* ESSERE E VACUITA’
Mauricio Yūshin Marassi è una delle persone a cui si dovrà maggiore gratitudine per l’impresa di offrire cittadinanza al pensiero buddhista nel contesto della comunicazione culturale occidentale. Il suo saggio appena uscito per le Edizioni Marietti, Il Buddhismo Mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture, un testo che chiunque sia interessato ad accostarsi al Buddhismo dovrebbe leggere, così come chi ne abbia già fatto esperienza non mancherà di trovare alimento alla propria consapevolezza. Poiché l’autore è dotato della capacità di scrivere con maestria, le sue pagine sanno suscitare l’incanto che è tipico della spiritualità buddhista: incanto che naturalmente scaturisce dall’impegno e dalla dedizione di una vita. Ma soprattutto il libro è finalizzato a un compito fondamentale di mediazione culturale.
Quest’opera … è un tentativo di costruire cultura buddista che parli la lingua dell’Occidente, nel momento in cui si stanno mostrando segni in base ai quali è ragionevole supporre che l’Europa e l’America siano il palcoscenico sul quale apparirà un nuovo capitolo di quel cammino, anticamente migrato dall’India sempre più a est, sino all’oceano Pacifico, limite naturale dell’Oriente. (p.12)
Detto ciò, il fatto che egli mi chiami a un confronto costituisce per me motivo di grande onore, e cercherò di fornire a mia volta un contributo a quello stesso compito.
Aver collocato nel precedente numero della rivista una serie di testi, tra cui quello di Yūshin, in una sezione intitolata L’avere e l’essere è indubbiamente significativo di una scelta culturale, che in questo numero[1] può essere apprezzata nel suo significato proprio.
Il riferimento a Fromm è il riferimento a un clima storico, quello degli anni Sessanta e Settanta, in cui molti eventi si congiunsero e in particolare si congiunse l’aspirazione alla giustizia nell’organizzazione della realtà sociale e quella di una ricerca più profonda del senso della vita. E’ il clima in cui l’amore per l’Oriente, e per il Buddhismo in particolare, oltrepassò le ristrette cerchie intellettuali in cui si trovava fino allora confinato. Ebbene, quel clima trovò indubbiamente nell’opera di Fromm una sintesi forse insuperata.
Il fatto che tale sintesi fosse sotto molti aspetti affrettata appare oggi con una certa chiarezza e fa bene Yūshin a mostrarlo senza indulgenza. In particolare ha ragione su un punto: non regge l’accostamento tra un’idea di liberazione sociale, quale è espressa dal marxismo, e l’idea di liberazione spirituale che si trova, non solo nel Buddhismo, ma in ogni religione. Aver confuso i due piani costituisce un aspetto tipico di quegli anni, che in questo senso non uscivano dalle suggestioni tragiche della prima metà del Novecento, e può essere che tale confusione non sia tutt’oggi interamente dissolta.
Nondimeno l’esperienza religiosa non può essere indifferente alla giustizia sociale. Quantomeno non può esserlo dal punto di vista di quella rinuncia all’ego che ogni religione in qualche modo richiede. L’impulso a operare per il beneficio comune non può essere l’unica testimonianza di una vita spirituale, ma certo ne è un aspetto imprescindibile. In questa prospettiva invocherei uno sguardo più compassionevole su Fromm, nonostante le sue insufficienze concettuali.
Insufficienze che, peraltro, risultano evidenti perché egli volle, con Avere ed essere, fornire una sorta di manifesto alla cultura del suo tempo, traducendo in quel testo, con uno sforzo per cui non disponeva di categorie adeguate, un’intuizione che aveva espresso con più lucidità in opere precedenti. Mi riferisco in particolare a un libro, conosciuto in Italia col titolo improprio di Psicanalisi dell’amore, ma il cui titolo in lingua originaria era The Heart of Man: its Genius for Good and Evil. Mi sia consentito dunque indugiare un attimo su quel testo, ricordando anche la profonda impressione che ne ricavai giovanissimo.
Diciamo dunque che Fromm, come chiunque altro, muoveva dal contesto culturale che gli era dato e in questo si esprimeva. Tale contesto era costituito per lui essenzialmente dalla psicanalisi freudiana, con tutto ciò che essa comportava. Egli ebbe dunque parte in quell’ampio movimento che mirò a fare della psicanalisi, al di là delle sue implicazioni strettamente terapeutiche, una chiave di lettura sociale e culturale. Ma mentre altri si soffermavano su questioni di più diretto impatto politico, come Reich e lo stesso Marcuse, in particolare sulla sessualità come istanza rivoluzionaria rispetto all’ordine sociale, Fromm, sulla scia di Norman Brown, fu attratto dall’aspetto più discusso della teoria di Freud, facilmente connotabile come una cattiva metafisica che sopraggiunge a spiegare l’abisso insondabile del male e della distruttività umana: il dualismo psichico di Eros e Thanatos, istinto di vita e istinto di morte.
L’idea freudiana, come noto, è che alla radice degli atteggiamenti distruttivi sia una pulsione primordiale che mira non solo alla conservazione dell’individuo ma a una sorta di regressione alla materia inanimata. Ebbene, Fromm ha l’intuizione che il senso della contrapposizione di Eros e Thanatos sia di tipo eminentemente morale.
Io suggerisco di sviluppare la teoria di Freud nella seguente direzione: la contrapposizione tra Eros e la distruzione, tra l’inclinazione alla vita e quella alla morte è, invero, la contraddizione fondamentale dell’uomo. ( … ) Su questo piano l’’istinto di morte’ è un fenomeno maligno che cresce e prospera sino al punto in cui non si esplica Eros. L’istinto di morte rappresenta la psicopatologia, e non, come era opinione di Freud, una parte della normale biologia. L’istinto di vita pertanto costituisce la potenzialità primaria dell’uomo; l’istinto di morte una potenzialità secondaria. La potenzialità primaria si sviluppa se sono presenti le condizioni adatte alla vita, proprio come un seme cresce soltanto se sussistono le giuste condizioni di temperatura, umidità, ecc. Se queste non sono presenti, insorgeranno le tendenze necrofile e prenderanno il sopravvento. (op. cit., Roma 1971, p. 66)
E’ evidente che questo tipo di visione comportava conseguenze sul piano educativo e su quello socio-politico. Tenendo conto di altre strutture concettuali importanti nella cultura psicanalitica, come il narcisismo e i legami incestuosi, Fromm giunge a pensare la condizione umana come una costante contraddizione, in ultima istanza tra l’appartenenza dell’uomo al mondo naturale e il suo trascenderlo attraverso la libertà della coscienza. Dove le soluzioni possibili a tale contraddizione sono di due tipi: regressive, cioè volte a negare la contraddizione ripristinando uno stato preumano, oppure progressive, in cui si cerca di elaborare nuovi equilibri.
Ebbene, è interessante osservare come questo schema designi due opposti rapporti all’essere. Da un lato un atteggiamento appropriativo, che produce realtà separate, nel tentativo di tenerle sotto controllo, oppure indistinte, in cui cercare rassicurazione. Dall’altro la capacità di mettersi in relazione, e di trovare nella relazione il fondamento del proprio essere. Verrebbe da dire che da una parte abbiamo identità separate prodotte dall’attaccamento, dall’altra l’accettazione dell’interdipendenza.
Veniamo così al problema dell’essere. Nell’affermare come impropria l’identificazione dell’essere quale alternativa all’avere, Yūshin Marassi ha indubbiamente ragione a scorgere in ciò un’espressione di quel pensiero dualista che caratterizza l’Occidente, salvo però, a mio giudizio, rischiare di caderne vittima attribuendo all’essere caratteri che necessariamente lo contrappongono al non essere.
Diciamolo meglio. Il problema è che, inavvertitamente, siamo indotti a pensare l’essere in termini sostanzialistici; e non forse, mi permetto di osservare, perché questa sia la concezione originaria della cultura occidentale, ma semplicemente perché ormai da tempo ci troviamo a vivere in una civiltà materialistica. Se tale civiltà abbia le sue radici nella visione dell’essere che predomina nella metafisica greca, come ritiene Heidegger, è una questione che lascerei aperta, invitando però a molta cautele in merito. Quel che è certo è che nel mondo moderno, anche per effetto di cambiamenti socio-culturali imponenti, l’essere è inteso, non solo come presenza, ma anche proprio come dato materiale.
Poiché dunque da tale situazione il sentimento religioso è profondamente posto in difficoltà, il fatto che la dialettica e la meditazione buddhista dissolvano quella visione è di indiscutibile importanza e può davvero riaprire una via spirituale per molti a cui, in questo orizzonte culturale, sarebbe irrimediabilmente preclusa. Non bisogna però trascurare il persistere, pur in tale orizzonte, di legami profondi con la tradizione spirituale che è tipica dell’Occidente, in particolare quindi con il Cristianesimo. Per quanti ancora percepiscono quei legami, il riferimento all’essere ha dunque ben altro significato da quello che si potrebbe pensare, e l’ignorare questa condizione potrebbe ottenere un effetto del tutto opposto a quanto si vorrebbe: cioè avvalorare l’idea che il Buddhismo sia una forma di nichilismo, mentre invece ne è l’antidoto più efficace.
Data l’entità di questo pericolo, mi sento dunque di affermare che l’insegnamento buddhista in Occidente dovrebbe recuperare un senso dell’essere che è contenuto nella tradizione occidentale, ridefinendolo in termini che possono venire pienamente accolti, cioè come Interdipendenza. Poiché il male che mina l’Occidente è il nichilismo, è particolarmente importante che la Vacuità sia concepita e presentata come Interdipendenza.
Pensare l’essere come interdipendenza vuol dire porre una base per l’incontro delle diverse culture religiose, e anche con chi religioso non si ritiene semplicemente perché non ha trovato una via d’accesso culturalmente accettabile.
Ci siamo forse allontanati troppo da Fromm? La mia impressione è che egli abbia cercato di formulare ciò che oggi forse possiamo dire meglio.
Vogliamo provarci insieme?
(L’autore è il direttore della rivista INTERDIPENDENZA)
[1] Il riferimento è al numero 3 di INTERDIPENDENZA, appena edito.
One Response to “Essere e vacuità”
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Maggio 13th, 2006 at 7:41 pm
Grazie.
Sì, potevo essere un poco meno irruente… più amorevole nei confronti del vecchio Fromm.
Su un altro piano si può dire che “interdipendenza” intesa come pratītyasamutpāda ha come fondamento il vuoto/śūnya, né essere né non essere, per cui essenzialmente diciamo la stessa cosa: la differenza parrebbe tattica, come si diceva una volta. Un aspetto interessante nella risposta è l’invito a ripensare al ’68 (numero che è sineddoche) in termini attuali: con occhi che -in parte grazie al ’68- hanno “visto” anche il buddismo.
Ringrazio il direttore Torrero per le parole di apprezzamento che ha scritto a proposito del libro sul Buddismo Mahāyāna. Parole che pubblico per completezza, essendo parte integrante del suo articolo.