Seconda parte: Etica occidentale
Capitolo 4
Dietro le quinte dell’agire

L’argomento che si vuole sviluppare nelle pagine seguenti è il rapporto fra il cervello e la sua attività, con l’etica nella sua accezione impersonale e sociale, vale a dire: data una determinata realtà fisiologica è determinabile uno specifico comportamento etico? Laddove la risposta sia affermativa, che significato assumono questioni filosofiche, religiose, come il libero arbitrio, il male, il bene?
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Nel 1848 Phineas Gage, un operaio americano, fu vittima di un incidente particolarmente violento, ma dal quale in modo fortunoso sopravvisse: a causa di un esplosione una barra di metallo gli attraversò il cranio perforando, nello specifico, la zona frontale della scatola cranica. Il caso è stato analizzato e reso celebre dal neuroscienziato americano Antonio Damasio. L’elemento che ha più colpito gli studiosi è stato il mutamento della personalità di Gage in seguito all’incidente.
Da un uomo capace di prendere decisioni in maniera veloce ed efficace si trasformerà in una persona indifferente ed incapace di prendere ogni decisione; prima dell’incidente era conosciuto come un uomo mite, in seguito diventerà violento e privo di ogni nozione morale.
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Un elemento colpisce: Gage e tutti coloro che hanno subito un danno alla corteccia frontale, indotto o meno, hanno avuto un mutamento della propria personalità. Questo dato clinico ha un significato etico profondo: tutte queste persone hanno perso per sempre ogni nozione di giusto ed ingiusto, di male e bene, di legale ed illegale, di amorevole o odioso, di gioioso o doloroso, ecc. Si potrebbero rilegare questi fenomeni in un angolo e sostenere che si tratta di eventi patologici, marginali, causati da eventi esterni o casuali e che per questo non possono essere assunti come elementi da cui far partire una riflessione filosofica sul senso etico nel suo complesso. Si può sostenere, senza sbagliare, che una persona in condizioni fisiologiche normali -priva, cioè, di ogni forma patologica- è in grado di provare empatia, di avere una nozione del giusto e ingiusto, insomma ognuno è capace in potenza d’essere un individuo eticamente conforme. Ma, anche partendo da questo dato resta il problema di fondo, ovvero, da cosa è determinata l’azione umana?
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Il cervello come padre del dualismo
Nel XX secolo si affermava che Dio era morto: una certa visione del trascendente non aveva più senso, la cosmologia religiosa per secoli predominante aveva perso di significato e valore; nel XXI secolo si può affermare che a morire è il dualismo mente-corpo. Un’affermazione che potrebbe suonare come liberatoria: dopo secoli di dualità corpo-mente il pensiero è maturato e grazie alla scienza non ha più senso parlare di divisione. Un discorso che è estremamente rassicurante, ma che cela fra le sue pieghe un problema enorme: la fine del dualismo sembra far venir meno la libertà o, per utilizzare un termine religioso, il libero arbitrio.
Riepilogando i termini della questione: le neuroscienze dimostrano come vi sia una correlazione causale fra determinate attività celebrali e azioni, le continue scoperte rivelano come uno specifico danno celebrale causi un determinato comportamento. Per esempio vi è una area del cervello, l’amigdala, che si attiva di fronte a scene particolarmente violente e produce la reazione spontanea di provare una stretta al cuore, sudare freddo, insomma si attivano i marcatori somatici di cui si è fatto cenno sopra. Lo studioso Rainey, attraverso la PET, ha evidenziato che in persone violente come i serial killer questo nucleo nervoso non si attiva nella stessa modalità con cui è attivo in una persona non violenta. Le neuroscienze ci vorrebbero dire che vi è una spiegazione neurobiologica alla crudeltà dell’uomo. Probabilmente “fra pochi anni nelle aule dei tribunali ci saranno più neuroscienziati che avvocati” e questa battuta nasconde una questione molto complessa: se la causa del male individuale è rintracciabile nel non funzionamento di una parte del cervello non vi è più responsabilità, bensì solo uno stato -definibile come “patologico”- che ha determinato uno specifico comportamento
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Quando si sfoglia un manuale di etica in vario modo si può leggere di svariate tipologie di sistemi etici tutti volti a rendere l’uomo felice, ma di fronte alla neurochimica che offre una via “semplice” per essere felici, le altre vie indicate dalla filosofia e dalla religione sembrano più tortuose, più faticose e dall’esito molto più incerto.
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Si potrà prendere una medicina per ritrovare la felicità persa a causa di un esame non superato, di una relazione interrotta, di una persona cara persa, ecc. Si potrà sostenere che non fa male e rende solo più felici e quindi perché non assumere qualcosa per stare bene? Tenendo poi ben presente che una persona felice coltiva meglio le proprie relazioni e, cosa essenziale, è molto più produttivo qualsiasi sia il suo lavoro.
Riassumendo: le neuroscienze stanno dimostrando come l’agire umano sia determinato dal sistema nervoso, da questo dato determinati fenomeni sociali come la violenza, la depressione, la tristezza, possono essere prevenute e sempre più modificate alla fonte. Data questa possibilità sembra venire meno quello che si può definire come il diritto all’errore.
In una modalità quasi paradossale l’annoso problema del male, così presente nella storia del pensiero occidentale, sembra aver iniziato un percorso risolutivo: finalmente il male, la crudeltà, la violenza sembra aver trovato una sua origine, una sua spiegazione.
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Dunque sono le neuroscienze a rendere il male un fenomeno e in tale processo lo stanno rendendo spiegabile, ma il rovescio della medaglia sta in una ulteriore perdita di senso. Si è scritto sopra che il fenomeno è paradossale in quanto l’origine del male è stata per secoli una fonte di non senso, inspiegabile, oggi che si stanno fornendo delle risposte e quindi dei significati, non è seguita una realtà semantica, bensì si sono aperti degli abissi di senso.

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