Per semplificare la lettura de
ovvero
Il testo costituisce la versione scritta del discorso tenuto a la Gendronnière, il 9 giugno 2007, in occasione del symposium internazionale sul tema L’universalità del buddismo. Il symposium è stato organizzato per celebrare il quarantesimo anno della presenza ufficiale del Sōtō Zen in Europa e per commemorare la figura del rev. Deshimaru Taisen che, giunto in Francia nel 1967, decise di dedicarsi all’insegnamento ed alla diffusione dello Zen Sōtō, un progetto che ebbe quasi subito uno straordinario successo.
Ecco il motivo per il quale l’inizio della presenza del Sōtō Zen in Europa viene fatto coincidere con l’arrivo dal Giappone di Deshimaru. In realtà, il riconoscimento di Deshimaru da parte del Sōtō Zen avvenne 7 anni più tardi, nel 1974, dopo il rifiuto da parte dell’allora abate di Antaiji di accogliere la richiesta di regolarizzare la sua “posizione”, all’interno del clero del Sōtō Zen, con il conferimento dei riconoscimenti necessari ad ordinare monaci. Un rifiuto motivato dall’indisponibilità di Deshimaru a trascorrere un congruo soggiorno ad Antaiji affinché tale “regolarizzazione” fosse di carattere sostanziale prima che formale.
Fu nel 1974 che il rev. Yamada Reirin, abate di Eiheiji, accettò di regolarizzare la posizione ufficiale di Deshimaru permettendogli così di conferire ordinazioni e contemporaneamente sponsorizzando la sua candidatura a kaikyōsokan (oggi detto kokusai huikyōsokan), direttore -per l’Europa- del Sōtō Zen. Carica che, dalla scomparsa di Deshimaru (1982), è rimasta vacante sino al 2002, quando il rev. Harada Sekkei si insediò a Milano come nuovo direttore dell’Ufficio Europeo del Sōtō Zen. Dal novembre del 2006 l’Ufficio Europeo ha sede a Parigi ed è attualmente diretto dal rev. Imamura Genshū.
Questo l’antefatto del contesto in cui il discorso è stato pronunciato, un antefatto significativo perché nelle intenzioni di Deshimaru la Gendronnière, dove si è svolto il symposium, era destinata ad essere il centro di pratica e diffusione dello zen in Europa.
Inoltre, ed è ancora più importante, occorre tener conto che l’intensificarsi dei rapporti tra le strutture giapponesi del Sōtō Zen e l’AZI [Association Zen International, fondata da Deshimaru nel 1970] può condurre ad una consensuale “giapponesizzazione” del buddismo zen europeo traghettando forme ecclesiali (liturgiche, cultuali) giapponesi (spesso a loro volta di origine cinese) in un tessuto culturale dove sono evidentemente del tutto estranee. Questa operazione è favorita dal fatto che, negli anni, alcune di quelle forme, in particolare quelle liturgiche, hanno subìto nell’immaginario europeo un processo di universalizzazione e sacralizzazione, fino ad essere, non di rado, identificate come “la forma dello zen”, e perciò da preservare e perpetuare in ogni contesto storico, culturale, antropologico, geografico.
Da parte loro i membri del clero giapponese, salvo rare eccezioni, hanno favorito o quantomeno non contrastato questo processo per una serie di motivi che non è qui possibile analizzare in dettaglio, ma a cui non è certo estranea la preoccupazione di preservare e potenziare la propria istituzione e il proprio status anche fuori dai confini domestici. In non pochi casi si nota poi una sorta di complesso da parte dei praticanti europei, come se il semplice fatto di essere giapponesi – e di padroneggiare quindi linguaggio e forma cerimoniale che in Giappone si sono sviluppati all’interno della chiesa Sōtō zen – costituisse di per sé motivo di elevata considerazione. L’effetto combinato di queste due circostanze a mio parere rischia di creare un clima prossimo al colonialismo etno-religioso.
Secondo una visuale religiosa questa tendenza è errata sia come metodo che come sostanza. Considerando anche che, come è noto -ed è stato puntualmente ricordato dal rev. Yokoyama Taiken nella sua relazione alla Gendronnière- nella maggior parte dei casi, gli appartenenti al clero giapponese vestono l’abito non per un’originale vocazione religiosa ma in virtù dell’essere a loro volta figli di appartenenti al clero e quindi scelti dalla famiglia come eredi della –non di rado redditizia- attività del tempio. Attività che si riduce nella maggioranza dei casi all’amministrazione di funzioni liturgiche legate alla commemorazione dei defunti e che comunque può essere gestita solo in grazia di una buona conoscenza del cerimoniale.
Così, sapendo e paventando quanto ora esposto, ho voluto redigere una conferenza che contribuisca a indicare una possibile strada alternativa, una sorta di progetto programmatico per sfilare delicatamente il buddismo di scuola zen dalle forme sino-giapponesi e permettergli di rinascere con fattezze occidentali, fresco e nuovo, lontano da pesanti eredità legate a interessi di natura materiale, nazionale, etnico culturale… Non solo perché questa è per “lui” una nuova cultura ma perché così è ciascun uomo: diverso, non omologato. Lasciando aperta la possibilità affinché lo zen si possa incanalare nel solco di una cultura, la nostra, che ha fatto della distinzione tra persona e persona, del concetto stesso di persona il suo passo normale.
Da tutt’altro altro punto di vista questa conferenza è l’inizio di una serie di considerazioni -che spero di continuare in futuro- a proposito dell’oramai famoso “Discorso di Ratisbona” di Benedetto XVI. Mi riferisco in particolare a quanto da lui detto a proposito dell’inculturazione del cristianesimo e del dialogo con le altre religioni: penso che nella mia conferenza cominci ad apparire qualche cosa che profondamente distingue il buddismo zen dal cristianesimo delineato dall’attuale Papa. Mentre il cristianesimo, a suo dire, non può prescindere dalla cultura greca che ha contribuito a costituirlo, il buddismo di cui parlo è invece libero anche dalla inculturazione indiana, ovvero dal suo terreno costitutivo originale, e può rinascere ex novo all’interno di una cultura matura senza nulla perdere della sua essenza. E sono lieto di poter ricordare che questa visuale fu egregiamente rappresentata anche da un grande cristiano del secolo scorso, Thomas Merton, che scrisse: “Lo zen non è classificabile come “religione” (è infatti separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddiste o di nessuna religione), e in ogni caso cerca, come ogni buddismo di rendere l’uomo completamente libero e indipendente, anche nei suoi sforzi per la salvazione e l’illuminazione” (Cfr. Thomas Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, Garzanti, Milano 1999, 52).
Fano, 27 giugno 2007
2 Responses to “Per semplificare…”
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Dicembre 22nd, 2008 at 8:38 pm
Sono pienamente d’accordo riguardo la “giapponesizzazione” dello zen in Europa vista come un colonialismo etno-religioso. Sono rimasto stupefatto riguardo il discorso degli appartenenti del clero giapponese scelti dalla famiglia come eredi della – non di rado redditizia – attività del tempio. Tutto ciò è incredibile!
Come dice Merton (sono pienamente d’accordo con lui!): lo zen NON E’ una religione! Tutte le persone, sia laiche, cristiane o mussulmane possono liberamente praticare lo zen, che è esclusivamente come dice la parola stessa “dhyana”: pura meditazione, vivere il presente!!! Il Buddha c’insegna ad essere uomini LIBERI da ogni tipo di condizionamento mentale, identificazione, convinzione e attaccamento! Sono sicuro che Buddha vivesse ancora ai tempi nostri e vedesse tutte queste cose si farebbe una grassa risata! E ciò non vuole essere assolutamente una provocazione ma solo un mio punto di vista.
Dicembre 23rd, 2008 at 11:05 am
Grazie. In Giappone il “prete buddista” è un lavoro come un altro, la differenza più evidente (con gli altri lavori) è che si tramanda all’interno di una casta di tipo famigliare. Non identificherei in modo così netto zen e zazen: tutte le persone (delle più varie tendenze o appartenenze religiose) possono praticare lo zazen. Poi si alzano dal cuscino e continuano a “servire” la loro appartenenza. Direi, per chiarezza, che praticare lo zen ha un senso più globale. Infatti: il Buddha c’insegna ad essere uomini liberi ecc. ecc. mym