Dom, 30 Lug 2006
In questi giorni le Regioni italiane devono mettere mano al calendario venatorio 2006/2007.
In pratica si tratta di decidere da che ora a che ora e in quali giorni potranno essere uccisi alcuni milioni di animali per il divertimento dei cacciatori italiani, poco più di 600.000 persone, circa l’un per cento della popolazione italiana. Anche nelle Regioni cosiddette “progressiste”, ovvero nelle cui giunte siano presenti partiti a cultura ecologista, vi è una tendenza a ignorare non solo le direttive comunitarie ma anche le leggi italiane, concedendo per i motivi più diversi proroghe o eccezioni riguardo alle specie oggetto di uccisione e al numero dei giorni in cui questa sanguinaria attività è consentita.
La mia personale opinione è che versare il sangue di esseri viventi per gioco -o addirittura “per passione”, come incredibilmente asseriscono le Associazioni Venatorie- sia una delle barbarie più ignobili che la nostra cultura, dalle asserite radici cristiane, si porta appresso da epoche in cui il gioco era in molti casi controbilanciato dalla necessità.
È nota la forza delle lobby dei produttori di armi cartucce e affini, per cui non mi illudo che a breve sia possibile ottenere la fine di questa grande violenza gratuita. Inoltre basta notare il silenzio in materia di quasi ogni prete, vescovo o papa per capire che l’argomento non è nell’agenda di nessuna delle tre religioni abramitiche, non ostante amore e difesa per la vita siano efficacemente propugnate quali baluardi etici in numerose scelte politiche.
Con questa mia vorrei far riflettere quanti abbiano a cuore la propria collocazione nella vita, nella realtà vivente e perciò guardano con attenzione a “tutto il complesso della vita” di cui gli umani sono solo una parte: attualmente la più pericolosa.
Mauricio Yūshin Marassi
8 Commenti a “Uccidere per gioco”
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4 Luglio 2006 alle 11:06 am
Non so come mai nella chiesa manchi la religiosità che fa gridare alle abitudini oscene di allevare animali con metodi contro natura e di trattare la loro vita come giocattolo.
Al cuore della religiosità biblica c’è il sacrificio, ossia l’immolazione della vita di un essere vivente. Ciò è nato proprio dall’aver percepito che la vita, negli animali come negli uomini, è sacra e tale santità custodisce intimamente la funzione di sacrificarsi per le altre forme di vita.
La vita è ricevere e dare, ma in una legge santa, insegnata dalla natura. Nessuna vita vive per se stessa, ma nell’economia della vita universale. Così molti animali vivono di altri animali; così anche l’uomo nell’equilibrio della sua funzione si nutre della carne degli animali di cui ha cura. Solo come atto sacro, per la conservazione di un equilibrio naturale. L’unica usanza contro natura che fa gridare la chiesa, purtroppo, è quella circa la genetica umana: ciò è ovviamente giusto, ma la legge che guida la genetica umana anima tutta la vita nelle sue forme.
Tra l’altro, la chiesa non si rende conto che il separare il valore della genetica umana dalla economia universale della vita indebolisce il suo insegnamento, perché appare snaturato.
p.Luciano
5 Luglio 2006 alle 1:29 am
Se avete lo stomaco forte e volete capire che cosa prova un cacciatore quando alla fine dell’appostamento – con grande eroismo e sangue freddo – riesce a piazzere il colpo perfetto, potete leggere la cronaca dell’abbattimento di un capriolo o ancora meglio di un cinghiale o di un altro capriolo.
Dobbiamo fermare questa pazzia.
Pierinux
18 Luglio 2006 alle 11:18 am
Nel Paleolitico l’istinto primordiale ha indirizzato alla caccia in quanto unico mezzo per assicurare la continuità della specie umana che, in seguito, ha trovato per garantirsela mezzi ben più intelligenti e adeguati a una specie, appunto, intelligente. Alcuni individui dell’età paleolitica sono sopravvissuti fino ad oggi, senonché, all’interno di civiltà più avanzate, hanno dovuto travestire l’ormai inutile istinto primordiale con la maschera di una nobile attività sportiva e di un sano divertimento…
Cristina
1 Agosto 2006 alle 12:20 pm
Sottoscrivo caldamente quanto dice Mauricio: sparare ad un animale non può essere come dilettarsi al tiro al piattello. Desidero però introdurre una piccola ma significativa integrazione, dovuta anche al fatto che vivendo io sull’Appennino (e amando questi luoghi) ho a cuore pure il problema dell’abbandono di queste terre e del fatto che stanno diventando sempre di più zone depresse.
Leggo dal quotidiano “La Repubblica”, di domenica 25 giugno 2006, dall’articolo di Giampaolo Visetti, dal titolo “Messner-Corona. Addio Alpi” (sottotitolo: Il re degli Ottomila e l’alpinista-scrittore in cammino insieme per lanciare un allarme. La cultura delle nostre montagne sta per essere cancellata da avidità e ignoranza.):
“Prendiamo la caccia – sta parlando Mauro Corona, scrittore, scultore ligneo, alpinista e arrampicatore, nonché sopravvissuto alla tragedia del Vajont – poche balle, una montagna di carne è una risorsa. Come i pesci nel mare: perché lasciarla marcire nei boschi? Sulle Alpi la selvaggina può far vivere osterie, salumifici, macellerie, piccole concerie. I primi a non sprecare la fauna sono i montanari. Nelle capitali si è pubblicamente ambientalisti e privatamente vandali”.
Ecco, mi sta bene pure quello che dice Corona. No dunque alla caccia come gioco, ma sì come attività legata alle radici di un luogo. (Ad esempio: perché non consentire la pratica della caccia solo ai residenti in quella determinata area?)
Federico Battistutta
1 Agosto 2006 alle 12:25 pm
[…] Per evitare doppioni i vari commenti a questo articolo sono stati spostati nell’analoga pagina dell’ambito buddista. […]
4 Agosto 2006 alle 6:46 pm
Capisco che cosa vuol dire Federico. A suo tempo avevo letto anch’io le parole di Corona e non mi erano piaciute. Considerare gli animali selvatici dei boschi “carne” che addirittura “marcisce” se non viene macellata a fucilate mi pare eticamente identico al pretendere di cacciare per passione o divertimento perché si è pagata la tassa venatoria o perché si è sempre fatto così: è l’uomo che tratta la natura, il mondo attorno a sé, acqua, aria, alberi, animali come cose a sua disposizione. Per il piacere o per la borsa.
Vorrei si provasse a ragionare in modo differente. Per quanto possa essere scomodo e poco economico, affrontare la vita in armonia con la vita, con le altre vite, dovrebbe essere primario a quasi tutte le altre valutazioni, economiche, politiche, ideologiche, dottrinali. Che cosa questo significhi non è possibile dirlo prima, caso per caso, momento per momento occorrerà prendere delle decisioni almeno riducendo il danno che l’esistere di una vita causa alle altre vite. Respirando inquino, mangiando uccido e distruggo. Accendendo la luce aumento la necessità di sconquassare l’ambiente con centrali sempre più potenti, comprando il giornale causo l’abbattimento degli alberi necessari per la carta, uscendo in automobile… ecc. ecc. Siccome così stanno le cose, se pensassi che non c’è nulla da fare potrei dedicarmi al cannibalismo, magari di bambini, più teneri e delicati delle coriacee carni degli adulti. Se non lo faccio, se riconosco un limite al danno che il mio esistere può causare alle altre vite, è possibile un discorso diverso. Chiamiamolo di riduzione del danno. Non necessariamente a partire da una base etico religiosa quale potrebbe essere il non voler, per principio, nuocere ad altre vite, o il non voler versare sangue.
Si potrebbe pensare in termini di interesse personale in modo più ampio che l’incasso immediato di piacere, denaro, carne o nutrimento. La sostenibilità della vita, nel suo complesso, del pianeta Terra, così come vanno le cose, non è più possibile. Al primo posto certamente la pretesa di crescere ad ogni costo, anche a quello di distruggere la razza umana. Le guerre, che sempre più appaiono un modo per non dover fare i conti con il diritto dei terzi e dei quarti mondi a “consumare” come i primi e i secondi, o guerre più “semplicemente” dettate dall’esigenza di mantenere il controllo di risorse strategiche e impedire che il prezzo delle materie prime (che cosa determina il “prezzo” del petrolio?) possa calare. In mezzo a tutto questo c’è anche la caccia. Non è un problema primario, ma è un simbolo, la faccia esposta del sistema di rapina su cui si basa buona parte del nostro mondo.
mym
8 Agosto 2006 alle 7:36 pm
“Caprioli, la caccia non è l’unica soluzione”
Fulco Pratesi Presidente del WWF:
L’ARTICOLO di Francesco Merlo sui caprioli piemontesi pubblicato [su La Repubblica] in prima pagina il 5 agosto, merita qualche considerazione, al di là degli atteggiamenti disneyani (comunque degni di rispetto) o di scherno.
Il nostro è un paese che certamente, in alcuni contesti territoriali, ha per qualche specie di animali problemi di soprannumero di capi. Sono comunque animali che pagano scelte dell’uomo, il quale – sterminando i predatori naturali o facendo reintroduzioni sbagliate per motivi venatori -ha alterato quegli equilibri che governano i rapporti tra le varie specie. Quando però si tratta di gestire questi problemi, la scelta cade sempre sulla caccia. Si chiamano abbattimenti selettivi, ma sempre caccia è.
Le catture e altri possibili interventi per limitare l’espandersi delle popolazioni, ricercando comunque soluzioni alternative, sono ipotesi che non vengono neppure prese in considerazione. E vero che spostare questi caprioli all’interno di tanti parchi che ne sono privi e li ricercano per reintrodurli, come proposto oltre che dal ministro dell’ambiente anche dal Wwf, non risolverà il problema (anche se per i cinghiali le catture sono molto più efficaci delle fucilate per contenerne il numero). Ed è anche vero che altre specie vengono abbattute senza sollevare analoga emotività.
Ma altrettanto vero è che rispondere in qualche modo all’indignazione che molti hanno avuto per l’ennesima mattanza significa affermare che una società civile può e deve cercare e darsi soluzioni, magari a medio o a lungo termine, per gestire questi problemi senza necessariamente dover imbracciare una carabina, oltretutto in periodi di caccia chiusa.
(La Repubblica, 8 agosto 2006)
4 Aprile 2007 alle 9:05 am
[…] Dubito che questi consumatori di carni appartenenti ad animali appena nati (nella tradizione romana l’abbacchio non deve avere più di 20 giorni), abbiano mai visto un macello, un mattatoio o anche solo l’uccisione di un agnello, di un capretto. Non sarebbe sciocco vedere per sapere. Rendersi conto delle conseguenze, anche di sofferenza, dovute alle nostre scelte alimentari non può che affinare le motivazioni legate a tali scelte. Chi produce, immette sofferenza nel mondo -ovvero in un sistema interconnesso- si assume una grave responsabilità. Da altri punti di vista, abbiamo già preso in considerazione il problema con un post e nell’introduzione ad un recente libro. […]