2. Aprire le mani del proprio pensiero
Ho già detto che se durante lo zazen stiamo pensando, non si tratta di zazen ma di attività pensante. Questo vuol forse dire che durante lo zazen non si deve dar luogo ad alcun pensiero? Che lo zazen è ben fatto quando i pensieri non si presentano assolutamente più alla nostra mente? È qui necessaria una chiara distinzione fra stare a pensare, seguire i pensieri e pensiero che sorge, pensieri che si presentano. Se, durante lo zazen, viene in mente un pensiero e voi gli andate dietro, allora state già pensando e non più facendo zazen. Ma ciò non vuol dire che si fa zazen solo quando il pensiero non c’è più. Allora, di che si tratta ? Proviamo a mettere un macigno vicino a una persona che sta facendo zazen. Siccome il macigno non è vivo, in esso non nascerà mai un pensiero, quale che sia la durata del tempo in cui rimane posato lì. Invece una persona che fa zazen, a differenza di una roccia, è un essere umano vivente. Anche se siamo seduti in una posizione statica, come un macigno, non si può certo dire che nella nostra mente non si forma più neppure un pensiero, come fossimo di pietra. Anzi, se davvero in noi smettesse di manifestarsi qualunque forma di pensiero, potremmo ben dire di non essere vivi. Ma la realtà vera della vita, nel nostro caso, non è mai inerte (pietra). Non è quindi vero che nella persona in zazen non si affaccino più i pensieri: al contrario è naturale che il pensiero ci sia. Ma se qualcuno segue i propri pensieri, non sta più facendo zazen, sta solo pensando. Insomma, quale dovrebbe essere il nostro modo di comportarci? Bene, per descrivere in poche parole il nostro atteggiamento interiore durante lo zazen io mi esprimerei così: tendere in carne ed ossa alla forma fisica dello zazen e lasciare aperte le mani del proprio pensiero. Che significa aprire le mani del pensiero? Il pensiero, per noi, consiste sempre nel pensare «qualcosa»: «pensare qualche cosa» vuol dire che, in virtù della nostra facoltà di pensare, noi afferriamo «qualcosa». Ora invece, nello zazen, spalancata la mano del pensiero che sta per afferrare qualcosa, non afferriamo più. La mano del pensiero resta aperta. Poniamo il caso che in effetti si affacci il pensiero di qualcosa. Però, se il pensiero mio non lo blocca, non necessariamente questa immagine prende la forma composita di un «qualche cosa». Un esempio: si affaccia il pensiero A (fiore). Fin tanto che ad esso non segue la connessione B (bello) e non prende forma, il senso che A è B (il fiore è bello) è come se il significato compiuto «bel fiore» non si potesse cogliere.
Quindi, anche se il pensiero A sboccia nella vostra testa, se voi non continuate il pensiero, se non gli fornite sostegno e continuità consequenziale, A è in una condizione precedente al prendere forma di significato: è privo di significato, scorre via col fluire della coscienza. Come ho detto prima, il fatto stesso di mantenere eretto il portamento decongestiona il cervello e placa l’eccitazione: infatti questa è, in linea di principio, la posizione in cui non è possibile seguire un filo di pensiero. Quindi, fin tanto che ci si affida completamente alla forma fisica di zazen, il contemporaneo dischiudersi delle mani del pensiero avviene come un fatto naturale. Ma la vita umana non è una macchina e se qualcuno presta attenzione ai pensieri può pensare fin che vuole anche in posizione di zazen. Ecco perché è importante, quando facciamo zazen. contemporaneamente tendere con tutta la vitalità del corpo alla posizione di zazen e, affidandoci senza riserve ad essa, aprire le mani del pensiero. È in conseguenza di questo contemporaneo tendere alla posizione fisica di zazen e aprire le mani del pensiero che il corpo e lo spirito uniti fanno zazen, perché sono messi nella disposizione di farlo. Fare zazen perché si è nella giusta disposizione per farlo non è mai un pensiero, uno stato d’animo: zazen è fare l’atto di fare zazen. Citando un’espressione di Yakusan Ighen (nome giapponese del maestro cinese Yueh shan Wei yen: 745-828) Dogen Zenji lo descrive con le parole: «il pensiero del non pensato». Vale a dire tendere, mirare (il pensiero) e aprire le mani del pensiero facendo zazen con carne ed ossa (il non pensato). Eisan Zenji (1141-1215) usò l’espressione kakusoku che vuol dire aperti chiaramente gli occhi, del tutto ridesti (kaku), vivere realmente la realtà (soku). Siccome l’espressione di Eisan Zenji mi pare esprima molto bene l’intima realtà della persona in zazen, la userò per parlare della condizione in cui ci troviamo durante lo zazen. In linguaggio moderno (kakusoku) vuol dire, come ho accennato, «desti vivere realmente la realtà» o forse è meglio dire «la realtà è desta come realtà». Comunque non è qualcosa come pensare intensamente o rendersi conto. Nel pensare, nel rendersi conto, c’è una opposizione, un trovarsi di fronte della cosa che conosce alla cosa conosciuta, mentre è essenziale comprendere che nell’essere desti alla realtà non vi è sorta di confronto. Come ho già spiegato in una precedente sezione di questo libro (parte prima, capitolo 4) proprio noi stiamo sempre in ogni luogo vivendo la reale realtà della vita. Ma ciò nonostante, proprio noi perdiamo sempre di vista la realtà della vita, ed essa diventa confusa, offuscata. Come può accadere? Succede a causa del diventar intontiti e del modo di pensare. Pensate a quanto è pericoloso guidare una macchina quando si è insonnoliti o immersi nei propri pensieri. Ora essere desti alla realtà reale vuoi dire destarsi dall’intontimento o dai propri pensieri, lasciando aperte le mani del nostro pensiero: vuoi dire con le ossa e i muscoli compiere realmente la posizione dello zazen che ora sto praticando. In altre parole, significa attuare realmente la realtà vera del sé (di me stesso), con le ossa e i muscoli.
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