di Carlo Di Folca
Per gentile concessione dell’autore, riportiamo integralmente l’articolo già pubblicato sul numero 21 di Dharma dedicato al libro “La via maestra” di Mauricio.Y.Marassi.
Ci sono libri che s’insinuano dolcemente nelle biblioteche, che non s’impongono promettendo scoperte epocali e sembrano indirizzarsi solo ai cultori di una materia, eppure sono libri preziosi che, silenziosamente, quasi con pudore, reclamano tutta l’attenzione possibile e schiudono nuovi orizzonti. La via maestra di Mauricio Y. Marassi è, a mio parere, uno di questi.
Carlo Di Folca, praticante cristiano.buddhista è da tempo interessato allo studio del Dharma in relazione alla spiritualità occidentale. Vive e Roma.
Conoscitore dello zen ma, soprattutto, appassionato di zazen, l’autore, mentre cerca d’investigare, con sobrietà scientifica, i “meccanismi tradizionali di trasmissione” di una religione, al fine di identificare il messaggio di base di un buddhismo spogliato dalle forme culturali delle quali è stato rivestito nei secoli, finisce col parlare di se stesso e della propria dedizione a quello zen che viene tradito tutte le volte che diviene qualcosa di più di una inesausta e sempre rinnovata attenzione alla vita così com’è. In questo senso il titolo del libro condensa il significato dell’opera di Marassi, perché scegliere “la via maestra”, la via per l’affrancamento dal dolore, significa scegliere tout court la via, ossia eleggere la vita stessa come maestra, rinunciando a tutte le motivazioni che vadano oltre il semplice imparare ad accogliere quello che c’è, momento per momento.
Ma, proprio in quel raccontare di sé, l’autore mette a nudo il problema fondamentale che corrode il cuore di ogni religione, e che ha a che vedere, appunto, con il meccanismo attraverso il quale essa viene trasmessa. Sollecitato dalla passione per uno zen che si è sempre proposto come una “non posizione”, un “non modo”, Marassi s’imbatte nel modo eminente di inquinamento di ogni autentica via spirituale – anche se non lo nomina mai e non ne coglie tutta la portata e la pervasività -, ossia nell’orgoglio. In altri termini, il tema della ricerca del nucleo centrale del buddhismo, trasmesso di generazione in generazione, si trasforma immediatamente nella denuncia della più profonda e radicale profanazione del messaggio buddhista, ossia la trasfigurazione a modello di perfezione, a maestro, della figura del kalyanamitra, quell’”amico spirituale” additato dal Buddha quale sostegno essenziale alla pratica e che l’autore, liberamente ma appropriatamente, traduce con “amichevole guida”.
Il rapporto fra giovane e anziano è un nodo ineludibile del buddhismo perché, non essendo questa una religione del libro, tutto il processo di trasmissione della via poggia sulla testimonianza delle generazioni precedenti. Ma se è indispensabile la sequela, esiziale è l’innalzare l’”amichevole guida” a maestro, nei molteplici modi in cui ciò può accadere e che Marassi descrive concentrandosi sui fenomeni più evidenti avvenuti nella diffusione dello zen in Occidente. La guida spirituale non è l’incarnazione di un modello di perfezione, una persona da emulare in quanto ha conseguita una qualche compiutezza esistenziale, ma chiunque sia in grado di testimoniare – quale che sia il suo carattere, la sua intelligenza o la sua creatività – l’unica cosa che veramente conta: il dimorare nel presente quale via per l’affrancamento dal dolore. Insomma, non si tratta di trasformarsi, di divenire più intelligenti, più saggi, più creativi ecc., ma solo imparare ad accettare ed accogliere quello che siamo e ciò che è. Non c’è neppure alcuna illuminazione da conseguire e nessun illuminato da “copiare o imitare”, perché il vero maestro è lo zazen:
“chi non pone lo zazen al centro della propria vita non ha maestro, qualsiasi relazione abbia stabilito e qualunque idea abbia a proposito di sé e di tale relazione” (p. 95).
In questo modo “la via maestra”, con un capovolgimento di prospettiva solo apparente, si rivela essere la “via del discepolo” (p. 125), la via che insegna a divenire pienamente, integralmente ed eternamente discepoli. Segue veramente la via, dunque, solo chi abbia imparato a vivere da discepolo, e “può insegnare solo chi vive da discepolo, conosce il senso di apprendere e da ‘quale’ maestro possa avvenire l’apprendimento. E’ un maestro molto diffuso: si può celare ovunque, in un sasso, in un suono, in un animale, nel nostro maestro, in noi stessi. L’unico modo di scovarlo è con l’atteggiamento da ‘discepolo’, o di ascolto profondo, nei confronti di tutta la realtà; quel modo è ‘… ritrarre la mente’ e in quello spazio libero accogliere con gratitudine il manifestarsi dell’insegnamento, sia esso la voce di un uomo, il volo di una mosca o il sorgere e tramontare dei nostri desideri” (p. 139).
E’ allora evidente che il ritenere che il messaggio buddhista possa incarnarsi in un modello definitivo di realizzazione, in un maestro comunque inteso, è la perfetta antitesi della pratica autentica, perché questa si definisce esclusivamente come la coltivazione assidua della capacità di accogliere tutto ciò che il presente porta con sé, in noi e nella vita. Questa è l’essenza dello zazen, come di qualsiasi tecnica o attitudine meditativa che si ispiri al buddhismo.
Ne consegue, tuttavia, che la profanazione denunciata da Marassi non è un mero incidente di percorso, compiuto in quell’Occidente che non ha saputo, o voluto, cogliere lo spirito autentico che aleggia nei monasteri zen giapponesi. Se è pur vero che nessun autentico insegnante zen si pone come maestro ma, semplicemente, come guida che sa di essere comunque discepolo (Marassi ricorda di essere andato con due confratelli italiani a visitare Uchiyama Kōshō e che questi, al momento del commiato, verso di loro “si era inginocchiato sulle tavole della veranda chinando la fronte sino a toccare il pavimento” – p. 62); se è vero nulla nella tradizione zen invita alla costruzione “di quello strano essere, del tutto anacronistico e privo di effettiva realtà, che in Occidente è noto come ‘maestro zen’” (p. 71), è altrettanto vero che le attitudini complementari di nobilitare un altro essere umano a modello di perfezione e di porsi in un ruolo di potere non sono segnali di una “patologia” (p. 76), piuttosto costituiscono l’essenza del problema esistenziale fondamentale dell’uomo: l’orgoglio, ossia il sentirsi inadeguati, dipendenti, transeunti e deboli e porsi alla sequela di un modello di perfezione, imitandolo e desiderando di ottenere quello che lui stesso desidera ed ha, al fine di divenire in questo modo, a propria volta, adeguati, autonomi, imperituri, potenti.Ci sono passi in cui Marassi si avvicina alla comprensione della pervasività del meccanismo mimetico che governa l’esistenza umana (e che descrive in modo mirabile alle pp. 74ss.), come quando suppone che “buona parte della pubblicità televisiva sia impostata sfruttando lo stesso meccanismo: lui è così bello (felice, ricco, al centro dell’attenzione, invidiato ecc.) perché ha il prodotto XXX: se lo compro raggiungerò gli stessi risultati…” (n. 10, p. 84). Non coglie, tuttavia, che quanto da lui acutamente diagnosticato non rappresenta un fenomeno circoscritto nel tempo e nello spazio, ma il nocciolo stesso dell’insegnamento del Buddha che, proprio con il concetto di mana, di orgoglio, denunciò il più potente fattore di sofferenza, quel confronto che ci fa giudicare inferiori, superiori o uguali (sempre in un contesto di confronto) ad un qualsiasi altro essere umano [1].
Insomma, il meccanismo che crea i modelli della pubblicità, come pure le divinità dello spettacolo, dello sport, del management e così via, è il medesimo che presiede alla trasfigurazione della “amichevole guida” in maestro, è manifestazione dell’orgoglioso anelito umano a emulare qualcuno per fermare la vita in una assoluta perfezione. La ragione per cui esso diviene più evidente nell’Occidente contemporaneo non consiste in una qualche peculiare “patologia”, ma fa riferimento a tutta una serie di fattori fra i quali spicca il processo di individualizzazione che ha caratterizzato la modernità. In sintesi, nelle culture tradizionali la ricerca orgogliosa della perfezione è tutta giocata al livello sociale, si configura in quella petizione assoluta di ordine (che Marassi investiga quando analizza il contributo confuciano nella genesi della forma cinese, del buddhismo) che viene gestita essenzialmente sul piano rituale e collettivo. La crisi del sacro tradizionale, tipica dell’Occidente, ha invece trasferito nel soggetto l’istanza della ricerca della perfezione, prefigurando non più l’ideale di una società definitivamente affrancata dal pericolo del disordine e dell’insicurezza, ma quello di un individuo autonomo ed autosufficiente che poi, in quanto realizzato ed appagato, garantirebbe, come la mitica legge del mercato di Adam Smith in campo economico, l’armonia sociale. In questo modo l’orgoglio diviene una malattia epidemica, contagia democraticamente ogni soggetto ormai votato alla tragica scelta fra la realizzazione definitiva di sé e l’insignificanza.
E’ allora comprensibile che un siffatto essere umano, angosciato e solo, divenga sensibile al messaggio buddhista di liberazione, nel bene come nel male. Annunciato dal Buddha come via che ciascuno può percorrere, imperniato nella coltivazione della meditazione solitaria, trasmesso sempre in un rapporto personale da insegnante a discepolo e incontratosi con l’Occidente individualista, inevitabilmente il buddhismo produce il Maestro, variazione occidentale e moderna di un problema universale.
E’, dunque, quanto mai un imperativo l’auspicio dello stesso Marassi, di “dar corpo, ora qui in Occidente, a una seria cultura analitica del buddismo” (p. 72), ma non solo e non tanto per integrare il suo autentico messaggio di base nella nostra cultura, quanto per mostrarne aspetti fin’ora poco investigati e che divengono particolarmente visibili solo ora, nella modernità individualizzata ed orgogliosa.
A tutti s’indirizza il messaggio del Buddha, ma perché tutti siamo orgogliosi. L’arte di imparare a dimorare nel presente è la via per l’affrancamento dal dolore proprio perché è l’antidoto al giudicare la vita in base ad un parametro di perfezione realizzando il quale in realtà essa si mummificherebbe. L’arte di conservarsi per sempre discepoli è la via per l’affrancamento dal dolore proprio perché è l’antidoto al prostrarsi di fronte ad un idolo ritenuto potente ed assoluto al solo fine di emularlo, attingendo alla medesima potenza ed assolutezza. Le due arti sono una unica e medesima arte, perché è solo dalla rinuncia a voler incarnare un modello di perfezione che si può cominciare ad apprezzare la vita così com’è, mentre è solo se si comincia a gustare la vita proprio come essa è che può indebolirsi il fascino esercitato dalle figure ritenute potenti e sacralizzate. E l’ostacolo all’apprendimento delle due arti è il medesimo, il giudicare la vita in base ad un modello di adeguatezza e di realizzazione necessariamente veicolato da qualcuno ritenuto incarnarlo e, quindi, innalzato a divinità o a maestro – che avvenga in modo esplicito, oppure che venga dissimulato sotto un’apparenza di autonomia.L’orgoglio vive di confronti, e sceglie sempre il modello più forte e più credibile. Il rischio dell’impostazione di Marassi, dunque, sta proprio in questo, che sottilmente, anche senza la complicità dell’autore, dallo smascheramento incompleto dell’orgoglio sorga un nuovo modello di perfezione, orgoglioso al quadrato, per così dire, perché sorto proprio dalla demistificazione della figura del maestro: il modello del discepolo. L’orgoglio è sottile e perverso, s’annida ovunque e capovolge tutto quello che tocca, trasforma in idolo tutto ciò che si presenti con caratteristiche salvifiche. Mosso sempre da un unico programma: celare se stesso, magari dietro parole d’ordine religiose, per perseguire lo scopo di realizzare quell’autonomia ed autosufficienza esistenziale che intanto simula negando di inginocchiarsi di fronte ai propri modelli.
Così, la convinzione di Marassi che dalla denuncia del meccanismo che inventa i maestri discenda che “l’autonomia è l’obiettivo” (p. 95), è musica alle orecchie dell’orgoglioso. La citazione scritturale cui fa ricorso, il “procedere solitario come un rinoceronte” del Suttanipata, si riferisce in realtà alla pratica e non al risultato. La malattia è la sete di autonomia, proprio perché l’orgoglioso si sente vergognosamente dipendente; ne consegue che la salute è la consapevolezza della propria integrale dipendenza, in tutto e per tutto, dalle cose, dalle persone, dai nostri modelli; la terapia è il cogliere in flagrante l’infernale processo mentale che genera i giudizi e la loro fonte ultima, i nostri venerati maestri. Certo, il luogo di questa terapia è la solitudine della mente, laddove si costruiscono i perversi e assordanti legami di potere e dove può invece rivelarsi la nostra essenziale e silenziosa interdipendenza con tutto ciò che esiste, ma solo perché è la nostra mente il campo di battaglia in cui neghiamo sistematicamente ciò che siamo. L’umiltà, che è il contrario dell’orgoglio, e la saggezza, il contrario dell’illusione dell’autonomia esistenziale, non si possono acquisire, ma sorgono spontaneamente e misteriosamente dalla consapevolezza dell’orgoglio.
Per questo bisogna maneggiare l’orgoglio con molta cura, con grande delicatezza, perché ogni veemenza farà inevitabilmente assurgere il denunciante a nuovo modello, tanto più venerato quanto più mostri di cumulare le caratteristiche che l’orgoglioso vuole paradossalmente far convivere: un modello che prometta la liberazione dalla sofferenza proprio denunciando la dolorosità dell’inseguire un modello di perfezione, un modello che liberi definitivamente dallo scandalo sempre reiterato e sempre negato di avere dei modelli. L’incarnazione più pura e più subdola del modello di perfezione: il maestro senza maestro.
Elemento indispensabile di questa delicatezza è la comprensione della universalità dell’orgoglio: nessuno ne è affrancato, è la condizione umana, ambiziosa perché fragile e insicura. Siamo tutti sballottati dai medesimi marosi nella stessa fragile barca e, quindi, siamo tutti degni di compassione. E’ la compassione il nemico più potente dell’orgoglio – si sa che l’orgoglioso più di tutto aborrisce di essere compatito -; ma questo vuol dire che l’orgoglio non è il nemico, che non deve essere denunciato e sconfitto, ma svelato, scoperto, compreso. Allora sentiremo tutta la sua dolorosità e illusorietà; allora capiremo di aver sempre camminato con i piedi per aria, aggrappati a qualcuno che ci sembrava solido e stabile e che, invece, era aggrappato a qualcun altro, e così via, all’infinito; e allora…
La via del discepolo non può essere né pianificata, né costruita, né, tanto meno, proposta. E’ l’unica via, eppure non è una via, non porta da nessuna parte, perché s’esaurisce nel confrontarci, giorno dopo giorno, con l’impervia e faticosa via dei Maestri.
[1] Cfr. Carlo Di Folca, Il desiderio interdipendente, in “Dharma” n. 20.
Carlo Di Folca
7 Responses to “Alla scoperta della via maestra”
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Gennaio 27th, 2014 at 8:38 pm
E’ abbastanza disarmante questo articolo. Comunque lo rigiri ‘scotta’ tra le mani…
L’ universalità dell’orgoglio mi fa molto riflettere e mi fa un po’ impallidire..
La presunzione di poter seguire la via del discepolo appare nella sua ‘realtà’, ma nel contempo,mi rendo conto che, come si dice nell’ultimo capoverso, non c’è altra via.. e allora, che fare?!
Caspita, comunque si guardi la cosa, non c’è altro verso che.. guardarla e basta..
Mi viene un po’ da sorridere ( per non piangere ), pensando a quante volte si parla ( ho parlato anche ) del ‘problema dell’ io’ e di come fare per….
se considero tutto ciò dal punto di vista dell’orgoglio, c’è proprio da compatirsi..
Vabbè, per fortuna che il conto delle stupidaggini commesse è ormai perduto…
Gennaio 27th, 2014 at 8:47 pm
Ciao Marta, è un piacere che qualcuno fruisca di queste pubblicazioni: a volte sembra di lavorare … nel deserto.
Nel sutra di Vimalakirti (cito a orecchio) si dice che “la via del buddha è la via dell’errore, dell’orgoglio e delle passioni”: senza farsi prendere dalla gabbia mentale non c’è liberazione. Certo che occorre accorgersene e… provvedere.
Il dialogo con Di Folca ha avuto un seguito…
Febbraio 15th, 2017 at 12:00 am
Il Prof. Di Folca, definisce “orgoglio”, quanto nella tradizione è sempre stato definito “ego”.
I meccanismi archetipici che finemente descrive, sono sempre stati chiarissimi e riconosciuti entro il sangha anche da chi non ha trovato la risoluzione della causa dei meccanismi stessi, quindi, come rispondeva Yushin in un intervento sullo stesso tema…”larga la foglia…”
Precisate le dinamiche egoiche (che preferisco a orgoglio), restano le possibili e potenziali soluzioni sempre in itinere…come la vita, il tempo, il Prof. espone la sua posizione rispetto al problema, condivisibile, altri possono usare altri upaya…
Resta un punto, lo scrivere, l’argomentare qualificatamente, l’avere chiare le dinamiche egoiche, non ci esime dall’essere, qui ora, proprio ciò che siamo, ed ognuno non può che dare una forma sua propria a ciò che è…
Febbraio 15th, 2017 at 12:05 am
In sostanza, l’ego, è a mio avviso, molto, molto più complesso dell’orgoglio.
Febbraio 15th, 2017 at 6:38 pm
Ciao Nello.
Il punto è che l’ego, l’io o come lo vuoi chiamare, non esiste come “oggetto” definito. Ciò che nel buddismo Yogacara (Vasubadhu in particolare se ne occupa) viene detto atman, jiva, jantu, manuja, manava ecc. sono tutti i pensieri riferiti al soggetto, ovvero all’afferratore come lo chiama Vasubandhu. Non solo quelli negativi, come l’orgoglio, ma anche i pensieri di generosità o di equanimità ecc. Siccome quei pensieri sono potenzialmente infiniti i contorni di quello che ingenuamente chiamiamo “ego” come fosse un’entità sono inesistenti. L’idea che esista un’entità dai contorni definiti detta “io” è una semplificazione del pensiero occidentale.
Febbraio 15th, 2017 at 10:04 pm
@5, sono d’accordissimo. Secondo la mia limitata gestione dell’argomento, il termine “ego”, lo trovo più rispondente, con tutte le potenziali travisazioni connesse, alla sua inafferrabilità e insostanzialità. Lo trovo meno problematico, quindi meno fuorviante, di “orgoglio”. Grazie per la tua lineare chiarezza.
Febbraio 16th, 2017 at 7:55 am
Prego.
In Italì quando due sono d’accordissimo… c’è subito chi pensa all’inciucio 😉