possibilità per ogni coscienza umana; ed è proprio in questa scoperta, e solo in essa, che l’essere umano raggiunge se stesso, qualsiasi sia l’ambiente di provenienza». Non mi piace l’espressione “la scoperta del centro più profondo dell’essere e del sé” perché dà ad intendere sia un centro da scoprire sia una dualità tra l’essere e il sé, però non di questo arguisco. Le Saux era un sacerdote e un monaco cristiano e tale è rimasto sino alla fine. Ora, a meno che non venga relegato tra gli “strani” o tra quelli che in Oriente “hanno flippato”, se mi passate il sessantottismo, penso che i cristiani si dovrebbero confrontare con queste affermazioni. Quantomeno cercare di capirle. Se un buddista di lungo corso, serio e motivato, trascorresse una decina d’anni in una trappa e poi, motivandola, scrivesse la proposizione inversa rispetto all’affermazione di Le Saux, io andrei di corsa a vedere se davvero ha scoperto o’miracolo o … se invece ha solo flippato.
30 Ottobre 2018 alle 9:28 pm
Buonasera.
Ho visto solamente ora il post, e la ringrazio per l’audiolibro e per la segnalazione del libro di Le Saux
Riguardo alle frasi da lei citate, posso dire di non essere completamente d’accordo. A mio parere l’universalità di una religione dipende dall’essere universale dell’insegnamento proposto. Ora, nonostante Cristo abbia operato in un periodo storico e in uno spazio culturale ben definito, avendo avuto a che fare con i problemi di quel tempo, ciò non vuol dire che il suo insegnamento sia meno universale di quello del Buddha.
E poi, parla del Buddha come di un uomo senza una “personalità da affermare”. Forse sta implicitamente dicendo che Cristo la avesse invece? E quale sarebbe questa personalità ?
È vero che la scoperta del proprio Vero Sé, parafrasando Uchiyama, è a portata di ciascun uomo. Ma forse sta dicendo che gli insegnamenti di Cristo non sono a portata di tutti ma solo per alcuni in particolare?
Non so, me lo sto chiedendo.
31 Ottobre 2018 alle 6:52 am
Buongiorno Antonino.
Forse prima dovrebbe leggere il libro.
Tenga conto che si può parlare di un tipo di universalità orizzontale (tutti gli uomini respirano) ed una verticale (tutti possono realizzare l’insegnamento del Buddha). Qui si parla soprattutto della seconda.
Una cosa: non è “completamente d’accordo” o “se lo sta chiedendo”?
1 Novembre 2018 alle 1:19 am
Non ho letto il libro di Le Saux, ma le considerazioni di mym mi hanno fatto venire in mente l’opera di Piero Martinetti che si è occupato ex professo di “monachesimo interiore”, segnatamente della distinzione tra Chiesa invisibile e Chiesa visibile, soprattutto nel suo “Gesù Cristo e il cristianesimo” (cfr p. 815ss). Un libro così bello, profondo e intelligente, che fu sequestrato dalla prefettura lo stesso giorno della pubblicazione, il 3 agosto del 1934, e poi, nel 1937, messo all’indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica. La grave colpa di Martinetti fu quella di aver interpretato il Vangelo entro i limiti della ragione, distinguendo gli elementi magici inseriti nella narrazione per meri scopi propagandistici, come i miracoli o la resurrezione, dagli elementi schiettamente religiosi, e concludendo che uno degli principi della religione di Gesù fu ”la condanna della religione formalistica e farisaica” (ivi p. 861), vale a dire che la Chiesa rappresenta tutto ciò contro cui Gesù predicò.
…
Martinetti, oltre ad essere secondo me il più autorevole commentatore dell’Etica di Spinoza, è stato anche autore di uno studio su il sistema Sankhya; un sistema filosofico che pare essere anteriore al buddismo e che ha molti punti in contatto con quest’ultimo, in particolare con la dottrina del dolore (cfr Il sistema Sankhya, p. 15), ma che a differenza del buddhismo mahāyāna – ma non del buddhismo più antico – considera illusorio ridurre “la realtà a sogno”, giacché “la vita empirica che si svolge attorno a noi e della quale noi siamo parte non è né un miraggio dei sensi, né un’illusione dell’anima, ma è in sé un’assoluta realtà” (p.35); infatti “uno che sogna può credersi sveglio, ma uno che è sveglio sa di non stare sognando e non può dubitarne”.
Comunque la si pensi, Martinetti ha il merito di scrivere in modo chiaro, rendendo comprensibili concetti assai difficili, e, ciò che qui interessa, ha descritto come l’istituzionalizzazione dell’insegnamento di Gesù sia degenerato in un formalismo ipocrita e in una schiavitù spirituale che ha svuotato di energia morale il popolo con gravi ripercussioni sui fondamenti stessi della vita sociale e politica.
Molte delle opere di Martinetti si possono scaricare gratuitamente a questo link:
https://bibliofilosofiamilano.wordpress.com/2014/10/21/le-opere-di-martinetti-digitalizzate-in-digitunito/
1 Novembre 2018 alle 8:03 am
Ciao HMSX, bentornato.
La metafora dell’uovo: senza il guscio, tuorlo e albume rischiano di disperdersi. Ma poi, quando l’uovo svolge la sua funzione, sia da dentro (pulcino) sia da fuori (frittata), il guscio viene messo da parte. Nel mondo del fenomeno, assolutamente reale seppur relativo, senza forma (istituzione) nulla esiste. Se l’istituzione fosse in grado di fare come il guscio, svolgere la sua funzione e poi svanire, bene. Ma così, di solito, non è.
Un’alternativa è un’istituzione che pare esserci, quindi c’è per quel che serve, ma pare solo, per cui non può essere d’ostacolo perché materialmente non c’è.
1 Novembre 2018 alle 11:28 am
Mi è salita “l’urgenza espressiva”.
L’altro ieri ho finito di leggere le 21 lezioni per il XXI secolo di Yuval Noah Harari.
Afferma a p. 190 che “Da un punto di vista etico, il monoteismo è stato forse una delle idee più nefaste della storia”; mentre a pag 275 scrive: “Molti ritengono che se una particolare religione o ideologia rappresenta in modo errato la realtà, i suoi seguaci presto o tardi lo scopriranno, perché non potranno competere con i rivali con una visione più chiara delle cose. Ma questo è solo un confortante mito. (…) [Poiché] non solo le nostre identità individuali, ma anche le nostre istituzioni collettive si basano su una narrazione, dubitare della narrazione fa paura. In molte società, chi cerca di farlo viene ostracizzato o perseguitato (…) se in effetti la storia è falsa, allora non ha senso tutto quello che conosciamo del mondo… – e tutto potrebbe crollare.
La maggior parte delle storie è tenuta insieme dal peso del suo tetto piuttosto che dalla solidità delle sue fondamenta. Prendete la narrazione cristiana, per esempio. Poggia su basi molto fragili.(…)
Una volta che l’identità dei singoli e di interi sistemi sociali sono costruiti attorno a una narrazione, diventa impensabile dubitarne non a causa della fragilità delle prove che la sostengono, ma perché il suo collasso innescherebbe un cataclisma individuale e sociale. Nella storia della nostra specie, qualche volta il tetto è più importante delle fondamenta”.
1 Novembre 2018 alle 11:28 am
La parte che mi ha fatto sobbalzare dalla sedia è a p. 302:
“L’insegnante ci chiese di stare seduti con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, e concentrò tutta la nostra attenzione sull’attività di inspirare ed espirare l’aria dalle nostre narici. “Non fate niente” ripeteva “non cercate di controllare il respiro o di respirare in modo particolare. Osservate soltanto la realtà del momento presente, qualunque esso sia. Quando state inspirando, siete solo consapevoli di questo: adesso il respiro sta entrando. Quando state espirando, siete solo consapevoli di questo: adesso il respiro sta uscendo. E quando perdete la concentrazione e la vostra mente comincia a vagare tra i ricordi e le fantasie, siete solo consapevoli di questo: adesso la mia mente ha vagato lontano dal respiro”. Fu la cosa più importante che mi avessero mai detto”.
Be’, non vi ricorda qualcosa?
Fine dell’urgenza espressiva.
1 Novembre 2018 alle 11:45 am
Quoto interamente Yuval @7, a parte che per la frase “Prendete la narrazione cristiana, per esempio. Poggia su basi molto fragili.(…)”, che a mio parere avrebbe dovuto essere “Prendete la narrazione giudaica, per esempio. Poggia su basi molto fragili.(…)”, il monoteismo occidentale ha le sue attuali basi nel Tanak. Il sistema socio-economico-religioso del cosiddetto ‘mondo avanzato’ è una enorme bubbola che sta in piedi perché il crollo sarebbe devastante; soprattutto per i più abbienti, ovviamente.
In @8 non si capisce chi fosse quell’insegnante.
1 Novembre 2018 alle 11:52 am
In risposta a Mym:
Diciamo che non riesco ad essere d’accordo su alcune cose e su altre ho dei dubbi (e quindi me lo sto chiedendo).
Che poi, il sistema su cui poggia il mondo occidentale credo sia uno dei più duraturi è diffusi. E se già questo è deboluccio, pensa gl’altri come stanno messi..
1 Novembre 2018 alle 12:46 pm
Ciao Antonino: con “mondo avanzato” (per quanto vagamente) si intende anche l’Oriente e tutti i Paesi del mondo che viaggiano nel solco della modernità e dell’abbondanza di beni di consumo. È un sistema mondiale, o globale, oramai, che lascia fuori solo chi non ha i quattrini per comprare quei beni, o semplicemente perché non li vuole.
Non è molto antico, come sistema, un secolo o poco più.
1 Novembre 2018 alle 3:01 pm
Secondo Yuval Noah Harari la narrazione giudaica poggia su basi ancora più fragili di quelle cristiane. È vero che il giudaismo generò il cristianesimo e influenzò la nascita dell’islam, ma Harari stima che nella realtà dei fatti il giudaismo abbia avuto un impatto relativamente modesto sul mondo nel suo complesso. A differenza delle religioni universali come il cristianesimo, l’ islam e il buddismo, il giudaismo è sempre stata la fede di una piccola tribù, sebbene gli ebrei israeliani si considerino il vertice della storia della specie. Nel capitolo intitolato significativamente “Umiltà” fa un bel resoconto sul giudaismo, poiché “è più corretto criticare qualcuno appartenente al proprio popolo invece che gli stranieri” illustrando “quanto siano ridicole queste storie di autoincensamento” lasciando al lettore “il compito di bucare i palloni gonfiati delle loro rispettive tribù”. Etc etc.
L’insegnante di cui @8 è S. N. Goenka.
1 Novembre 2018 alle 3:22 pm
“Ha dedicato Homo Deus al suo maestro nella meditazione, S. N. Goenka, scrivendo: “To my teacher, S. N. Goenka, who lovingly taught me important things”.” (Fonte Wikipedia)
A proposito di dialogo..
1 Novembre 2018 alle 3:26 pm
@ 12: grazie per le precisazioni.
L’argomento mi permette di citare ancora Le Saux 208: ‘Se il cristianesimo vuole conservare la sua pretesa di universalità deve accettare la sfida e integrare quell’esperienza [il risveglio] per non ridursi a una setta religiosa particolare, che nella storia sarebbe ricordata per aver provveduto efficacemente per una ventina di secoli alle necessità religiose di un’area del mondo civilizzato’.
1 Novembre 2018 alle 3:37 pm
@11 ah, capito.
Credo che questo tipo di sistema cadrà semplicemente perché non si può perpetuare in eterno, essendo di per sé poco equilibrato.
Anche se al momento non riesco a visualizzare un’alternativa.
Poi non so fino a che punto questo sistema sia stato causato dalle radici giudaico-cristiane: tra l’incoraggiamento nella Genesi a sfruttare ogni dono di Dio per il beneficio umano al “siamo tutti figli di Dio “ dei Vangeli ne è passata acqua sotto i ponti. Anche se evidentemente il primo “consiglio” è stato preso più in considerazione del secondo.
1 Novembre 2018 alle 4:56 pm
Cadrà cadrà è sicuro, sentirai chebbotta!
Leggi con più attenzione @7
1 Novembre 2018 alle 5:02 pm
Buongiorno a tutti, neppure io ho letto il libro di cui se parla, ma vorrei lo stesso proporre qualche riflessione sul brano riportato da mym @2, a mio rischio e pericolo.
A me colpisce soprattutto il fatto che autore sembra dare per scontato che la salvezza, nell’esperienza religiosa cristiana sia equivalente ed avvenga secondo le stesse modalità rispetto a quanto avviene nelle religioni dell’India. Non è così, e lo Swami dovrebbe saperlo, essendo un religioso cattolico. La vita spirituale nel modello cristiano si sviluppa e si articola solo in un contesto comunitario, mai individualmente. Non è mai una conquista della singola persona, e questo per la ragione semplicissima che si presuppone che “il centro dell’essere” dell’uomo non sia interno al singolo, ma che si sviluppi realmente solo nei rapporti interpersonali. Non esiste, nel cristianesimo, un’esperienza religiosa trascendente, precedente o che prescinda da una riformulazione dei rapporti della persona con il resto della comunità. Per questo l’aspetto comunitario, ecclesiale, è assolutamente irrinunciabile e necessario dentro il cristianesimo: senza di esso, non esiste alcuna esperienza religiosa specificamente cristiana; non c’è una liberazione, od un risveglio, antecedente alla condivisione comunitaria, perché in un’ottica cristiana l’esperienza della liberazione è la conseguenza, e non la causa, della comunione. La comunione dei santi va letta nel senso che essi sono santi in quanto sono veramente in comunione, e non che possono essere in comunione perché, già prima. erano santi. Questo fatto penso possa anche spiegare il carattere peculiare dell’opera missionaria cristiana, che punta alla creazione di nuove comunità, di chiese locali, e non semplicemente alla conversione dei singoli. Inclusi, certamente, molti degli aspetti negativi di tale fenomeno. Anche il fatto che il riferimento fondamentale sia la persona storica di Cristo, e non un principio impersonale, od un’esperienza superpersonale attingibile da ciascun uomo individualmente, che lo Swami sembra avvertire come un limite, non è affatto sentito come tale all’interno del percorso religioso cristiano, bensì come un fattore qualificante, senz’altro positivo. E questo perché si ritiene che la storicità e la personalità siano fattori che conferiscono un valore universale all’esperienza religiosa, in quanto aspetti caratteristici dell’uomo in quanto tale, e non dei limiti che la legano ad un’esperienza particolare e non più ripetibile. Lo storicamente determinato non viene avvertito come contrapposto a ciò che è universale ed eternamente valido, perché si suppone che la salvezza avvenga all’interno e nella storia dell’uomo e non a prescindere da essa.
A mio parere, in generale, è un errore metodologico valutare la completezza o meno della religiosità cristiana in quel modo, perché si utilizza un criterio che non le è proprio. Si potrebbe facilmente rovesciare l’argomentazione, e muovere al buddismo la critica – peraltro frequente da parte cristiana, o comunque occidentale- di escludere gli aspetti sociali della vita, di considerare troppo astrattamente l’individuo portando ad un ripiegamento interiore disimpegnato e passivo, o di cadere in uno psicologismo astorico ecc. ecc. Critiche a mio parere sbagliate, lo ripeto, perché nascono dal trasferire su di un esperienza religiosa i criteri propri di un’altra, partendo dall’assioma che “quella” sia la “vera” esperienza religiosa.
Poi, ecco, la santità è in effetti una sola ed identica ovunque. Così come lo sono le manifestazioni del male e dell’egoismo. Anzi queste ultime sono forse ancora più universali, purtroppo.
Un saluto a tutti e buona festa di Ognissanti!
1 Novembre 2018 alle 5:38 pm
Ciao aa, bentornato. Ti perdono per la lunghezza del commento perché è quel che ci voleva. Non se ne poteva più di darsi ragione l’un l’altro …
Quello che dici è sacrosanto. Chi pensa di avere il metro giusto per misurare la spiritualità, quello più alto o supremo, prima o poi finisce con lo scomunicare -o peggio- chi non la pensa come lui. Però anche nel cristianesimo vi sono asceti eremiti o comunque non legati strettamente alla comunità, è soprattutto ad essi che Le Saux si riferiva.
Il punto di vista di Le Saux è più articolato rispetto ad una critica frontale al “suo” cristianesimo, lo si vede nella citazione che ho riportato da p. 208: parla di ‘sfida’ e pensa che il cristianesimo la possa superare ‘integrando’ il risveglio, quindi senza rinunciare alle sue peculiarità. È un libro su cui l’Autore ha riflettuto molto, riversandovi più di ventanni di esperienza eremitica.
2 Novembre 2018 alle 7:27 pm
Ciao mmm; sì ho scritto un bel “muro” di testo, mi scuso. Certamente esistono esperienze eremitiche anche nel Cristianesimo, e sono molto importanti e significative, soprattutto nell’oriente ortodosso. In questi percorsi esistenziali si notano, secondo me, le maggiori affinità con il buddismo, cosa penso abbastanza naturale. Quanto scrivi nel secondo capoverso è molto interessante….mi viene voglia di leggere il libro a questo punto ; )
2 Novembre 2018 alle 7:32 pm
Mi sembra opportuno rilevare comunque che come nel cristianesimo si hanno caso di eremitismo così anche nel Buddhismo si hanno casi di comunitarismo. Penso per esempio, a tutto il Mahayana che è nato dalla consapevolezza che la liberazione non è solo possibile per il mondo monacale ma anche per i laici, e di conseguenza nel Mahayana il rapporto con l’Altro diventa imprescindibile
Difatti mi sembra di notare più affinità con il cristianesimo da parte del Mahayana che del Theravada
3 Novembre 2018 alle 7:24 pm
Buonasera a Tutti.
Ho letto il testo di Le Saux e accolgo l’invito di mym @18 con quello a leggere due brani tratti dal primo scritto della raccolta, paragrafo 3 “Sannyasa e religione – dharmatita” (che possiamo anche intendere, semplificando, come: la rinuncia… oltre tutti i dharma).
Il primo a pg.66-67.
“Nell’attuale congiuntura storica, mondiale e religiosa, a oriente come a occidente, il senso del mistero sta per essere oscurato ovunque, persino in coloro la cui vocazione speciale è di testimoniare … la presenza, qui e ora, delle realtà ultime… Dimenticano così che la loro funzione primaria è di testimoniare nella società ciò che è veramente sacro – che è oltre ogni forma e definizione”.
Il testo risale al 1973, ma non mi sembra patire l’usura del tempo; forse di ogni tempo.
Il secondo a pg. 69.
(Scil. il rinunciante) “è l’uomo che è passato oltre il regno dei segni, la cui funzione nel mondo è ricordare a tutti e a ciascuno che “tutto è compiuto”… che il tempo delle parabole è passato… che le ombre sono svanite davanti alla realtà … – non che un nuovo rito ha preso il posto di quello antico, ma piuttosto che tutti i segni sono stati trascesi dal passaggio “attraverso il velo”.
Gli omissis sono solo per non farmi rimproverare troppo da mym, ma posso assicurare che, trattandosi di citazioni tecniche dalla tradizione di Le Saux, non inficiano il testo.
Un grazie ai curiosi futuri lettori del maestro.
5 Novembre 2018 alle 4:35 pm
Ciao Giorgio, grazie per l’apporto.
Come scrivevo sopra, il testo di Le Saux è molto articolato, non lo si può racchiudere in una singola tesi, anche perché non ha (quasi) tesi.
Una domanda che ho posto a un monaco cristiano è stata: “secondo te che cosa è andato a cercare Le Saux?” ovviamente con tutte le implicazioni riguardo a che cosa gli mancava o non sapeva trovare. Purtroppo non ho avuto risposta.
5 Novembre 2018 alle 5:38 pm
Ricevo una “lettera da un’amica” che vuol rimanere anonima. Ve ne offro sotto alcun stralci in due parti:
Prima parte: Le parole di Henry Le Saux sono “Altissime, Purissime, Levissime” come la Sorgente da cui sgorgano e non stà a lui preoccuparsi delle dighe e dei canali che si trovano a valle. […]
Chissà quante volte Le Saux, da sacerdote, si sarà trovato su un altare a dover spiegare a dei bimbetti che i nostri desideri umani sono un pozzo senza fondo, più li alimentiamo, più cadiamo in basso. L’unico desiderio che ci tiene a galla è «il desiderio di Dio, il desiderio di Colui che è oltre tutte le forme, della Comunione con Uno senza secondo, della gioia che è oltre ogni distinzione fra “chi fa gioire” e “chi gioisce”» (p.26). Il compimento di quest’unico desiderio contiene la realizzazione di tutti gli altri……. di cui ci si può spogliare. Gesù lo dice in più di una circostanza, ma è troppo imbarazzante predicare queste cose da un altare, la gente vuole qualcosa di “confortevole” «Solo quando il cristianesimo perde il suo sapore può mutarsi in una religione confortevole» (p.22)
5 Novembre 2018 alle 5:39 pm
Seconda parte: [..] lui [Le Saux] era finito in un posto, l’India, dove se vai in giro NUDO non ti ricoverano in un SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), non ti sedano, non ti affidano ad una psicoterapeuta truccata, coi tacchi alti e ben vestita che ti dice che devi imparare a “realizzare te stesso” prendendo in mano la tua vita e con 3 anni di psicoterapia con 2 sedute a settimana lei ti insegnerà a diventare proprio come lei, perchè tu sei un “un caso difficile” “TU ASSOLUTIZZI TROPPO!!!”
No, per la società indiana se sei un “Sannyāsī” rendi testimonianza dell’unico Assoluto (p.39), la società è pronta a sopperire ai bisogni del Sannyāsī senza chiedergli in cambio nulla se non essere quello che è, i Sannyāsī sono l’offerta del popolo a Dio… «Il “Sannyāsī” è l’espressione esteriore della definitiva libertà interiore dell’uomo, nell’intimo del suo essere, la sua esistenza e la sua testimonianza sono una necessità vitale per una società umana sia secolare che religiosa». […] Il modo in cui Le Saux descrive il rapporto guru-discepolo è semplicemente commovente, è quello che dovrebbe essere e di cui in ambito cristiano non esiste traccia, nelle autobiografie di molti santi cristiani c’è la difficoltà di trovare una guida spirituale degna di questo nome.
Il Cristianesimo ha URGENTE bisogno di ibridarsi con tradizioni religiose che mettano al centro la Via e il rapporto con un maestro. Le Saux dimostra che non solo l’incrocio è possibile ma dà vita a progenie fertile e si perdono solo i caratteri inutili e si fissano i caratteri autentici delle due tradizioni religiose ibridate ……..
O no? È solo il sogno di una genetista matta?
7 Novembre 2018 alle 6:03 pm
@22 – Pur non essendo monaco, posso azzardare un’ipotesi tratta dall’esperienza di Le Saux quale traspare anche dal suo Diario (attualmente purtroppo esaurito). Credo che l’impulso cogente che lo mosse sia stato profondamente radicato nella sua tradizione: “quaerere deum”, quella “inchiesta amorosa” così cara del resto alla tradizione cavalleresca d’Oltralpe. Leggiamo verso la fine del Diario: “Ho un solo messaggio … Il faccia a faccia con la Morte, con Dio: la totale nudità di questo faccia a faccia … La Grande Morte: la scomparsa dell’essere centrati su se stessi. E’ così semplice: aprire gli occhi. Ah! Il risveglio, e la Ricerca è finita!”
Forse Le Saux realizzò che questa sua ricerca del Maestro non fruttificava nei confini della sua tradizione, che pure aveva assimilato intimamente. Scoprì infine che quel cercare l’altro è invero un farsi trovare dell’altro, e lo scoprì proprio in un luogo (da occidentale pre-conciliare nell’India degli anni ’50) in cui necessariamente doveva diventare straniero a se stesso; e in quello spazio (“la caverna del cuore”) fare l’esperienza unica (ma non privata) del “non io non mio” (così sempre nel Diario).
7 Novembre 2018 alle 6:11 pm
@24 in fine – Mi sento di aggiungere una recente (di per sé non nuova) riflessione dello storico Luciano Canfora, che, pur non sovrapponendosi alla considerazione della (anonima ma non certo “matta”) genetista, ben si adatta al lato assolutamente rivoluzionario dell’esperienza di Le Saux.
“E poi c’è la grande prova del succedersi delle generazioni: l’esperienza non si trasmette, e tanto meno lo ‘spirito rivoluzionario’, il credere. L’esperienza può solo essere diretta, non raccontata: anche se è sempre giusto e necessario raccontarla”.
Mi verrebbe da dire che la non risposta del monaco interpellato in @22 trova qui una certa qual spiegazione.
7 Novembre 2018 alle 6:29 pm
Ciao Giorgio. Non è facile seguirti. Né in @25 né in @26. Comincio dalla fine: dare un’eccessiva importanza all’esperienza rischia di far pensare che occorra provare una certa esperienza e poi… fine della storia. Questo, a mio parere, traspare in molte pagine di Le Saux. Anche se, molto importante, “poi” non si è messo a offrirsi come guru, è rimasto nella sua capanna. In @25 il “farsi trovare dell’altro”, che interpreto come “è l’altro che si fa trovare”, va articolato, imho. Non dico far nomi e cognomi, ma dare una traccia di chi/dove sia questo altro sì. Specie nelle ultime pagine del libro, Le Saux mostra bene la visione advaita, e fa scomparire l’altro.
8 Novembre 2018 alle 7:35 pm
@27 – Giusto mym: il termine “esperienza” patisce troppi fraintendimenti; tuttavia, come fai notare anche tu, nel caso di Le Saux credo possiamo ritenerla nel suo senso letterale; ciò è avvalorato dal fatto che egli considerò sempre e solo Gesù il suo sadguru (o autentico maestro).
Circa il “farsi trovare dell’altro” non possiedo formule (potrei pensare, peggiorando le cose, anche a “svelarsi al di dentro”), immaginando che Le Saux, sempre nella sua tradizione, abbia avuto certezza della parabola del tesoro nascosto nel campo.
Sull’advaita e sulla scomparsa dell’altro ho ancora più dubbi. Osserva, per esempio, Le Saux nel Diario: “Io non dico che l’uomo sia Dio né che Dio sia l’uomo, ma nego che l’uomo più Dio possa fare due”.
In effetti posso solo offrire dubbi, nonostante ami molto Le Saux; e del resto, se no perché sarei qui? 😉
8 Novembre 2018 alle 7:42 pm
Grazie, interessante il “taglio”. Tuttavia se 1+1 non fa due perché parlare ancora dell’altro?
In senso buddista il problema si risolve, meglio: si espone, più facilmente: avvesi l’ignoranza, ci si risveglia e si vive la non ignoranza. Il linguaggio necessariamente è duale, ma il senso no.
11 Dicembre 2018 alle 4:02 pm
ho letto tutto e mi sono divertito, non conosco Le Saux e confesso di non avere stimoli nella sua direzione, e penso che sia un mio limite che devo metabolizzare, tuttavia, in modo ludico, mi piacerebbe conoscere al riguardo il pensiero di quel burlone di Kodo Sawaki…ci fosse un medium…attendibile, magari di scuola tibetana. Ciao mym
11 Dicembre 2018 alle 4:17 pm
Ciao Nello, bentornato.
Se almeno uno si è divertito la troupe ha fatto bene il suo lavoro …
Non so se Sawaki abbia mai preso in seria considerazione il cristianesimo e i suoi epigoni. Non mi pare che nei suoi scritti/detti ve ne sia traccia. Con ogni probabilità, per lui, la storia di Le Saux era un poco troppo scenografica. Il suo detto ‘damatte shiné!’, ovvero ‘crepa e taci’, era molto asciutto rispetto alla poetica del monaco francese.
12 Dicembre 2018 alle 2:31 pm
Ciao mym,
Curiosità per curiosità, anche a me piacerebbe conoscere come si sarebbe divertito Le Saux sapendo di poter far divertire i suoi quattro lettori.
Se non altro per riconoscere i miei limiti.
Ma forse è meglio pensare che la trama della troupe sia solo un sogno…
Yopparai ne!
E buon 8 dicembre a Tutti 🙂
12 Dicembre 2018 alle 4:25 pm
Tondemo nai!
Ciao Giorgio,
Le Saux era troppo serio per divertirsi a come si sarebbero divertiti quei quattro se lui si fosse divertito
Buon 8 dicembre? Era proprio buono quel sake! 😮