Ven, 30 Mar 2018
Nuova edizione de La Realtà della Vita, di Uchiyama roshi
Scritto da mym in Pubblicati dalla comunità[17] Commenti
Quando, nella sua prima versione, questo libro fu pubblicato in Italia era l’anno 1976. Sino ad allora i libri “sullo” zen erano stati quelli dei due Suzuki, di Alan Watts, di Humphreys … di cui, onestamente, non avevamo capito molto, anche se davamo ad intendere il contrario. Avevamo saputo che quel libro stava per essere pubblicato, ce lo aveva annunciato Viallet, nostra guida, che lo aveva tradotto dal giapponese in francese e tedesco. Viallet era stato ad Antaiji, diventando discepolo di Uchiyama e ci aveva parlato di quel luogo e della sua storia e… insomma Antaiji era per noi lo zen stesso e Uchiyama l’irraggiungibile maestro di quel luogo leggendario. Caricammo quel libro di così tante aspettative che quando arrivò fu una cocente delusione.
Ci aspettavamo la chiave interpretativa dei koan, del mistero dello zen, insomma: il senso recondito della cosa e, invece, trovammo discorsi sulla vita quotidiana, sulla realtà di questa vita, vi si affermava che il satori, il risveglio, dipende dalle condizioni di temperatura e umidità e poi vi si metteva al centro di tutto lo zazen, da noi poco amato sia per i dolori alle gambe sia perché non ne capivamo davvero la ratio, la motivazione profonda. Che però non trovammo nemmeno in quel libro: pare che il buddismo giapponese abbia scordato che il buddismo tratta della sofferenza ed è per quello che esiste. Inoltre, soprattutto nella quarta parte del libro, vi è una particolarità che in quasi mezzo secolo (l’originale è del 1971) ha perso mordente: un ricorso molto accentuato alla metafora del “sé” relativamente al fondo inesplicabile dell’essere. Sempre ricordando che -come dicono Nagārjuna (MDM KK, XVIII, 3) e Vasubandhu (Trim. 24)- il vero sé è quello che non c’è.
Poco dopo la pubblicazione del libro, Viallet morì lasciandoci “soli”, così in pochi mesi ci organizzammo per andare ad Antaiji e quei contatti diretti ci fecero prendere coscienza di un altro sogno: quel monastero di Kyoto sul quale avevamo tanto fantasticato non esisteva più, addirittura da prima dell’uscita di quel libro in Italia: Uchiyama nel 1975 si era ritirato ed il suo successore, Watanabe, aveva subito demolito il monastero di Kyoto ricostruendone uno nuovo tra le montagne.
Quarantanni dopo questi fatti, ossia tre anni or sono, Marta mi scrisse che, poiché il libro di Uchiyama nella versione della Stella era introvabile, voleva digitalizzarne la traduzione dal giapponese realizzata da Jisō nel 1993 … ed eccoci qui: la nuova versione del libro è pronta, rinnovata dal tetto alle fondamenta, ma è sempre quella: un’opera in cui l’autore tenta di tradurre in concetti occidentali, in buona parte riuscendoci, quello che sino ad allora si era retto su una forma mentale giapponese.
Come gli altri testi da noi pubblicati, potete scaricarlo liberamente in formato digitale (per ora solo in pdf, presto in epub) da questa pagina.
Buona Pasqua
17 Commenti a “Nuova edizione de La Realtà della Vita, di Uchiyama roshi”
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30 Marzo 2018 alle 6:59 pm
Grazie molte, desideravo molto leggere questo libro. Avevo provato a cercare una copia della vecchia edizione, ma invano.
Un chiarimento: nel libro “Lo Zen di dogen come religione” sbaglio o lo stesso autore dice che il satori non ha niente a che fare con condizioni di temperatura e umidità? Ho inteso male o c’è un errore di trascrizione?
Grazie ancora e Buona Pasqua.
31 Marzo 2018 alle 7:40 am
È buona cosa (i.e. corretto verso i lettori e, soprattutto, nei confronti di chi dovesse/volesse risponderti), quando si usano citazioni, dire (per es.) a p. tale del testo tale, laddove si parla di …, è scritto «…». Invece/tuttavia nel testo tale a p. tale, dove si parla di…, trovo «…», cortesemente mi vorreste spiegare la contraddizione/l’arcano/il senso/ ecc.?
Tra l’altro, se alle tre dico che sono le tre, non per questo dovrò dire la stessa cosa alle 4 alle 5 ecc.
31 Marzo 2018 alle 5:18 pm
Gassho, per questo eccellente lavoro, per me, la migliore resa in lingua non giapponese di un classico come questo. Attraverso uno studio profondo dei termini si ricrea il clima vivo cui invita lo scritto. Grazie di cuore per la condivisione.
1 Aprile 2018 alle 7:47 am
Grazie Nello. Il merito va soprattutto al curatore che lo ha cesellato. Quasi tutta la nostra storia è intrecciata con questo libro. A tradurlo in francese fu Viallet che seguiva il gruppo di Torino, dove la maggior parte di noi praticava e che era discepolo di Uchiyama; la prima traduzione italiana, quella del 1976, fu opera di Melina, all’epoca parte del gruppo di Torino; la prima traduzione inglese fu opera di Tom, nostro caro amico e discepolo di Uchiyama; la prima traduzione italiana direttamente dal giapponese, come sai, fu di Jiso, nel 1993… Insomma, se fossimo dei sentimentali potremmo dire che è, almeno un po’, il nostro libro… 😀
8 Aprile 2018 alle 5:55 pm
Ciao Antonino, confrontando i due testi che hai citato (pag 50 di ‘La realtà della vita’ e pag 27 di ‘Lo Zen di Dogen come religione’) non mi sembra che ci sia una contrapposizione tra le due posizioni espresse riguardo al satori determinato dalle condizioni atmosferiche. Infatti nel primo, Uchiyama dice “Se noi chiamiamo illusione, confusione, i momenti in cui non si può far a meno di andar dietro ai pensieri, e satori, risveglio, la condizione contraria, i periodi cioè in cui si fa zazen senza cadute, allora satori e ignoranza in definitiva non sarebbero altro che gli effetti delle condizioni atmosferiche, della temperatura e dell’umidità.”
E nel secondo, parlando ad una persona che pensava di aver conosciuto il satori perché aveva fatto l’esperienza di un particolare stato mentale durante uno zazen, Uchiyama risponde così: “Questa specie di condizione mentale non è nient’altro che un sentimento temporaneo causato da condizioni di temperatura e umidità.”
Uchiyama mette spesso in guardia dal praticare lo zazen inseguendo l’idea di un satori visto come illuminazione in contrapposizione all’illusione. Se ti interessa approfondire quest’aspetto della pratica puoi leggere il testo di Uchiyama ‘Per te che sei ancora scontento del tuo zazen’ che trovi nel Sito cliccando il link posizionato a destra della schermata iniziale: La pratica dello ZAZEN. È una lettura molto ‘illuminante’!
Ciao
8 Aprile 2018 alle 6:00 pm
Grazie Marta.
Esistono anche persone pazienti che, pur senza i precisi riferimenti, si prendono cura delle domande.
17 Aprile 2018 alle 1:30 am
Scusate, non avevo letto il resto dei commenti.
Grazie Marta della precisazione e delle spiegazioni, la prossima volta sarò più preciso nel citare i testi per facilitarvi le risposte.
Buona notte
17 Aprile 2018 alle 6:51 am
Prego.
Se mai esistesse un motto della Stella sarebbe “prova, sbaglia, impara”.
5 Maggio 2018 alle 5:20 pm
Ho apprezzato questa lettura giacché pone come ubi consistam l’ *io*, “questa cosa che è io, è la mia vita” (cfr. p. 20), sebbene mym ci ricordi che “il vero sé è quello che non c’è”.
Eppure questo “io”, di cui abbiamo una conoscenza così inadeguata da farci pensare che il nosce te ipsum sia una cattiveria della divinità, come afferma Nietzsche nell’aforisma 335 de La Gaia Scienza, esiste e mi fa dire con le parole di Uchiyama “questa forza oltre il mio pensiero sono io e fintantoché opera in me è senz’altro la realtà della vita del sé, della mia vita”. (ibidem p. 57).
Come è possibile giungere a una tale smargiassata? Se si escludono ignoranza e mitomania, è possibile grazie ai tesori nascosti nell’enigmatica opera di Spinoza.
Sono mesi che mi arrabbatto sui vocabolari cercando di superare lo iato che separa due concetti che paiono antitetici: la Sostanza e il Vuoto. Facendo appello alla vaghezza cui conduce una attenta esegesi dei loro significati e alla scarsità di studi comparativi tra “la più eccelsa mente speculativa dell’Occidente” e il buddismo, affermo con una certa audacia che il Vuoto è un “attributo” della Sostanza.
Gli attributi sono le qualità fondamentali della sostanza, e sono infiniti. Tuttavia noi, per la conformazione limitata del nostro intelletto, ne conosciamo immediatamente due: il pensiero e l’estensione. Questo è il monismo, o “non-dualismo”, di Spinoza.
Hegel e Schopenhauer, discordi in tutto, concordano sul tratto orientale del sistema spinoziano.
Persuaso che il confronto con Spinoza sia un arricchimento, considerato che lo zazen “non è mai teoria”, ma un buon punto di partenza, prendo le mosse da una osservazione di Uchiyama: [perché] “se tu ed io guardiamo una tazza, di solito riteniamo di stare osservando la stessa tazza?”(p. 65).
5 Maggio 2018 alle 5:21 pm
Molti pensano che tra l’interno e l’esterno della mente, tra pensiero e realtà, non vi sia passaggio o ponte e che la conoscenza sia quella che gli indiani chiamano il velo di Maya, cioè allucinazione o illusione. Ciò fa, nella filosofia occidentale, l’idealismo.
Altri ritengono che la mente rispecchi la realtà. Sono i realisti.
Nella filosofia occidentale hanno prevalso i primi. Gli idealisti per antonomasia sono Hegel, Schelling, Fichte, a cui si aggiungono quelli problematici come Schopenhauer (“Il mondo è la mia rappresentazione”) o Nietzsche (“Non esistono fatti ma solo interpretazioni”).
Essi negano qualsiasi legame diretto della mente con la realtà e si rifugiano nell’ermeneutica che assume le derive più disparate: il silenzio, l’ascolto, la conversazione, il pragmatismo, etc. Tutti suicidi del pensiero.
Spinoza invece nega che la conoscenza sia la corrispondenza dell’idea all’ideato, l’adaequatio rei et intellectus, assunto ancor oggi come criterio di verità, e afferma che pensiero e materia sono la medesima cosa “compresa ora sotto questo, ora sotto quell’attributo”. La corrispondenza tra pensiero e realtà è assicurata in partenza dal fatto che “l’ordine e connessione delle idee è identico all’ordine e connessione delle cose” (Eth. II, prop.7) per cui l’adequaetio (la corrispondenza finale, estrinseca), se c’è, è una conseguenza, un risultato, non un fondamento. Questa corrispondenza ha una base ontologica, esprime l’omogeneità della mente col mondo.
5 Maggio 2018 alle 5:21 pm
Nella conoscenza la mente è esposta “all’attacco dell’essere” i cui oggetti sono la medesima cosa con l’idea che abbiamo di essi: “la rappresentazione dei corpi e questi corpi stessi sono la medesima cosa”. Questa rappresentazione non è da intendersi al modo schopenhaueriano, come rispecchiamento passivo, immagine simulacro dell’oggetto, ma come realtà attiva, come forza. Nella conoscenza l’uomo “patisce” le cose, ma il concetto (l’idea ricevuta dalla nostra mente), esprime azione della mente, è creazione e non rispecchiamento.
Per conseguenza i corpi estesi non sono rappresentazioni o fenomeni prodotti dalle nostre sensazioni o intuizioni, ma oggetti esistenti spazialmente indipendenti da noi: “non siamo noi che affermiamo alcunché di una cosa, ma è la cose stessa che in noi afferma o nega qualcosa di sé”, per cui le idee sono forme della mente perché sono forme del reale, ma né queste hanno prodotto quelle, né quelle queste. (cfr. Breve trattato, II, 16)
Tuttavia, sebbene l’uomo colga nella sensazione-intuizione qualcosa di reale, l’idea che egli se ne fa “esprime più la costituzione del suo corpo che quello della cosa”, cioè la nostra conoscenza è fatalmente antropomorfica (cfr. Eth. II, 16).
Questo antropomorfismo, come l’idealismo, ha una base scettica, ma a differenza di questo non è assoluto giacché conserva una base ontologica, cioè pesca nel reale, e il lavoro dell’uomo consiste nel liberare le idee il più possibile dalla loro deformazione antropomorfica.
5 Maggio 2018 alle 5:23 pm
L’ antropomorfismo mi pare pervada l’intero scritto di Uchiyama e diventa manifesto a p. 46: “è la mia vita, la vita del sé che dà realtà fenomenica al tempo, e anche di questo facciamo esperienza in pratica”.
Ciò significa che la catena dei fenomeni dipende dalla conformazione della nostra mente, cioè che la realtà umana esiste e la creiamo noi, così come esiste il senso delle cose e della vita, che non esiste ma esiste in relazione a noi, che sviluppiamo soggettivamente una realtà oggettiva, di cui il sé, la realtà della vita, è esplicazione e continuazione.
Parafrasando una massima di Goethe, pare che Uchiyama voglia dire: “Compiango gli uomini che fanno gran caso alla “vacuità” delle cose e si perdono nella contemplazione della vanità terrena. Noi esistiamo per rendere “pieno”, cioè umano, ciò che è “vuoto”, non-umano.
Il vuoto infatti è una astrattezza stratosferica che riduce il mondo a complicati sistemi relazionali per cui i vari schemi che utilizziamo per ingabbiare la realtà non sarebbero traduzioni realistiche dei fenomeni, ma mere convenzioni che rendono dubbio il riconoscimento della realtà umana, sconvolgendo a tal punto le nostre percezioni e le idee che ci facciamo delle cose, che una pietra non è più una pietra, bensì uno spazio vuoto governato da chissà quali sofisticate equazioni.
Uchiyama, ponendo al centro del discorso “la realtà della vita”, mi pare voglia ostacolare quelle speculazioni che finiscono per vanificare il mondo, deprivando di senso e di importanza la nostra realtà primaria.
Siccome la verità, oltre che contemplazione, seppur parziale, della realtà, può avere un senso dialettico, opporsi cioè alla falsità e come tale essere oggettiva e definitiva, come quando per esempio affermiamo che la terra gira intorno al sole e non il contrario, dichiaro di stare bevendo un tè in una tazza bianca e non posso dubitarne.
Ovviamente questa tazza di tè e le cose che ho pensato sono anche altro, sono componenti di un flusso universale che nel suo complesso ci sfugge, in cui siamo immersi e che non possiamo contenere, “che è oltre il definire a parole pensando con l’intelletto”, come dice Uchiyama a p. 20.
5 Maggio 2018 alle 5:45 pm
Ciao Hmsx, bentornato. Era da tempo che non ci “assalivi” con le tue folate. Interessante la tua lettura di Uchiyama, forse dimentichi, però che il piccolo sé, o “io”, per quanto esistente (come i sogni) per il Nostro non ha la stessa caratura riconosciuta al (grande) sé. Eppoi «il Vuoto è un “attributo” della Sostanza» va bene se lo tratti aristotelicamente con il suo opposto: senza dire anche che «la Sostanza è un “attributo” del Vuoto» si disconosce la realtà comune. Dove concordo con vigore è che laddove si parla di tazza vista ciascuno a suo modo, occorre urgentemente chiedersi chi mai abbia deciso che si tratti della stessa tazza…
Pensavo che, in Occidente, con idealismo si intendesse la negazione di una realtà “esterna” in favore di una realtà puramente mentale. Invece mi pare che tu affermi (@10, 4° riga) che l’idealismo afferma la sola inconoscibilità (il diaframma ecc.) della realtà esterna. Forse è per questo che (@12, 1° riga ss.) vedi antropomorfismo nello scritto di Uchiyama. Lui non parla della realtà (esterna) quando dice che è la nostra mente che forma il mondo, tempo spazio ecc. ma solo dell’unica cosa che possiamo conoscere: la realtà interiore.
6 Maggio 2018 alle 9:09 am
Il discorso sulla Sostanza e il Vuoto è complicato. La Sostanza, “che tratta dei molti modi in cui si dice l’essere”, è causa sui, cioè è concepita come origine e causa di tutto, sebbene essa stessa sia senza origine; esiste per virtù propria, nel senso che la sua esistenza è “incondizionata” giacché “una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza” (Cfr. Eth. I, def. 3 e prop. 6). La definizione che Spinoza dà alla sostanza somiglia a quella che Nagarjuna dà alla natura propria che… “non dipende da nessuna altra cosa” (MK, XV, 2), e sappiamo le conclusioni che trasse circa l’esistenza di qualcosa che è incondizionato…
Spinoza definisce il vuoto come «corpus sine corporis» (Principia phil. cart., II, pr. 3), per indicare una conoscenza imperfetta e inadeguata, un pensiero senza pensiero, ovverosia una «defectus cognitionis» (Eth., I, pr. 33, sch. 1), dunque in un senso completamente diverso da quello buddista. (infra)
La Sostanza, che egli chiama anche natura naturans, è una realtà a cui si giunge per necessità logica, in base al principio di contraddizione, perché è impensabile e impossibile che non sia (“non può non essere”). Essa, oltre ad essere infinita ed eterna, è indicibile, inafferrabile, non predicabile, mentre i suoi effetti, la natura naturata, sono per noi accessibili e esplorabili, giacché ne facciamo esperienza tramite la percezione umana.
La natura naturans è la Sostanza, mentre la natura naturata è la nostra percezione della Sostanza, necessariamente antropomorfica, ma non la Sostanza.
Il piccolo sé (la natura naturata) è l’altra faccia del grande sé (la natura naturans), una esplicazione e continuazione soggettiva di una realtà oggettiva, e tra le due realtà vi è omogeneità, come l’acqua che assume la forma del contenitore.
L’ “io” non è dunque una cellula impazzita dell’universo, avulsa da ogni realtà, ma un “modo”, una increspatura della sostanza.
6 Maggio 2018 alle 9:11 am
Uchiyama, nella parte 1 capitolo 3, critica il logos greco, ovvero la pretesa degli occidentali di definire la realtà con le parole e che trovò compimento nel nominalismo medioevale, una forma di idealismo, il quale, comunque lo si concepisca, si caratterizza per negare qualsiasi passaggio o ponte tra pensiero e realtà.
Uchiyama pone una “realtà della vita al di là di qualunque definizione” … che è una forza grande che va al di là di ogni valutazione, ma che agisce dentro di me e non si può dire altro che è la cosa stessa della vita che chiamo io (p. 18 ss), per cui, così come il cuore batte involontariamente, allo stesso modo la nostra mente crea il mondo, il tempo, lo spazio, il senso etc. al punto che in fondo non possiamo dire altro che è “solo proprio così”.
Uchiyama nega il passaggio tra realtà interiore e esteriore? Lo ammette? Lo intuisce?
Non lo so, preferisco cogliere l’occasione di constatare come i veri pensieri degli uomini venerabili convergano in un’unica direzione.
Insomma, queste sono le messe di ”verità” mietute in questo sterile anno. Si consideri che l’opera di Spinoza è veramente enigmatica, cioè è costruita in modo tale da far scervellare il lettore.
Sul rapporto tra sostanza e vuoto linko un post del professore Soraj Hongladarom del dipartimento di filosofia dell’Università Chulalongkorn, autore anche del pregevole articolo “Spinoza and Buddhism on the Self”.
Substance and Emptiness: https://soraj.wordpress.com/2015/03/29/substance-and-emptiness/
Spinoza and Buddhism on the Self: https://theoxfordphilosopher.com/2015/07/29/spinoza-buddhism-on-the-self/
6 Maggio 2018 alle 9:16 am
Postilla
Siccome “i miei stanchi occhi” hanno visto di tutto, persino certi cattolici andare in brodo di giuggiole per “l’amor dei intellectualis”, è d’uopo precisare che Spinoza, per aver sostenuto che le sacre scritture non sono enunciazioni filosofiche o scientifiche, ma indicazioni e incitamenti morali, oltre a subire un attentato da un integralista (il mantello fermò la lama del pugnale), venne “maledetto”… “sia di giorno che di notte; quando si corica e quando si alza… Possa il Signore mai più perdonarlo (…)”, secondo il dettato della scomunica del 1656, sebbene egli fosse, secondo le parole di Bertrand Russell “il più nobile e il più degno d’amore dei grandi filosofi” per la vita esemplare che condusse.
Faccio mio il rimprovero che gli mosse Schopenhauer “La parola Dio era stata usata fino ad allora per indicare un ben altro concetto e il lettore continua a pensare a questo concetto…”, ma “Spinoza non ammette nessun Dio, e probabilmente si servi di tale parola per non scandalizzare i lettori. Egli appare ateo in tutta la forza del termine” (Voltaire).
PS: è sorprendente, al di là delle definizioni, la concordanza del pensiero di Spinoza con il buddismo, così come sorprende la scarsità di una letteratura su tali concordanze.
6 Maggio 2018 alle 6:28 pm
Interessanti quei due link. Tuttavia concordo con ciò che dice un filosofo moderno: “Identificare una scuola con un’altra (come per esempio quella della Vijñānavāda con qualche forma occidentale di idealismo) non è solo probabilmente sviante, troppo spesso è proprio il punto in cui l’argomento si interrompe. Un approccio più fruttuoso alla filosofia comparata dovrebbe iniziare con l’accettare provvisoriamente diverse filosofie comparabili in quanto sistemi coerenti nei loro propri termini e poi dovrebbe procedere con l’applicare le loro diverse visuali a specifici problemi filosofici”.
In secundis parlare dell’inconoscibile ha il piccolo grande difetto che non solo non si sa esattamente di che cosa si sta parlando, ma inevitabilmente porta all’ontologizzazione ovvero, come dice un altro autore a un “riduzionismo di tipo psicologico che coincide con una nozione pesantemente ontologizzata del sé”.
Le concordanze, in sistemi diversi, possono (possono) essere relative a significati completamente discordanti.