Mer, 7 Feb 2018
Nei decenni precedenti, molti si sono interrogati sul perché il buddismo zen diffuso in Occidente dai primi anni sessanta, abbia avuto e continui ad avere una forma prettamente e quasi unicamente giapponese e, in qualche caso, cinese. Questo dubbio o quesito nasce dalla consapevolezza che lo zen è la continuazione dell’esperienza buddista delle origini, dove non esiste una forma determinata nella quale debba manifestarsi nel mondo la realizzazione del vero modo di vivere: quello che si sviluppa fuori dalle fantasie e dalle dottrine dogmatiche e realizza passo dopo passo una vita che scioglie ogni tipo
di sofferenza.
Ciascuno di noi, dal momento in cui decide di coinvolgere la propria vita nell’insegnamento buddista, inventa da capo il proprio modo di vivere. Il buddismo nasce con la nostra pratica e in essa si manifesta: non c’è una forma determinata, pronta, da imitare. E pur inventando tutto, nulla è inventato: nasce nuovo perché nuova è la vita che vive ciascuno di noi, non perché gli diamo quella forma secondo la nostra volontà. Ognuno a suo modo nell’unico modo. Ma, se così stanno le cose, perché la forma giapponese pare irrinunciabile?
Ho tentato di dare una risposta storica a questa domanda. Vi propongo la prima parte di questo tentativo con il titolo La genesi delle religioni del Giappone. La seconda parte, che comparirà in seguito assieme ad un testo attualmente in lavorazione, indaga su un altro “retroscena”: la sinizzazione del buddismo, operata dai cinesi a partire dal III-IV secolo, adattandolo ad una diversa visuale religiosa e modificandone uno dei punti più importanti: l’astenersi dal definire la natura dell’essere, un’astensione sostituita (a volte solo integrata) con il legame alla spiritualità confuciano-daoista dello “spirito del Cielo”. Occorre rammentare che il buddismo non è una metafisica o un tentativo di stabilire “come stiano le cose” né, tantomeno, il loro perché: è “solo” la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, indipendentemente dal come e dal perché così stiano le cose.
127 Commenti a “Un chiarimento storico sullo zen giapponese”
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7 Febbraio 2018 alle 7:23 pm
Argomento interessante e sempre attuale. Ho scaricato lo scritto, lo leggo e commenterò, se possibile. Grazie per la condivisione.
(P.S. provai a postare, tempo fa, una critica nel thread precedente buddazot, mai vista!?)
7 Febbraio 2018 alle 7:28 pm
Ciao Nello, temo che la tua critica si sia persa nel vento: non c’è nemmeno nei commenti in attesa.
Forse “il sistema” è allergico alle critiche… 🙂
7 Febbraio 2018 alle 8:32 pm
non è arrivato niente. neanche nelle notifiche né nello spam. forse era un commento buddista: vuoto.
7 Febbraio 2018 alle 9:25 pm
Grazie per la conferma Px.
I commenti vuoti sono i più graditi
8 Febbraio 2018 alle 1:29 am
Caro Yushin non si può affrontare seriamente un tema del genere nel modo in cui lo hai fatto tu. Non è così maldestramente riducibile il Giappone e nessuna “storia” di chiunque altro. Prendi ad esempio un nipponista molto preparato come il Prof. Massimo Raveri che nel suo saggio “Il pensiero giapponese classico”, scrive 581 pagine per entrare un minimo, e nemmeno esaustivamente, nelle varie argomentazioni, e per farlo indica una fittissima bibliografia di circa quaranta pagine!
A fine lettura, annoiandomi parecchio,sorge una considerazione: avranno diritto i giapponesi a essere giapponesi?
Non si può ridurre a poche battute monotematiche una storia di duemilaseicento anni, sì, perchè prima dell’arrivo della scrittura, esisteva comunque una tradizione orale. Anche nel buddismo per i primi secoli la trasmissione degli insegnamenti canonici fu orale.
Ricordo, per chi fosse interessato allo Shinto, che i principali studiosi italiani della materia, sono i professori: Massimo Raveri, Fabio Rambelli, Fosco Maraini. Mentre per i nuovi culti giapponesi, un’esperta è la Prof.ssa Erica Baffelli, che ha una cattedra in Inghilterra.
Caro Yushin, se il mondo compra i prodotti giapponesi, tra i quali includo la loro estetica, la loro arte e financo le loro religioni (per esempio il buddismo Nichiren è molto diffuso ovunque nel mondo, alla gente piace, sarà libera la gente di avere gusti strani?).
Il Periodo Tokugawa (1600-1868), quello della chiusura al resto del mondo, ha prodotto una fioritura di arti, una sorta di rinascimento giapponese infranto minacciosamente dall’aggressione americana, uno stato, quello americano, che inizia la sua nefasta storia con lo sterminio di milioni di nativi (avranno diritto gli apaches di essere proprio apaches?). Questa aggressione gravissima e imperialista (anche senza amaterasu), del commodoro Perry, di uno stato sovrano a vasa propria, è analizzato in modo obiettivo da rarissimi storici che per la maggioranza sono allineati con il vincitore, con lo status quo e pervicacemente occidentecentrici, con tutto il portato imperialista che il termine indica e induce. Questa aggressione americana al Giappone si colloca nell’espansionismo coloniale dell’epoca, fatto che costrinse il Giappone a scelte obbligate e sbagliate per non essere ridotto a colonia, scelte che nel tempo hanno decretato in un tempo breve (una ottantina d’anni dall’arrivo di Perry), la sua fine in mani americane dopo due bombe atomiche su cittadini inermi che sono un crimine contro l’umanità e gli autori, o chi per loro oggi, andrebbero processati e condannati.
Chi volesse approfondire un minimo quel periodo, può farlo leggendo l’ancora valido classico di George Sansom, “A History of Japan 1615-1867”.
Il tuo scritto Yushin, fa un giro lungo (ma sempre troppo breve per essere seri sull’argomento), per andare verso un tema antico, sarebbe stato più onorevole affrontarlodirettamente e dire: il buddhadharma non ha nulla a che vedere con l’estetica giapponese e le arti tradizionali giapponesi anche quando da questo ispirate. Non c’entra nulla per queste ragioni: 1,2,3,4,5,….Mangiare con i bastoncini (hashi) non c’entra nulla con lo zen, non ci sono “maestri” zen, lo zen non si può insegnare, è una esperienza diretta tra te e te. Lo zen non è dipendenza ma interdipendenza, e così via….
Sempre con simpatia
8 Febbraio 2018 alle 7:35 am
Sì, Nello, ho letto i libri di Craveri. Anche quello da 581 pagine che, tra l’altro, mi ha dissuaso dallo scrivere il terzo volume del Mahayana: quello basta e avanza. A parte una pressoché completa ignoranza del significato reale di “buddismo” sono dei capolavori di accuratezza e di capacità di ricerca. Craveri è uno scholar, uno studioso, non pretende di essere altro. Io sono un praticante che si interroga su un perché: se come dici “il buddhadharma non ha nulla a che vedere con l’estetica giapponese e le arti tradizionali giapponesi anche quando da questo ispirate. Mangiare con i bastoncini (hashi) non c’entra nulla con lo zen, non ci sono “maestri” zen, lo zen non si può insegnare, è una esperienza diretta tra te e te. Lo zen non è dipendenza ma interdipendenza”, allora perché i giapponesi in buona fede (questo è importante) insegnano tutt’altro? Il resto (l’imperialismo, lo sterminio degli Apaches, il processo ai crimini di guerra americani…) non c’entra nulla.
La simpatia è reciproca, perbacco. Un argomento è un argomento, una persona è una persona.
9 Febbraio 2018 alle 2:52 pm
Processare gli americani per crimini contro l’umanità (pellirosse, Vietnam, Hiroshima, Nagasaki, Cile, Bolivia, Panama, Irak, Somalia,Afghanistan,Corea, ecc….), sarebbe catartico per il mondo intero e farebbe rientrare, o comunque equilibrerebbe i velleitarismi mercantili del clero zen che adotta gli stessi criteri dei cristiani sintetizzabili nell’assunto: ti do quello che ti serve (cibo, scuola, ospedale – estetica zen, autorità, nipponismo), se serve per affernare quello in cui crediamo. Chi ha reso il mondo “mercato” sono le corporazioni americane che hanno un unico e pericolosissimo dio che si chiama dollaro, per quello bruciano tutto.
9 Febbraio 2018 alle 4:06 pm
Sebbene non guardi alla politica da politico, concordo in parte su quel che dici. Dove non concordo è che penso il mondo non sarebbe migliore per un processo in più, sarà sempre il mondo della sofferenza. Certo che cercare l’endorsement divino per la propria moneta (“in God we trust” oltre che motto nazionale compare sui dollari) è quasi un’operazione demoniaca, se diamo retta a San Basilio… Da questa parte dell’Atlantico, d’altronde, ricordiamo che l’imperatore Teodosio I stabilì nel 380 (quindi prima di Tenmu) che il cristianesimo era l’unica religione ammessa nell’impero romano, trasformandola in religione di stato e in Italia il cristianesimo rimase, per legge, religione di stato sino al 1989 (!) quando vi fu l’abolizione con una sentenza della Corte Costituzionale (n°203/1989). Tra i tanti esempi possibili, vi è il cosiddetto “istituto del matrimonio riparatore”, che permetteva allo stupratore di una ragazza minorenne che avesse acconsentito a sposare la donna stuprata, di non essere considerato colpevole del reato di violenza carnale. Ovvero: se un uomo stuprava una ragazza ma poi se la sposava non era perseguibile penalmente (articolo n. 544 del Codice Penale). Questo barbaro “istituto”, abrogato nel febbraio 1996 (!!!), riprendeva, quasi alla lettera, una norma dell’Antico Testamento: Deuteronomio, capitolo 22; 28-29. Con la sola differenza che nel Deuteronomio il matrimonio riparatore in caso di violenza carnale era accompagnato anche dal versamento di 50 monete d’argento al padre della ragazza, un’opzione che il nostro codice, più risparmioso, non prevedeva. Per non parlare della santa inquisizione (1184), nella quale la tortura fu autorizzata da Papa Giovanni XXII nel 1252, poi estesa all’America Centrale e Meridionale e che fu abolita dagli stati europei solo nel XIX secolo…
9 Febbraio 2018 alle 5:35 pm
A me lo scritto di Yushin piace, è chiaro, informato, conciso. Nasce da un quesito dichiarato, e dà elementi per cercare una risposta. E’ tutt’altra cosa da un testo come quello di Raveri, al quale, pur non avendolo letto, non penso, Nello (ciao), che possa essere paragonato, per un motivo di sostanza, di posizione: Raveri e gli scholars scrivono sul buddismo, questo è uno scritto di buddismo. Ovvero, lì il buddismo è oggetto esteriore di studio, qui è soggetto interiore di ricerca: è la domanda buddista di un buddista sul quel buddismo.
9 Febbraio 2018 alle 6:11 pm
Grazie jf.
Abbiamo molto da imparare da come in Giappone si sia evoluto, e o involuto, il buddismo. Idem per ciò che riguarda la Cina e l’India. In Giappone, in Cina e in India ci sono (state) persone che hanno praticato sino al massimo delle loro possibilità vitali e hanno lasciato tracce su percorsi possibili. È estremamente importante analizzare a fondo queste testimonianze, nel loro contesto. Comunque dobbiamo, dovremo fare tutto daccapo, e quindi prima di tutto occorre conoscere bene il bambino per distinguerlo dall’acqua, che non tutta è sporca, non tutta è pulita. Rifiutare in toto non è cosa, imitare perché si fa così: altrettanto. Per la prima volta nella storia siamo in grado di “vedere” India, Cina e Giappone, un’occasione da non perdere.
9 Febbraio 2018 alle 6:46 pm
Una cosa che rimprovero al Giappone, è la convinzione sottile, pervasiva e adamantina, di rappresentare e custodire il “non plus ultra”, il punto finale: nel buddismo giapponese questa mentalità è il sottinteso quasi onnipresente, anche nei loro testi “nobili”. Questo atteggiamento ha una forte carica propagandistica e convincitoria, ma rischia di mortificare lo spirito di ricerca che credo non debba mai sopirsi del tutto e non è in contraddizione con la pratica della fede nel dharma.
9 Febbraio 2018 alle 6:49 pm
Giusto!
I non plus ultras siamo noi! 😎
9 Febbraio 2018 alle 6:57 pm
E ci mancherebbe…. finché dura!
9 Febbraio 2018 alle 10:59 pm
Ciao Yushin,ho letto l’articolo con molto interesse.Ho trovato illuminante la storia religiosa del Giappone,anche se devo ammettere di non conoscere il libro di Raveri.
Per quanto riguarda lo zen e la cultura giapponese,mi sembra un argomento fondamentale che ogni praticante dovrebbe approfondire,questo per chiarirsi quale sia l’una o l’altra,e quale delle due (o entrambe) si voglia praticare e prechè.
10 Febbraio 2018 alle 7:22 am
Buongiorno Sandro, benvenuto.
Sì, il punto si può riassumere anche così: chiarire l’uno (una?) e l’altra (ovvero la cultura giapponese) per chiarire quale dei/delle due si voglia praticare.
10 Febbraio 2018 alle 10:01 am
E’ una questione personale, forse.
Io non sono capace. E poi non so se la questione del modo giapponese sia nelle mie corde.
Una volta spiegato il “come” successivamente non so se abbia senso discutere di imitazione. Almeno per un laico a cui si richiede in fondo poca roba.
Se si sta parlando di me poveraccio nel marasma non capisco di nuovo, perchè non vedo come ci possa essere qui una quotidianità giapponese.
Proponendo lo zen come fate qua è sicuramente un po’ più facile migliorare pian piano la messa a fuoco della “forma giapponese” in mezzo a quanto le si dà accidentalmente come contorno. Perchè tornare sui propri passi e privarsi di uno srumento formidabile per aderire – in fondo – solo ad un galateo (non siamo giapponesi in giappone)? Magari il problema si presenta di più nella frequentazione di certi ambienti certificati dove si spiegano le cose della vita ed il vero è di casa. Sempre al netto del rispetto verso chi ne sa, per il suo vissuto.
Se non per esigenze pratiche, anche certe gestualità – imho – potrebbero anche essere facoltative: chi vuole fa, ma il farne a meno (per trascorsi o limiti personali, per personalità o inadeguatezza) non mi deve bollare con “extra ecclesiam”.
Forzando la propria abitudine in un certo vivere all’orientale si passa soltanto solo da una gabbia ad un’altra, solo un po’ più esotica. Magari diverte pensare solo che “lo famo strano”, però chissà se è una buona idea.
Scegliere a prescindere, senza mettere in discussione niente, mi pare un po’ come prendersi a bottigliate come faceva il glorioso Tafazzi (ognuno ha i riferimenti culturali che può). Poi sicuramente non ci arrivo, per carità, troppa roba per i miei due neuroni, non sono quel grande esempio di forza, coerenza e capacità.
Non la facite facile quando scrivete che ognuno si reinventa tutto quanto. Come gestire l’autoreferenzialità all’interno della pratica personale? C’è il rischio in questo di una comoda pigrizia? Sospetto non ci siano molte alternative, ma boh chissà.
10 Febbraio 2018 alle 10:26 am
Ciao Max, bentornato. Imho tu sei un esempio lampante de “ognuno si reinventa tutto quanto”, da quel che dici. Le coordinate che dai qui (niente lo “famo strano” né “tafazzismo”, né imitazione né quotidianità jpn, né un galateo esterofilo e poi: facoltatività di certe gestualità, laicità ma non “extra ecclesiam” ecc.) rappresentano un modo, o la tua maniera figlia della tua esperienza. Che -mi pare- ha già gli antidoti verso l’autoreferenzialità. Mentre per evitare la pigrizia il giapponesimo aiuterebbe. Non capisco però, quando dici “Perchè tornare sui propri passi e privarsi di uno strumento formidabile per aderire – in fondo – solo ad un galateo” che cosa intendi con “tornare sui propri passi” e “strumento formidabile”.
Quando sorgerà il sole anche dalle tue parti, nel profondo nord, ci vuoi spiegare svp?
10 Febbraio 2018 alle 10:38 am
Non sono uno studioso ma un semplice praticante che cerca la sua via.Ai miei occhi, forse un po sempliciotti,il discorso mi sembra abbastanza semplice e lineare.Intanto credo che lo zen sia nato in Cina, e non in Giappone,dall’incontro del buddhismo con l’antica cultura cinese,con il taoismo e confucianesimo,e non mi sembra che in questo caso il buddhismo sia stato assorbito insieme alla cultura indiana.solo successivamente quando lo zen (chan) era già nato e molto ben cresciuto è arrivato in Giappone,sicuramente subendo ulteriori modifiche a contatto con la cultura e sensibilità giapponesi.Ora perche dovremmo pensare che lo zen in occidente debba rimanere indivisibile dalla cultura e sensibilità giapponesi? Pena la perdita della sua “autenticità”? Non potrebbe forse essere il contrario?
Mi sembra anche importante capire che uno zen occidentale non corrisponde ad uno zen “annacquato” e che la sua nascita e differenziazione dallo zen giapponese non sarà sicuramente facile ma necessaria.Ai miei occhi da principiante per essere per NOI uno zen autentico,dovrà essere un NOSTRO zen
10 Febbraio 2018 alle 10:52 am
Il ragionamento fila. Resta un particolare insoluto: come si distingue nei fatti, vita quotidiana ecc., uno zen annacquato da uno che non lo è? Oppure, che è lo stesso: quando si guarda al “loro” zen, ossia al vituperato zen giapponese, come si distingue ciò che è zen autentico vestito con naturali panni nipponici da ciò che è “solo” cultura nipponica?
Lì hanno tutti gli occhi a mandorla…
10 Febbraio 2018 alle 10:54 am
Un consiglio, anche se forse capisco che cosa volevi dire: prima di usare l’aggettivo nostro (maiuscolo, per di più) legato a zen, ci penserei un poco. Minimo minimo non porta bene.
10 Febbraio 2018 alle 12:16 pm
Non volevo dire che esisterebbe già un “nostro “zen,ma che è assurdo pensare che la strada non sia quella,anche alla luce della storia.
Poi sicuramente non saranno i praticanti sperduti come me a favorire questo processo,ma uomini come te e Forzani e altri,che hanno vissuto anni nei monasteri giapponesi ed hanno dedicato la loro vita allo zen
10 Febbraio 2018 alle 12:42 pm
Temo tu non mi abbia capito. Sia prima che poi, se fosse “nostro” allora meglio restare come siamo, giapponesizzanti o giapponesizzati.
Come mi pare suggerisca tu, dando particolare valore agli anni trascorsi nei monasteri giapponesi.
Approfitto dell’occasione per dirlo: si possono trascorrere decenni nel posto migliore, questo di per sé non farà sì che chi lo fa realizzi alcunché.
10 Febbraio 2018 alle 2:31 pm
Aiutooo,temo di non afferrare.Forse il problema è l’uso dell’aggettivo “nostro”,con nostro intendevo dire uno zen occidentale,nato dall’incontro di una pratica (via) “universale” con la cultura occidentale.
Sono d’accordo che non esistano garanzie sul fatto di trascorrere decenni in Giappone o altrove,ma quello che mi sembra di vedere (forse sbagliando),è che ,chi è andato alla “fonte” spesso riesce a distinguere meglio lo zen come pratica universale dalla cultura giapponese,o forse e solo una mia idea
10 Febbraio 2018 alle 2:57 pm
Caro Sandro, finché andare alla fonte sarà andare in Giappone, continueremo a girare in tondo. E magari a pensare che esista una pratica o una via universale scissa, avulsa da qualsiasi cultura.
Anche se non c’è cultura che possa essere presa per via univerale.
10 Febbraio 2018 alle 3:36 pm
Ahi, lo sapevo che mi facevo male, sono impreparato, non ho le parole.
“Tornare sui propri passi” è cercare di nuovo sicurezza in un’altra chiesa universale (zen, o del giapponesimo), cambiare vestito a quello che si è già visto, cercare il comandamento che che dice: “fate così” e mandare a memoria la saggezza/tradizione che dice “è così”.
Prendendo per i capelli alcune parole di Guccini (lui le usa per un altro contesto, però):”E poi e poi, gente viene qui e ti dice / Di sapere gia’ ogni legge delle cose / E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco / di verita’ fatte di formule vuote / E tutti, sai, ti san dire come fare, /Quali leggi rispettare, quali regole osservare,/ Qual è il vero vero, /E poi, e poi, /tutti chiusi in tante celle, / Fanno a chi parla piu’ forte / Per non dir che stelle e morte fan paura.” Forse ci sono già passato, ormai so farmi male da solo.
Per “strumento formidabile” (aggiungo tra i tanti – o pochi – altri strumenti) intendevo la possibilità di esplorare vivere e riposare nella “fede senza oggetto”, anche sotto la luce di un po’ di buon senso. Mistici ok ma senza rinuciare ad un po’ di sana logica. Dopotutto abbiamo avuto più o meno la fortuna di venire educati ad un metodo di verifica scientifico dove di tutto si può dire “è sbagliato” e nulla si può affermare come giusto per sempre.
Trovo strano cercare lo zazen e poi obbligarmi in una qualche forma di “codice che stabilisce le aspettative del comportamento sociale” (galateo). Dopo tanto impegno a correggersi. Se non fosse una finzione verrebbe da sè.
10 Febbraio 2018 alle 4:10 pm
Eeeeh caro Max, chi va al mulino s’infarina. «Esplorare vivere e riposare nella “fede senza oggetto”» non è male.
In effetti cercare lo zazen perché non ne vogliamo più nemmeno mezza, massacrarsi le gambe davanti a un muro e poi farsi ingabbiare nel solito giochetto da qualche prete vestito da pinguino … ecco, si può far di meglio.
10 Febbraio 2018 alle 4:14 pm
Pratica “universale”significa aperta a tutti.
Da “lo zen di Dogen come religione”
-Tuttavia la caratteristica dello zazen di Dōgen Zenji è quella di poter essere consigliato a chiunque, in qualunque luogo e non ha nulla a che fare con l’essere saggi o sciocchi, intelligenti o ottusi. Questo perché il suo zazen è la semplice pratica di shikan (“unicamente questo”) priva di uno scopo particolare. E il fondamento del suo shikantaza (“unicamente sedere senza altro proposito”) è la pratica del dharma del Buddha, ovvero lo zazen come religione.-
10 Febbraio 2018 alle 4:19 pm
Vero, verissimo.
Molte cose sono “aperte a tutti”, è una definizione che non definisce un granché.
Comunque è proprio come dici.
10 Febbraio 2018 alle 4:44 pm
Era una risposta a Massimo,per chiarire da dove venisse il termine universale.Mi inirridiva l’accostamento di zen e chiesa universale
10 Febbraio 2018 alle 5:10 pm
Ah be’, adesso è tutto chiaro.
La chiesa universale dici, però, non è un’idea malvagia…
10 Febbraio 2018 alle 6:45 pm
hahaha si ci manca
10 Febbraio 2018 alle 6:48 pm
🙂
10 Febbraio 2018 alle 7:21 pm
La giapponesizzazione dello zen non è solo questione di abiti, liturgie, addobbi e modi di dire: è una forma mentis penetrante, che influenza e modifica chi la frequenta ben oltre il livello conscio. Conseguenza del fatto, che mi pare l’argomento principale dello scritto di mym, che la “giapponesità” è un’ideologia totalizzante, volta a formare l’individuo corpo e anima. E lo zen può essere usato come strumento a quel fine, non diventare giapponesi, che è deo gratia impossibile, ma interiorizzare un’ideologia totalizzante. In questo senso chi ha vissuto anni nei monasteri giapponesi è più a richio di altri di esserne stato penetrato fino al midollo (per inciso concordo al 100% con l’ultima frase di @mym 22). La questione mi pare chiedersi (e di questo stiamo parlando, credo) se e perché sia il caso di liberarsi dall’influenza giapponese: e nel caso, come. Una traccia può essere non dimenticare che 1) zazen l’abbiamo “appreso” da loro; 2) zazen non lo hanno “inventato” loro.
10 Febbraio 2018 alle 7:51 pm
Proprio così.
Per questo dicevo che molti giapponesi in buona fede trasmettono assieme giapponesimo e zen. Ma senza il loro insegnamento potremmo strapparci i capelli uno a uno ma non avremmo mai saputo com’è. Senza qualcuno che lo sappia fare e te lo trasmetta… sono solo chiacchiere.
10 Febbraio 2018 alle 9:16 pm
Molto interessante.Evidentemente la questione è molto più complessa di quanto riuscissi a immaginare
10 Febbraio 2018 alle 9:30 pm
Non so come la immagini ma la questione ha veramente molte facce. Per esempio, parlando di quelli che hanno trascorso un lungo periodo in Giappone, volenti o nolenti sono quelli che hanno assorbito più a fondo il giapponesimo. E, spesso, nemmeno lo sanno. E se, con fatica, se ne accorgono (è difficile vedersi durante movimenti che sono diventati naturali) devono compiere un’operazione molto delicata, dove bambino, acqua sporca e acqua pulita si confondono e si sovrappongono. Perché, come ti accennavo, non c’è la trasmissione autentica, pura e semplice, quando c’è è sempre vestita nei panni di uno o dell’altro. Altrimenti non c’è.
Ovviamente non parlo di quelli che si fregiano di essere (stati) discepoli di famosi maestri dai quali hanno ricevuto la fantomatica TRASMISSIONE DEL DHARMA. Qui, di solito, non ci occupiamo di “chiacchiere e distintivo”. Anche se a volte facciamo un mucchio di chiacchiere.
10 Febbraio 2018 alle 9:32 pm
Ho sbagliato e non volevo dare l’impressione di saperne. Però dal basso si legge nello scritto di mym che l’obiettivo di una ideologia totalizzante è di condurre, comandare chi non ne è al vertice/centro. In che cosa indicate l’utilità del giapponesimo?
Grazie per aver insegnato zazen, anche ai duri di comprendonio come me (tra l’altro non penso di aver imparato proprio bene bene bene dotto’…)
11 Febbraio 2018 alle 7:48 am
Max sei un filone, occhio che prima o poi qualcuno se ne accorge e… i meriti qua i meriti là e ti fa lavorare aggratis 😮 😛
Il giapponesimo, come l’italianità, non ha alcun merito specifico. Però se vuoi imparare un gioco devi andare da chi lo conosce e giocare con le sue regole. Il problema è se, poi, riesci a giocare lo stesso gioco senza imitare la forma di chi te lo ha insegnato. E se chi te lo insegna intende trasmetterti il gioco, non la forma. E se chi te lo insegna conosce davvero il gioco e non solo la forma. E se tu sei davvero interessato al gioco e non solo alla forma/carriera/ruolo. E se fai lo sforzo, ci metti l’energia, l’atteggiamento interiore necessario, oppure no.
11 Febbraio 2018 alle 8:30 am
Non si può mica separare il giapponesismo dai giapponesi, e nel caso dell’insegnamento i giapponesi vuol dire quella/quelle particolari persone. Che hanno (come lo abbiamo ciascuno) un particolare imprinting, volenti o nolenti, in cui anche la lingua, il linguaggio che si apprende fin da neonati e poi con cui si pensa e ci si esprime ha grande importanza. Ma se si fa lo slalom fra i paletti che i “se” del precedente commento (@38) rappresentano senza inciampare, e se si inciampa e si cade, se ci si rialza e si riparte non una ma tantissime volte, allora è un gran bel gioco.
11 Febbraio 2018 alle 9:10 am
Se la signoria vostra mi consente, addirittura direi: chi non inciampa non gioca, o: non c’è gioco senza inciampi. Non per tirare in ballo il Giappone perché la frase non è giapponese, ma ai lati della scalinata del “nuovo” Antaiji c’erano (e ci sono di nuovo grazie al restauro di Seyu roshi, nostro fratello anziano) due pali bianchi con su scritto: solo chi cade si può rialzare.
11 Febbraio 2018 alle 9:20 am
Grazie, magari un po’ per volta ci arrivo anch’io… Ha senso “interiorizzare un’ideologia totalizzante” nel percorso, mah …”laico”? o per dire … di chi non passa lunghi periodi “in chiostro”, di chi è arrivato tardi all’opportunità di praticare, di chi solo non se ne sente incline? Forse c’è rischio che ci sia solo il tempo di confezionare il veleno ma non l’antidoto. Magari uno non titolato come me ascolta, fa, si sente meglio e finisce lì, ritrovandosi in un’atra dipendenza. Imho interiorizzare ed esprimere l’impegno (totalizzare per un “laico” è un termine – forse – con limiti diversi) è più adatto rispetto a interiorizzare/totalizzare un’ideologia.
Voglio dire, esiste una via anche per chi si trova nel mezzo, per chi non ha doti spiccate e ha limiti più o meno evidenti. Perchè parlare di identificarsi totalmente come qualcosa, visto che invece si tratta di “andare, cadere, rialzarsi, andare”? Per andare dove dobbiamo andare,dove dobbiamo andare? (cit.)
11 Febbraio 2018 alle 9:25 am
Ops! Con “di chi solo non se ne sente incline” intendo non incline al chiostro.
11 Febbraio 2018 alle 10:10 am
Penso che a rispondere a queste domande ci metterai parecchi anni. Quando hai fatto ripassa: interessa anche a me aver la soluzione pronta…
Anche se mi priverebbe del gioco e potrei solo fare come te invece di fare come me.
Insomma: hai voluto la bici? Eeeeh, caro mio …
11 Febbraio 2018 alle 11:23 am
Concordo con mym @10 e jf @33 e mym @34, resta in campo la domanda che ponete e che sorge spontanea, come regolarsi? E’ evidente che lo zazen, il suo approfondimento, stabililirà la forma zen naturale per questo luogo (direbbe Nishida).
Quando chiesero a Shunryu Suzuki come sarebbe stato in futuro lo zen americano rispose “molto colorato”, a indicare che era ben consapevole che avrebbero trovato e dato una loro forma all’insegnamento. Quando mym dici che è una grossa opportunità poter disporre delle esperienze di India, Cina e Giappone, è vero, ma si evidenzia anche il fatto che in Cina e India l’insegnamento è pressochè scomparso mentre in Giappone, nonostante la secolarizzazione e le intrusioni “politiche” che evidenzi nello scritto del thread, resiste una originalità dell’insegnamento. La “politica”, è quel fenomeno che impone a Shunryu Suzuki di dare obbligatoriamente le secolari campane del suo tempio per farne delle eliche per navi da guerra…Suzuki ha sempre criticato il sostegno militare dato allo stato dalle organizzazioni buddhiste all’epoca della guerra, tuttavia si è allineato obtorto collo. Poteva opporsi strenuamente e sarebbe stato fucilato con il risultato che la sua comunità non avrebbe avuto nè le campane, nè Suzuki Roshi. Ormai sono centinaia i tibetani che si sono immolati bruciandosi contro l’invasore cinese, secondo me, sarebbero stati più utili alla causa da vivi, ma io parlo da qua e non è facile entrare nel loro intimo essere, lo stesso vale per i giapponesi che non possono che essere loro stessi. Quando Suzuki Roshi, prossimo a morire, decise di dare la successione alla guida del tempio il discepolo americano Richard Baker, nessuno dei discepoli anziani era d’accordo ma lo fece lo stesso, come dire, nemmeno lui (che personalmente considero una grande figura), poteva uscire dalla sua giapponesità.
P.S. la comparazione con Raveri di @5, non era da riferirsi al contenuto del thread ma al rigore necessario per affrontare una qualsiasi tematica che coinvolge la responsabilità di chiunque, scholar and confessional.
11 Febbraio 2018 alle 11:24 am
@41 riga 7: “atra dipendenza”… mi stuzzica, come si fa?
11 Febbraio 2018 alle 11:40 am
@44: direi che occorre regolarsi in modo da non regolarsi in un modo fisso. È un filo sottile perché da un lato il “lo famo strano” di cui parlava Max, dall’altro si rischia la noia del banale, del buon senso a tutti i costi. Occorre liberarsi delle fantasie e muoversi anche con fantasia. Il sutra del diamante un po’ spiega come si fa. Tacere quando non si è limpidi, costruire nuova storia solo a partire da… da… dadà.
11 Febbraio 2018 alle 12:24 pm
@45
Non volevo specificare niente, perchè ciascuno nella sua pratica riponde per sè, e sono un ipocrita a indicare.
Vabbè visto che me le cerco proprio tutte, scrivo e aspetto la bastonata.
Le dipendenze sono tante, ma facciamo una cosa del tipo: “Sono stanco … proviamo … inizio a sedermi… interessante … devo prendere i precetti prima di tutto, … è meglio quando c’è il maestro … il vuoto è forma, la forma è vuoto, magari a ripeterlo mi convinco o capisco … mi compro un kimono scuro, ah non si chiama così? è meglio della tuta, comunque … ed è giapponese … in giapponese è tutta un’altra cosa … se il maestro mi tratta come un pezzente sta usando mezzi abili … il vero zen, il vero buddismo (si scrive con h o senza, dicono sia importante) … non ho tempo per i ragazzi, devo andare al dojo … il mio maestro è più maestro del tuo … adesso mi compro lo zabuton … incensi … oryoki, oryoki !! come, 50 carte per un oryoki? soldi ben spesi, è fatto a mano recitando il nembutsu! ah cosa ‘entra il nembustu? è giapponese! noi zen possiamo usare tutto!… sutra come se non ci fosse un domani … devo avere kesa e rakusu … attenzione a non entrare in cucina che il tenzo si incazza. sei sulla soglia, non dentro e volevi solo chiedere se potevi aiutare? sai non si può fare di testa tua, è tradizione … in casa solo tatami da adesso in poi … vestirsi di scuro e testa rasata … devo avere almeno una calligrafia e l’altare a casa … devi entare nel dojo alla sinistra della porta, la destra è per il maestro. o no, forse ricordo male … si comincia con il pede sinistro, no destro? è dal lignaggio … senso orario o antiorario? … bagna cauda? no grazie preferisco la tempura …devo diventare bodhisattva, prendere i sacramenti … è formale, stai al tuo posto … certo somiglio ad un prete. Ops! ma a me non piacciono i preti. Certo che non somiglio ad un prete … la porta senza porta, zazen senza scopo … certo lo dice il maestro devi chiedere a lui ma io l’ho sentito… è una cosa formale… ecco un satori, sono sulla strada giusta … soprattutto dana … questa cosa è solo per gli ordinati, gli altri possono uscire. Chiudete la porta senza porta. Era un’altro discorso quello hai ragione ma fa uguale. Chiudi … il vero zen, so fare zazen … mi siedo da molti anni … certo che quando mi siedo in zazen trovo pace”
Mi rendo conto che proprio stigmatizzare questo o quel comportamento è l’altra faccia della stessa medaglia. Scrivendo ho fatto lo stessa cosa che ho descritto.
Ahia. Non così forte le botte però.
11 Febbraio 2018 alle 12:37 pm
Mai pensato di fare teatro?
11 Febbraio 2018 alle 12:38 pm
Accipicchia, hai avuto un’infanzia (zen) difficile…
11 Febbraio 2018 alle 2:02 pm
@48 Teatro no, sono più adatto al circo, come pagliaccio 🙂
@49 In effetti no, non è stato difficile. Anzi devo ringraziare Paolo che mi ha “introdotto”, Daido che ho conosciuto poco (colpa mia), la pazienza di tutti quanti gli amici del dojo i quali mi hanno sopportato ed aiutato, e ultima ma non ultima tutta quanta la Stella, cominciando dai presenti. Qualcosa l’ho vista o sentita, qualcosa l’ho pensata davvero (p.e. “devo prendere i precetti per essere un praticante serio?” “oh come mi fa star bene lo zazen”) e qualche cosa l’ho vissuta in prima persona (e Daido non c’entra, non era presente), cioè: l’episodio della cucina e del Tenzo, i momenti formali e l’incazzatura se non si faceva così, i “fuori i non ordinati, qui solo dai bodhisattva in su insieme si fa dopo”, la storia del maestro migliore, la storia del si fa come dico perchè sono andat* in giappone. Vabbè dai basta.
11 Febbraio 2018 alle 2:06 pm
@ 47
Non ho capito nulla e ancora mi gira la testa.
Ma è comunque FANTASTICA,potrebbe essere il testo perfetto per una nuova canzone di Francesco Gabbani
11 Febbraio 2018 alle 2:27 pm
Buondì, mi introduco anch’io.
Secondo me un buon modo per non buttare via bambino e acqua sporca assieme è chiedersi: mi aiuta nello zazen?
Partendo da poco dopo lo zero:
Io, in piedi, vestito normale:
Qual è la posizione in cui praticare zz è più “facile”? Sullo zafu: ok, l’elemento “zafu” lo importo. E’ l’unico modo? No, rimango flessibile (No pensiero: si fa solo così). Poi: se mi vesto da Pingu mi siedo meglio? No. Può essere utile? Si, se in questo momento ho bisogno di identificarmi in un certo personaggio per riuscire a trovare la determinazione a sedermi. Poi: l’incenso è strettamente necessario al sedersi? No. E’ utile? Sì, se uno fa una puzzetta non si sente troppo e minimizza le possibili distrazioni olfattive. Posso provare a non accenderlo per un po’ e vedere cosa succede. Poi: la campana mi serve? No, soprattutto se sono da solo. Se siamo in due? Potrei schioccare le dita, suonare una padella con un mestolo, però ogni tanto anche l’occhio e l’orecchio vogliono la loro parte suvvia. Quindi la posso tenere pur senza cadere nel pensiero “si fa così”. Ecc…. con oryoki, precetti, nomi e nomignoli. Può funzionare, no?
11 Febbraio 2018 alle 2:47 pm
Ciao Fago. Sì, può funzionare.
Se eviti di pensare come sei arrivato lì, in piedi, vestito normale, con conoscenza dello zz al punto da poter vagliare oggetto per oggetto per vedere se giova o no.
A quel punto, fosse così, resterebbe da vagliare solo la risciacquatura.
11 Febbraio 2018 alle 5:30 pm
Ci dovrebbe essere comunque modo anche per i buzzurri come me, tiepidi, senza capacità. Lasciando perdere le menate sopra, mi sento incline più a una pratica scarna, fuori dai riti e dagli incensi e non ho la pretesa di avere ragione. Per me non fa problema se non va bene per chiunque altro. Tenendo bene a mente che non è una regola assoluta, potrebbe esserci spazio in abbondanza anche per il resto.
Il fatto che si faccia riferimento al Giappone è anzi molto utile imho se si vuole capire sempre meglio, e se spiega qualcuno che conosce bene il giapponesimo è sicuramente una grande ricchezza.
Cosa porta il chan a essere meno diffuso, perchè sembrano esserci meno praticanti in occidente rispetto al numero di zen?
11 Febbraio 2018 alle 5:43 pm
Alle condizioni che poni tu, Max, c’è spazio per tutti e ne avanza ancora da una parte e dall’altra.
A parte Suzuki D.T. e poco d’altro, lo zen è stato “scoperto” dagli occupanti americani dopo la guerra. Poi, molti zen giapponesi, visto che la cosa piaceva, hanno traversato il mare e sono sbarcati in Occidente. In Cina questo processo non c’è stato. Per di più la rivoluzione culturale ha dato una botta tremenda a tutte le istituzioni religiose del Paese Centrale. I cinesi immigrati in Occidente se sono buddisti lo sono, per lo più, a livello di “parrocchiani”. I praticanti chan se ne stanno sulle loro montagne.
11 Febbraio 2018 alle 5:49 pm
Buonasera Massimo,
secondo me una pratica “fuori dai riti” è proprio per quelli svegli assai.
Per noialtri penso che la ritualità sia un alleato prezioso per cercare di gestire al meglio lo zazen da non seduti. Purchè sia un alleato non troppo invadente (ovvero che non spinga a scambiare il movimento esteriore con il movimento interiore). Il rito crea valore e il valore crea attenzione
11 Febbraio 2018 alle 5:52 pm
@mym53
Non sono sicuro di aver capito cosa intendi..mi lascio un attimo di riflessione
11 Febbraio 2018 alle 6:10 pm
@56 Ciao Fago. Non credo proprio di essere tra quelli svegli, tutt’altro. Non voglio saperne più di riti, ho già dato con quelli cattolici. E di aiuto ne ho bisogno, e di tanto aiuto.
Imho il rito non crea valore nella pratica (ma non sono nessuno per dirlo), ma dà la sicurezza falsa della norma.
Un rito tutt’al più una forma di festa comunitaria, un sigillo, nel contesto di un rendere pubblico un cambiamento ed una scelta.
Il valore lo crea il “motore” del rito: pensa al matrimonio e all’amore tra due persone.
Sempre opinioni personali.
11 Febbraio 2018 alle 6:28 pm
@58
Secondo me “il rito crea valore” nel senso che quando siamo dentro ad un qualsiasi tipo di forma rituale inconsciamente viene da pensare che ciò che sta succedendo è importante. Chiaramente è un prendersi in giro, ma a fin di bene direi. E la sicurezza falsa della norma prende piede se non si fa lo sforzo (non che sia facile) di ricordarsi costantemente che è appunto un “abile mezzo” e nulla più.
Riguardo al rito come festa comunitaria: penso sia solo uno dei modi di intendere la ritualità, io parlavo dei riti che si fanno per conto proprio o in compagnia ma “rivolti dentro”
11 Febbraio 2018 alle 6:34 pm
Gia che ci sono…
Onestamente però non so se valga la pena di prendere il rischio di rimanere impantanati nel “questo è il modo giusto” del rito (cosa moooooolto facile) oppure se sia meglio evitarlo già dal principio e cercare di “girare la luce” senza darsi particolari appigli nella forma. Però è troppo difficile secondo me la seconda opzione. Già lo è da seduti, figurarsi da “in piedi”
11 Febbraio 2018 alle 6:41 pm
@58 lo so non ci arrivo io, devi avere pazienza. E’ tutto a fin di bene, certo. Il rito rivolto dentro può avere o no una dimensione codificata e esteriore, questo può facilitare alcune cose e complicarne altre, ma in quest’ottica non dirmi che entrare dal lato sinistro della porta sia un rito. La stessa cosa per l’assenza di riti. Secondo me dipende da persone e tempi. Per falsa sicurezza intendevo pensare che basti fare così per fare bene. Chiaramente in comunità le cose sono comuni e ci devono essere dei codici.
Però sto facendo quello che la sa lunga, e non è così, assolutamente no.
Anzi.
Una domanda: in cosa lo zazen è un rito?
11 Febbraio 2018 alle 6:43 pm
Poi la cosa dello zazen in piedi mica l’ho capita.
11 Febbraio 2018 alle 6:51 pm
@61
Effettivamente io stavo pensando per me.
La mia esperienza di vita comunitaria è pressochè nulla e lì le cose da un certo punto di vista si complicano, non saprei.
Entrare a sinistra è comodo così non ci si scontra con chi esce da destra 🙂
Non so se la domanda sullo zz fosse rivolta a me, comunque: il problema dei riti esiste finchè non ci si siede, poi no. Poi però ci si rialza e torna fuori. Quindi zazen secondo me è fuori dal problema rito/non rito
11 Febbraio 2018 alle 6:53 pm
@62
Intendevo l’attuazione del “movimento interiore” (è brutto…scusate) di zazen anche quando non si è seduti
11 Febbraio 2018 alle 7:08 pm
Capito, grazie
11 Febbraio 2018 alle 7:16 pm
Grazie a te, saluti 🙂
11 Febbraio 2018 alle 7:36 pm
Complimenti ragazzi. Una lezione di stile.
E non solo.
12 Febbraio 2018 alle 9:29 am
Un’altra considerazione. Stamattina, in un attimo di pausa, ho trovato questo: https://terebess.hu/zen/dogen/Fukanzazengi-6.pdf
Sono 6 traduzioni del Fukanzazengi, a confronto. Sull’affidabilità di queste non posso dire.
A prescindere dal resto però, anche in cose “statiche” come testi base (statiche almeno rispetto alle nostre storie) ci sono diversi “sapori”, variazioni, modifiche nel tempo. Forse così si pone la necessità di scegliere anche il riferimento Giapponese al quale aderire, per discernere quale aspetto sia da considerare o meno nella pratica. Qui la fiducia e l’affidarsi a chi ne ha fatto esperienza diretta diventano fondamentali. Magari anche nel modo che dovremmo evitare: occorre passarci, magari più volte boh. E’ un male necessario, forse.
12 Febbraio 2018 alle 4:04 pm
Che succede su al Nord, ha preso fuoco la Serra? Non ti facevo così loquace… 🙂
Per ciò che riguarda il Fukanzazengi l’unico vero, gggiusto e autorizzato è questo.
Più in generale, però, è bene ricordare che lo zen/chan è l’unica scuola, chiesa, gruppo, corrente buddista (e non) a non avere alcun testo di riferimento. Chi pratica davvero lo zen non aderisce a niente e nessuno. I riferimenti base sono due: 1) patisotagamin: che non aderisce, che non si imbranca, che non se la beve e 2) “prova, sbaglia, impara”. Fare zz e tentare di continuare a farlo nelle 24h è la realizzazione di entrambi.
17 Febbraio 2018 alle 11:38 am
Un po’ in ritardo su una discussione, con contributi interessanti, aperta da questo tema che personalmente ritengo argomento “vivo” per chi pratica e non guarda il buddhismo solo da osservatore/studioso. Comunque, le domande che mi accompagnano da tempo e che data l’occasione pongo sono: le suggestioni estetiche e/o intellettuali che hanno avuto il merito (per chi vive questo cammino) di avere avvicinato tante persone alla pratica hanno ancora un senso o permanendo tali ( suggestioni) ostacolano il cammino stesso? La giusta intenzione è il giusto sforzo non indicano una necessità di “svuotare le mani” da qualsiasi attaccamento e da ogni “stato non salutare”? Oggi il buddhismo produce nei praticanti stati salutari?
Penso sia un tema molto attuale visti gli episodi non edificanti che si moltiplicano nel mondo ( vedi Myanmar e Francia in questo periodo)
17 Febbraio 2018 alle 3:31 pm
Dario san, @70, prendiamo ad esempio una “suggestione” estetica come la Cerimonia del tè (Sado), dove mai nel mondo si è riusciti a far coincidere in un fatto ordinario come bere un tè, fattori quali: etica, estetica, sociologia, pedagogia, filosofia, spiritualità? Ci credo che il mondo se ne innamora! E lo stesso può dirsi relativamente ad altre forme di quella cultura, per esempio i loro giardini: dove mai nel mondo si sono prodotti giardini artificiali dove la mano dell’uomo scompare per lasciare le cose così come sono? Dove, nel mondo, si sono prodotte composizioni floreali che esprimono una visione articolata e sostanziata dell’universo? E così via…Queste tradizioni producono senso, cultura, formazione, educazione da secoli e continueranno a farlo e i valori che vi sono intrinseci sono universali, quindi non circoscrivibili al solo Giappone.Ora, queste “suggestioni” non si può dire che siano il “cammino stesso”, tuttavia da quello hanno attinto e se ne sono impregnate e questo incuriosisce le persone e le spinge ad approfondire…, è la gestione dell’approfondimento, mi sembra, l’oggetto della riflessione in corso. Il “cammino stesso” corrisponde a “ogni cosa che incontri è la tua vita” quindi, le mani svuotate potrebbero anche essere sempre piene in quanto non c’è nè stato salutare nè stato non salutare. Carissimo, come si sostiene, giustamente, in questi spazi da sempre, il buddismo non deve produrre praticanti tout court….nè in un modo, nè nell’altro. A mym le conclusioni
17 Febbraio 2018 alle 4:53 pm
Ciao Dario @70, bentornato.
Quello che dice Nello @71 è sacrosanto. Tuttavia vorrei esprimere un diverso punto di vista. Ciò che ci avvicina alla pratica ha la grande funzione di avvicinarci alla pratica. Sia la sublime arte giapponese, sia la presenza di maschiette o maschietti con grinta in qualche dove, sia la speranza di diventare dei padreterni son tutte cose che esauriscono la loro funzione nel momento in cui ti rendi conto che le tue motivazioni iniziali erano fantasie più o meno infantili e che sedersi è solo sedersi.
Maotsetung (ora Mao Zedong) diceva: non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi il topo.
Va bene come conclusione?
PS: qualcuno attribuisce la citazione a Deng Xiao Ping, discepolo ed erede di Mao, ma…
17 Febbraio 2018 alle 7:32 pm
Grazie. Quello che però continua a costituire un problema per me è la questione di ciò che produce il buddhismo su chi lo pratica, una questione ineludibile, una questione che dovrebbe portare a riflettere soprattutto chi lo propone come modo di vivere, e non solo in questo spazio che da sempre se ne occupa.
http://www.patheos.com/blogs/americanbuddhist/2017/11/a-storm-is-coming-tibetan-buddhism-in-the-west.html
PS Su Mao tse Tung mi viene in mente il detto “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”:-)
17 Febbraio 2018 alle 7:51 pm
Se al posto di “buddhismo” (nella frase “ciò che produce il buddhismo su chi lo pratica”) mettessi quello che intendi con “buddismo” la questione sarebbe più chiara. Per es.: ci sono diocesi australiane in cui il 40% (dati presi dal telegiornale Rai 3) dei parroci sono stati coinvolti in questioni di pedofilia. Se in base a ciò ci si chiedesse “che cosa produce il cristianesimo su chi lo pratica” sarebbe un cortocircuito. Cosa c’entra Gesù Cristo?
Non basta portare una tonaca per essere cristiani, non basta qualificarsi buddisti per esserlo.
Dal mio punto di vista, rispondere alla tua domanda in un modo buddista richiede praticarlo a lungo, senza riserve e vedere in noi quello che è successo, quello che succede.
18 Febbraio 2018 alle 1:51 am
Buonasera a tutti.
Piccola considerazione personale : io per la cultura giapponese ho veramente scarso interesse, mi sono avvicinato al buddismo per ragioni che nulla hanno a che fare con l’esterofilia, anzi : se il buddismo fosse nato, che so, a Catania, mi avrebbe fatto un gran piacere.
Ma ahimè, è nato dall’altra parte del mondo, e quindi mi tocca almeno in parte cercare di capire come se la campano la vitaccia da quelle parti, che sicuramente è diversa dalla nostra.
Per il resto, vivo una vita che più occidentale non si può, mi siedo una volta al giorno su un cuscino e a volte mi chiedo : quanto la conoscenza delle forme che il buddismo ha preso in Oriente mi può aiutare nella pratica ?
Un giapponese cattolico ha bisogno di fare il presepe e mangiare il panettone ?
18 Febbraio 2018 alle 6:35 am
“Menghia Ananda…isti, vinisti..e chi zuorbi facisti? 😉
18 Febbraio 2018 alle 7:48 am
Ciao Antonino @75, bentornato.
La domanda “quanto la conoscenza delle forme che il buddismo ha preso in Oriente mi può aiutare nella pratica?” penso sia una buona domanda. A cui però puoi rispondere solo tu: in base al tipo di problematica con cui dibatti nella tua vita allora vedi (in quella particolare problematica) come hanno fatto “gli altri”. Non per imitare: vedere come fa lui non è per fare come lui, ma per fare come te. A questo proposito ti suggerisco un’altra domanda: “quanto la conoscenza delle forme che il buddismo ha preso in Occidente mi può aiutare nella pratica?”. Non siamo all’anno zero, forse all’anno 0,01, ma non all’anno zero.
Forse per illuminare la dotta citazione di Fago @76 è opportuno consultare questa pagina.
18 Febbraio 2018 alle 7:50 am
@75:
Buongiorno Antonino, perdona la battuta sopra.
Comunque penso che la questione sia proprio se (e se sì, quanto e in che modo) le forme importate sono necessarie o meno per arrivare a capire cosa è “la pratica” e quindi per capire anche cosa “mi può aiutare nella pratica” e cosa poi può essere messo da parte perchè superfluo (pur essendo stato prima, forse, necessario).
18 Febbraio 2018 alle 7:52 am
Ecco lo sapevo…mentre scrivevo è apparso il commento 77. Vabè, si ignori il 78
18 Febbraio 2018 alle 7:55 am
Con pardòn, ne ho dimenticato un pezzo: riguardo a se “Un giapponese cattolico ha bisogno di fare il presepe e mangiare il panettone” in @75, penso sarebbe bene porre la domanda “all’ala cristiana” della Stella, ovvero a Vangelo e Zen.
18 Febbraio 2018 alle 7:57 am
Fago 79@, sai sempre tutto te…
Ma allora perché… ?
Mah!
18 Febbraio 2018 alle 8:01 am
Eh c’è chi in testa ha scimmie e cavalli e chi ha ippopotami ed elefanti…
18 Febbraio 2018 alle 8:09 am
Già.
E chi né gli uni né gli altri
18 Febbraio 2018 alle 10:10 am
@MYM: certamente, infatti, forse, bisognerebbe parlare di buddismi piuttosto che di buddismo (ho tolto la h), e che ognuno cerchi di capire a che cosa guarda per la sua pratica.
Questo non toglie però, anche alla luce del tuo stimolo alla riflessione a partire dal tema in oggetto, che ci siano questioni che “ci riguardano” comunque. Come tu, insieme ad altri studiosi, hai posto la questione del rapporto tra monoteismo e violenza, così si pone con grande attualità il tema sulla forma e sul rapporto con la pratica, non per risolvere la questione ma per denunciarne le storture.
Premesso che “il praticare a lungo e vedere quello che succede” è la condizione necessaria per parlare, non so se sia anche la condizione sufficiente: la “retta visione” non è la premessa per “il cammino”? E questa, in “assenza di fondamento”, non è rapporto vivo con l’errore?
18 Febbraio 2018 alle 10:41 am
Caro Dario, probabilmente tu dai per scontato qualche elemento che mi sfugge. Se qualcuno mi proponesse di fare uno studio sui problemi che tu poni, con ogni probabilità rifiuterei, perché non sento “miei” tali problemi. Potresti svp fare uno sforzo e farmi capire perché dovrei/dovremmo occuparcene? O, per usare le tue parole, perché “ci riguardano” comunque?
18 Febbraio 2018 alle 2:53 pm
Infatti, hai colto bene, è una premessa mia: per me la pratica è rapporto con la sofferenza, ma non solo la mia, inoltre come trovo ineludibile la critica al cristianesimo, allo stesso modo trovo importante avere uno sguardo altrettanto critico verso il buddismo come pratica.
18 Febbraio 2018 alle 5:16 pm
“Il buddismo come pratica” inteso come oggetto di critica rischia di essere un dato immaginario. Per quello ti rimandavo all’esperienza.
Per il cristianesimo (cattolico) è -un poco- più facile: ha una chiesa, una storia, un clero, un’ortodossia, libri sacri e libri quasi sacri. Per esempio non ho trovato nessun cattolico in grado di spiegarmi perché san Pio V nel XVI secolo modificò (falsificò?) le tavole della legge mosaica redigendo i 10 comandamenti. Tra l’altro “trasformando” il precetto “non commettere adulterio” in “non commettere atti impuri”, ovvero non commettere tutti gli atti sessuali sgraditi… alla chiesa. Non ostante Gesù stesso (Mt 19; 18) trasmettendo i comandamenti dica “non commettere adulterio”. Dal catechismo della chiesa cattolica: «2390 […] l’atto sessuale deve avere posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale».
18 Febbraio 2018 alle 5:39 pm
Io intendo il buddismo come sofferenza-comprensione della sofferenza-soluzione.
Di conseguenza, la mia pratica è calibrata su quello.
Quindi, andarmi a studiare cosa effettivamente voglia dire dukkha, zazen, dhyana, paticcasamutpada etc mi serve, perché il significato di quelle parole si è declinato in quello specifico linguaggio e in quella specifica cultura per più di 2500 anni, ed è impossibile studiare quelle cose prescindendo da quelle.
Per me in quei casi ha senso interessarmi a quelle cose, perché riguarda la mia pratica. Nel resto dei casi non ha senso, a meno che non ci sia un interesse puramente esterofilo.
Per esempio, libri come Bendowa, Lo Zen di Dōgen come religione, Discorso di addio ad Antaji li rileggo spesso, perché li trovo funzionali alla mia pratica.
Così come i testi editi da Santacittarama li trovo molto interessanti, perché sono di una semplicità molto efficace che aiutano a capire molte cose e a fornire spunti di riflessione.
L’interesse verso le forme orientali deve essere quindi funzionale alla pratica, non perché “si fa così”.
Per quanto riguarda l’occidente, il buddismo ha preso tante forme.. per esempio quello che propone la stella, in particolare nel dialogo interreligioso lo trovò un buon esempio, per quelli come me che non hanno mai rinnegato il cristianesimo e che lo sentono ancora influente nel modo di intendere la spiritualità.
Invece, le giapponesate e le tibetanate non mi piacciono per nulla. So’ gusti.
P.s. Sono siciliano, comprendo la battuta 😂
18 Febbraio 2018 alle 5:44 pm
Scusate gli errori di sintassi e grammaticali, L’ho scritto di getto tra una briscola e l’alrra
18 Febbraio 2018 alle 5:58 pm
“L’ho scritto di getto tra una briscola e l’alrra”: pratica occidentale? 😛
18 Febbraio 2018 alle 6:01 pm
Eh si, ma briscole di quelle equanimi, del tipo che se perdi o vinci mica ti attacchi.. via, lascia andare!
18 Febbraio 2018 alle 6:09 pm
Ah be’, allora… 🙄
18 Febbraio 2018 alle 6:14 pm
@88: sembra tu abbia le idee chiare. E non è male.
Forse sarebbe interessante sapere come fai a sapere che “nel resto dei casi non ha senso, a meno che non ci sia un interesse puramente esterofilo”.
18 Febbraio 2018 alle 6:31 pm
Non volevo dire che si fa male a farlo: semplicemente non trovo funzionale alla mia pratica occuparmi della storia della cerimonia del thè, ma magari un altro può trovarlo interessante e funzionale.
18 Febbraio 2018 alle 6:40 pm
Sì sì, dicevo che “il resto dei casi” è tanto, tantissimo.
Un’altra cosa che mi incuriosisce è questa funzionalità (alla tua pratica).
La cerimonia del té è (un po’) come un kinhin, solo molto ma molto più articolato.
18 Febbraio 2018 alle 7:16 pm
Beh io ho fatto degli esempi, ci sono molte più cose. O magari mi sbaglio, e tra qualche anno troverò interessante la cerimonia del the o mille altre cose, ovviamente
Funzionale, mi spiego: ovviamente in zazen non servono a nulla, però sono utili per capire cosa si sta facendo, perché, a quale fine, in quale modo.. quindi funzionali indirettamente
Un modo di confrontarsi, ecco
18 Febbraio 2018 alle 7:52 pm
E quando hai capito “cosa si sta facendo, perché, a quale fine, in quale modo”… o ti sei confrontato?
Forse non hai capito verso quali aspetti cercavo di attirare la tua attenzione.
In effetti non importa. La gioventù ha dei “diritti” speciali.
Non siamo mica in Giappone
18 Febbraio 2018 alle 7:58 pm
Dopo i commenti ultimi, interessanti, questa la mia riflessione
Quando forma e sostanza coincidono, il dualismo è estinto, ed è pure importante che non si trasformi in monismo, vale a dire che qualsiasi cosa offre sempre una eccellente opportunità di pratica aldilà del tipo di estetica che la qualifica. Io posso consumare un tè al banco di qualsiasi bar o in casa di chiunque, prendendo proprio un tè.
Il problema sorge, in questo ambito di esperienza e ovunque, quando invece di forma/sostanza si produce solo formalismo, imitazione, dualismo.
Un altro problema ancora poi, sorge quando il formalismo statuisce una autoreferenza sterile che sopprime l’essere qualsiasi egli sia, quindi non permettendo alle sue imperfezioni di porsi così come sono illuminandole fino a farle scoppiare, ecco, il formalismo fine se stesso schiaccia la natura reale impedendole di conoscersi, è quindi un pericolo tra i tanti…non esiste una vita senza pericoli e senza sofferenza e non esiste zazen che possa eliminarli.
18 Febbraio 2018 alle 8:07 pm
E chi ha detto che ho “capito”?
Non so, magari ho capito male, verso quali aspetti voleva attirare la mia attenzione?
18 Febbraio 2018 alle 8:19 pm
Ecco, colgo la palla al balzo datami da Nello : quello che intendevo per “funzionale” nei commenti precedenti può essere più precisamente detto “comprensione intellettuale di ciò che si fa”. Ovviamente poi tutta la mia vita, ciò che incontro vivendo, è funzionale alla mia pratica, perché la mia vita è la mia pratica.
19 Febbraio 2018 alle 7:15 am
Antonino @99: quello che volevo capissi è che pare tu assuma (magari un po’…) l’atteggiamento del capiscione, per usare un termine romagnolo. E siccome (nella cultura buddista e zen in particolare) vi sono ottimi motivi affinché quell’atteggiamento sia evitato, ti additavo alcuni punti dai quali tu potessi accorgertene. Però va bene così: imparare da soli è la miglior strada.
19 Febbraio 2018 alle 7:18 am
@98: concordo. L’ostruzione che formiamo dividendo ciò che è da ciò che penso che sia (una delle infinite varietà della dicotomia base soggetto-oggetto) spesso supera indenne anche lo zazen. Uno zazen che è tale solo nella forma.
19 Febbraio 2018 alle 1:20 pm
Ahh, ecco. Quiero pardon, non volevo dare assolutamente quell’impressione.
Imparare da soli è la migliore strada, sono d’accordo, ma la più severa, severissima.
19 Febbraio 2018 alle 2:56 pm
“Imparare da soli è la migliore strada, sono d’accordo, ma la più severa, severissima”: sai davvero tutto, tu.
Così, si fa per dire, mi ricordi un tale… 🙄
19 Febbraio 2018 alle 3:03 pm
E va bene, non dico più niente.. 😔
19 Febbraio 2018 alle 3:30 pm
Be’, sì, di solito star compressi una decina d’anni aiuta…
19 Febbraio 2018 alle 3:36 pm
Ahhh..
19 Febbraio 2018 alle 6:42 pm
OT: vi segnalo che la “nostra” pagina Videospigolature si è arricchita di alcune sotto-pagine.
Di cui questo è un assaggio.
E questo è un altro.
19 Febbraio 2018 alle 8:55 pm
OT: Ah…Gooood sittin’!!!
21 Febbraio 2018 alle 7:15 am
Da padre Luciano ho ricevuto il testo che volentieri vi propongo qui di seguito:
Desio, 20 febbraio 2018
Carissimo Yūshin, grazie per il testo che mi hai inviato sul giapponesimo. Sulle prime correggevo in giapponesismo, ma poi mi sono accorto che stavo svigorendo le tue riflessioni che invece stanno bene sotto il nome di Giapponesimo.
Anzitutto grazie perché fa piacere trovarsi su un piatto una vivanda pazientemente preparata e c’è solo da gustarla. Infatti quelle date e quei riferimenti mi sono utili per riordinare quanto io avevo già nella testa, ma non così in ordine. Convengo che il giapponese quando accoglie un’idea nuova la indossa sopra al suo kimono, come fa con i termini inglesi che introduce, per cui quando parla dice il termine importato aggiungendo che dice pressapoco… e pone lì il termine giapponese su cui ha indossato quello straniero. Riguardo il testo che hai scritto, farei soltanto una sostituzione: al posto di Kyoto scriverei Nara per indicare la provincia Yamato. E’ più corretto geograficamente e storicamente: infatti la prima capitale da cui la storia scritta è partita è Nara.
Ieri leggevo che papa Francesco ha fatto marcia indietro circa la decisione che aveva precedentemente pensato circa il comportamento dei preti e dei fedeli della diocesi di Ahiara, Nigeria, che non hanno accolto il nuovo vescovo perché è di un’altra etnia (meglio: di un’etnia minoritaria al confronto di quella predominante). Papa Francesco non voleva cedere sul principio basilare che rende cattolica la chiesa cattolica: la fratellanza universale radicata nell’unica figliolanza divina e naturale. Precedentemente la stessa situazione nella diocesi di Makemi (Sierra Leone) e Uvira (Repubblica democratica del Congo) dove sono presenti anche molti missionari saveriani. Anche qui da noi tocchiamo con mano come tutte le esaltate virtù umanistiche italiane sono messe alla prova (a volte in perdita) da qualcosa di più appellante dell’umanesimo che è la vita senza disturbi. Meglio, come tu più volte metti in rilievo, anche i messaggi religiosi vengono addomesticati dentro le abitudini primordiali dell’anima dei popoli.
Alcune prospettive che trovo non approfondite a sufficienza nel tuo scritto (almeno dalla mia percezione) sono queste.
1) Cosa ha animato la vita del popolo giapponese prima che la Cina si affacciasse a stimolare il bisogno di una strutturazione statale con al perno la figura mitica dell’imperatore? Di quella religiosità genuina c’è qualcosa che ha continuato a scorrere non ostante che la neo costituita struttura statale abbia tentato di assorbirla e asservirla? Oppure questa genuinità originaria non è mai stata così radicata da poter resistere all’assorbimento totale? Mi pare una domanda doverosa per missionari buddhisti o cristiani che intendono trapiantare i loro messaggi in Giappone.
2) Che cosa condusse Eihei Dogen a salpare per la Cina e, ritornato, a dare una testimonianza che ha infastidito l’establishment politico-religioso? Quel movente era una novità assoluta al confronto con l’anima giapponese originaria, oppure era un fondo ritrovato? Che cosa animava Ryokan quando scriveva le poesie solo nel suo eremo dal tetto che lasciava filtrare la pioggia?
3) Rievocando il film di Scorsese “Silence” la stessa domanda sorge di fronte al fatto storico di migliaia di cristiani che scelsero di morire piuttosto che arrendersi allo shōgun, e alle decine di migliaia che calpestarono l’immagine sacra per evitare le torture e la morte, ma ciò non ostante non ripudiarono quanto avevano creduto, lo custodirono, e dopo 250 anni di clandestinità hanno nuovamente professato la loro fede. La rivolta di Shimabara mise in atto 3 anni di resistenza agli ordini dello shōgun da parte di 27.000 contadini e pescatori che alla fine furono tutti massacrati. La rivolta scattò come reazione ai soprusi degli agenti statali che estorcevano l’80% della pesca e del prodotto agricolo. La scintilla fu lo stupro di una fanciulla da parte di un esattore davanti al padre che non aveva potuto pagare la tassa richiesta.
Carissimo Mauricio, grazie! Luciano
21 Febbraio 2018 alle 7:18 am
Caro Luciano, grazie per aver letto e commentato il testo sulla religione giapponese. Pensando alla tua riflessione, riproposta in quattro forme diverse: prima parlando della Nigeria di oggi con “la fratellanza universale radicata nell’unica figliolanza divina e naturale” e poi del Giappone antico come “genuinità originaria”, quindi del medioevo di Dogen come “fondo ritrovato” ed infine come spirito custodito e risorto riferito ai primi cristiani in Giappone (tralascio i fatti di Shimabara perché il richiamo allo stupro sposta il senso su un altro piano), ritengo che la comprensione e la realizzazione dell’insegnamento “amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente” conduca verso un chiarimento, assieme alla sua realizzazione nel quotidiano che passa, anche, per “amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Ma questo non riguarda solo missionari buddisti o cristiani, giapponesi o italiani. Soprattutto, pur nominando il “Signore Dio”, questa proposta può essere vissuta senza ricorrere ad alcun teismo. Questo è uno dei grandi meriti dello zazen.
Un abbraccio, mym
21 Febbraio 2018 alle 8:33 pm
In merito a @110, devo dire che trovo una presunzione “classica” del mondo cattolico e cristiano in genere. Esistono innumerevoli studi seri, accademici, scientifici, attendibili sul Giappone e sul così definito “secolo cristiano” e a richiesta potrei fornire una bibliografia minima…
Oltre a ciò, vorrei dire che non possiamo fondare una seria visione di una storia così complessa basandoci su un filmetto ridicolo o enunciando l’esito di fenomeni complessi senza indicarne la filogenesi che li ha prodotti. Con questo chiarisco la mia assoluta contrarietà a qualsiasi forma di missionariato cristianamente inteso, non mi piace e non ne condivido i postulati.
Riguardo @111, quando dici “amerai…”richiede una precisazione il termine stesso, qui ha una vibratilità sentimentale, quindi comunque afferibile alla aleatoria sfera egoica, con tutti i fenomeni che un piano del genere induce…Mentre “ama” da intendersi non differibile, quindi sempre nell’attimo che non prevede mediazioni altre (tariki, per intenderci), buddisticamente inteso, afferisce a quiddità scevra da contaminazioni egoiche.
Caro mym, pensare che non ricorra al teismo chi ha fondato tutta la propria teologia sul Signore Dio….
22 Febbraio 2018 alle 7:58 am
Caro Nello, questa volta -imho- sei fuori strada. Luciano è una vecchia volpe, citando quei fatti apparentemente parla di quelli, in realtà dice (più o meno): alle spalle del tuo racconto sul giapponesimo e di tutto ciò che accade nel mondo, spesso di negativo, a volte inspiegabilmente positivo, c’è sempre l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Riguardo all’ultima frase, forse non hai letto bene: dico che il senso profondo di quella frase (di ambito e origine teista: compare già in Deuteronomio 6,4) può essere vissuta (e quindi realizzata) senza ricorrere al teismo: secondo lo zz. Non so se Gesù avesse una concezione teista, è probabile, quello che però afferma in quella frase (e nella successiva, già in Levitico 19,18) è di una tale forza anti-idolatra da coincidere con lo zz.
22 Febbraio 2018 alle 8:00 am
Il punto è che cosa pensiamo che Dio sia: ovunque e comunque noi vediamo Dio (in questo caso potremmo dire ugualmente “Buddha”), possiamo essere certi che ci stiamo sbagliando: Dio non è tra le cose del mondo, né è una creatura della nostra immaginazione. Di fatto quindi “amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente” non significa altro che non posare il nostro cuore, la nostra speranza su nessuna delle cose e le persone di questo mondo, perché qualsiasi cosa o persona eleggiamo a nostro oggetto d’amore quello non sarà mai Dio. Sarà sempre e solo un idolo. Il senso del distacco. Che si completa con la frase successiva: un distacco che per essere reale deve partire da noi stessi, ossia dal non privilegiare me rispetto agli altri. Non fare di noi stessi un idolo. Le due frasi indicano la stessa “cosa”: lasciar andare, liberarsi di ogni immagine mentale del tipo soggetto-oggetto. L’espressione, la forma di comunicazione è teista, il significato profondo no. Perché il teismo (ovvero l’affermazione positiva dell’esistenza di un dio con delle caratteristiche piuttosto che altre) è necessariamente una forma di idolatria. Il fatto che Gesù, tra le migliaia di indicazioni vetero testamentarie, abbia scelto quelle due per riassumere il suo messaggio è quantomento interessante.
22 Febbraio 2018 alle 9:14 am
Sinceramente…quello che dice Luciano lo trovo troppo cristianamente connotato, quindi di parte, e per me di nessun interesse, con tutto il rispetto. Nè intendo produrmi in equilibrismi strani tra teistico o non teistico…pure poco interessante.
La mia attenzione è sul termine “amerai” come inteso in ambito cristiano, vale a dire dualista, e qui ci separiamo subito con i nostri amici.Un altro aspetto del termine “amerai” è l’accezione sentimentale non condivisibile in quanto la pienezza dell’amore in ambito buddista si realizza nella quiddità che include la trasfigurazione della sfera sentimentale, quindi la include e la supera.
Caro mym, tra marito e moglie cattolici, c’è sempre Dio, una presenza decisamente troppo ingombrante…e non ne escono, magari trovano un loro equilibrio…che non mi appartiene, auguri a loro.
Poi…le parole e i numeri, come dicesti qualche tempo fa, significano quello che significano.
22 Febbraio 2018 alle 9:22 am
Larga la foglia, stretta la via…
22 Febbraio 2018 alle 9:26 am
il politically correct può produrre più problemi della chiarezza diretta…
22 Febbraio 2018 alle 11:07 am
Ridiamo anche un pò…con la storia del monaco anziano che di fronte a due parti dello stesso verme che si muovevano, chiede: in quale parte si trova la natura-di-buddha? Hold no illusions.
Non è male, è una posizione, una prospettiva, un piano, così come l’anima, e siccome so che ti piace lo shinto, sappi che in quella tradizione, uno muore veramente solo dopo 33 anni che è morto…fino a quel tempo si trova in una dimensione liminale, non è completamente morto e non è vivo. Quando è il suo compleanno gli si apparecchia a tavola con i suoi piatti preferiti, gli si parla e a fine giornata lo si saluta e invita ad andarsene….poi, certo, c’è l’imperatore…che ha un pò la funzione del papa…a chi piace…può tenerselo
22 Febbraio 2018 alle 11:23 am
Rispondere alla prima domanda è semplice: la “natura di buddha” è un’invenzione cinese perciò… riguarda i loro giochi. Forse più difficile: se c’è un lombrico che si chiama, poniamo, Antonio e lo tagliamo in due, quale delle due parti è Antonio? Oppure ci sono, ora, due Antonio?
Quindi esiste, secondo te, una tradizione detta shinto ecc. ecc. seppure si sappia che il nome, di conio cinese!, è stato introdotto nel 1400… Raveri non te la farebbe passare liscia… 😀
22 Febbraio 2018 alle 11:32 pm
@119, esiste una tradizione assimilabile al denominatore shinto ed è poliforme, varia, e comunque precisata nella sua ritualità. Gode, lo shinto, dell’apprezzamento di uno dei fondatori degli studi antropologici, Claude Levi Strauss che ha detto: è l’unica religione che potrei praticare.
Un testo classico che precisa molti aspetti della pratica shinto è di Carmen Blacker “The Catalpa Bow. A Study of Shamanistic Practices in Japan”, London, George Allen and Unwin, 1975. Dalle nostre parti c’è il classico di Raveri, “Itinerari nel sacro, l’esperienza religiosa giapponese”, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, Cà Foscari, 1984.
Raveri è un antropologo e la sua ricerca sul campo è stata sulle “itako”, le sciamane cieche cui venivano affidate bambine cieche per essere addestrate a muoversi in un mondo invisibile ma pieno di vita….Itinerari nel sacro è un bel testo per introdursi con cognizione in quel mondo. Il saggio della Blacker è un classico ed è bellissimo. Lo shinto è vicino, affine, alla tradizione shugendo, sono forme cultuali ancestrali e lì si può vedere una possibile protoorigine di quanto è arrivato dopo…che si trova e precisa per esempio in opere come:
Alicia Matsunaga, ” The Buddhist Philosophy of Assimilation. The Historical Development of the Honji-Suijaku Theory”, Tokyo, Sophia University in Cooperation with Charles E. Tuttle Company, Rutland, Vermont & Tokyo, Japan, 1969.
Quindi, aldilà del conio terminologico, si concentrano nello shinto una serie di culti assolutamente interessanti sotto molteplici prospettive e ineludibili per comprendere più compiutamente il lungo percorso che l’umano ha attraversato per partecipare di una realtà molto più grande di quanto si possa immaginare e con la quale ha provato a connettersi e dialogare….
23 Febbraio 2018 alle 3:48 pm
Tutto giusto tutto vero, a parte che Raveri in Itinerari nel sacro (mannaggia non lo trovo più!) non parla solo delle sciamane cieche, ma mostra l’incredibile frammentarietà del fenomeno.
In questo caso usi il termine “tradizione” in modo minimale.
Non so quanto tempo Levi Straus abbia trascorso in Giappone, immerso, studiando il fenomeno. E, penso, se gli si fosse chiesto in che cosa consista la pratica dello shinto che così tanto lo affascinava, che sarebbe stato in difficoltà a definirla. Nessuno ha mai negato che il Giappone e le sue componenti siano affascinanti. I primi ad esserne affascinati sono i giapponesi. Prova a dirgli che hanno copiato “tutto” dai coreani e dai cinesi, poi vedi…
28 Febbraio 2018 alle 8:04 pm
Caro Yūshin vorrei lasciare anch’io un mio commento, confesso che non sono riuscito a leggere tutti i 121 precedenti per cui mi perdonerai se dirò cose che forse qualcuno ha già affrontato.
Il Buddha inizialmente sperimentò sicuramente prima di indicare la via di mezzo delle pratiche che potremmo definire alchemiche come il devayana -marga, o il vajarayana- marga. Ora c’è da chiedersi quali o cosa di quelle tecniche il Buddha salvò nel buddismo primitivo indiano? Lo stessa domanda va poi va ripetuta in Cina quando i monaci cinesi conobbero La tecnica conosciuta oggi come zazen l’hanno accolta nel loro casa ma prima di allora avevano delle loro pratiche e delle loro tecniche cosa ne hanno fatto? Come le hanno integrate? Le hanno abbandonate tutte o qualcuna di queste è stata salvata? Lo stesso vale per il Giappone. Io ritengo che alcune tecniche valide di purificazione Sidda, taoiste e shintoiste siano state assorbite dal buddismo indiano, poi da quello cinese e per ultimo da quello giapponese. Se “Zazen è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica che conduce alla pienezza del risveglio.” a mio avviso è anche grazie a queste tecniche di purificazione che garantivano un cuore aperto e senziente condizione fondamentale perché “stare seduti senza far nulla” non sia una semplice perdita di tempo.
Un po’ se mi permetti il paragone è come la comunione, che è il fulcro del cristianesimo, diventa sterile se non è preceduta da una preparazione con il sacramento della confessione che purifica e prepara il cuore di chi lo riceve.
seconda considerazione il tempo porta a trasformare queste conoscenze e così si sono un po’ perse o trasformate a tal punto che le tracce di cui disponiamo oggi sono una vaga idea di quello che furono un tempo. Se io oggi volessi apprendere il Devayana -marga, o il vajarayana- marga da chi devo andare? Chi è in grado di insegnarmelo? Direi nessuno come pure il Daoyin, lo Shin-Sen Do non hanno molto a che fare con l’attuale Do in, Qi Gong etc. ormai sono nomi a cui non corrispondono più i contenuti di un tempo la trasmissione si è persa. Tornando al cristianesimo chi è in grado di insegnare le pratiche trasmesse da Gesù o i riti dell’agape dei primi cristiani? Dice il Maestro Oki: oggi bisogna essere dei geni per potersi risvegliare praticando lo zen , ed io sono del suo stesso avviso, nel tempo si devono essere perse delle pratiche secondarie che mantenevano viva la pratica principale. Non mi farei tante menate se questo o quello è essenziale o e solo forma estetica giapponese quando “coloro che praticano possono capire da sé se ottengono o non ottengono l’illuminazione, proprio come coloro che usano l’acqua sono in grado da sé di capire se quell’acqua è calda oppure fredda”. La comprensione avviene nel momento in cui la voce è già entrata nelle orecchie e si realizza il samâdhi.” Oggi quanti possono dire di sentire quella voce dentro di sè? Pochi, come mai? Domandiamocelo, secondo me è questo che dovresti indagare ed evidenziare nei prossimi lavori: cosa veniva dato per scontato che oggi non lo è più e va dunque reso esplicito, per essere fedeli al messaggio universale del Buddha? Ci si preparava allo zazen con delle tecniche di purificazione del cuore? E cosa facevano? Io da quando ho integrato con delle tecniche che riprendono questo concetto mi sento di essere diventato più uomo della via. Questo è anche la sintesi del pensiero di Arnaud Desjardins se il cuore è ingombro di paure o di pensieri non puoi accedere “all’altra sponda”.
Tornando alla tua citazione di Maotsetung: non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi il topo.
Mi ricordo che padre Luciano ci spiegava come per il processo di inculturazione cattolico durante la messa per i giapponesi prevede dei sampai e nel recitare il Padre nostro si dice: “dacci oggi il nostro riso quotidiano”, questo per rendere il rito della messa più comprensibile ai giapponesi . La chiesa romana ha voluto giapponezzizzare il rito della santa messa , ora perché dovremmo farci problemi noi italiani ad inculturale il buddismo zen rendendolo più nostro? Concludo con un pensiero gastronomico.
La pizza è il nostro piatto nazionale più diffuso al mondo, è diventato patrimonio dell’umanità ora possiamo dire che la vera pizza è quella napoletana? Storicamente senz’altro ma praticamente la pizza romana sottilissima è ancora la pizza e quella americana deep? e quella egiziana? E il sapore di quella napoletana è identico o è cambiato nel tempo? La pizza è ormai patrimonio dell’umanità è di tutti e tutti possono interpretarla liberamente purché rimanga pizza. Un saluto a tutti Giuseppe
1 Marzo 2018 alle 8:26 am
Buongiorno Giuseppe, benvenuto.
Grazie per il tuo lungo ed articolato commento. Le prossime volte, per favore, dividi il commento in più parti, in più commenti, magari per argomenti. È difficile interloquire con tanti argomenti assieme. Inoltre, come hai verificato tu stesso che non hai letto i commenti precedenti, sul web si corre veloce (purtroppo, per fortuna…), di fronte a commenti troppo lunghi le persone si scoraggiano, non leggono. Una cosa mi ha colpito di quello che scrivi “Dice il Maestro Oki: oggi bisogna essere dei geni per potersi risvegliare praticando lo zen” non conosco il maestro Oki, tuttavia temo che questa volta abbia preso un granchio: chi pratica zazen è già risvegliato e non importa se sia un semplice o un genio.
1 Marzo 2018 alle 3:17 pm
O.T., ma nemmeno troppo. Caro mym, ho appena ricevuto le 2256 pagine del bellissimo lavoro di traduzione e commento del Prof. Paul. L. Swanson, “T’ien-T’ai Chih-I’s MO-HO CHIH-KUAN, Clear Serenity, Quiet Insight” tre volumi. Sono a p.125 e ne avrò per qualche mese. Dalla esperienza T’ien T’ai dipartono un pò tutte le successive (Ch’an, Pura Terra e in Giappone Nichiren, Shinran, Honen, Dogen….Lo hai visto? Ti incuriosisce?
1 Marzo 2018 alle 3:47 pm
Sì, m’incuriosisce… ma non abbastanza da sciropparmi 2256 pagine 😮
Una cosa mi sono chiesto quando ci misi il naso: è un caso che Dogen abbia usato gli stessi suoni dei caratteri del titolo del libro di Chih-i per dire “shikantaza”? O è perché voleva significare che il vero chih-kuan/shikan (samata vipassana) è lo zazen?
1 Marzo 2018 alle 3:54 pm
Due domande:
Quindi lo zazen è il nome giapponese per samatha-Vipassana?
Di conseguenza, samatha-vipassana sono due aspetti ( calma e osservazione) della stessa pratica (Zazen)?
Grazie mille in anticipo
1 Marzo 2018 alle 4:08 pm
Sì e no. I cinesi (vedi Dachengqixinlun) a volte usavano chih-kuan per indicare samata-vipassana (fermarsi nell’osservare in profondità) a volte per indicare la pratica seduta, in generale. Forse anche Chih-I li usa in quel doppio modo (ma ce lo dirà Nello fra tre mesi…). Quando Dogen scrive/dice shikan-ta-za usa la parola shikan che ha lo stesso suono della lettura giapponese di chih-kuan ma, in quel caso (visto che i caratteri che usa sono diversi) vuol dire “solamente”, “nient’altro che”. Se lo ha fatto pensando al titolo di Chih-I ha voluto dire “ma quale chih-kuan e chih-kuan, il vero chih-kuan è solo sedersi”. Ma forse è tutto nella mia fantasia.