Gio, 7 Mag 2015
Questa volta è a Lodi che la Stella fa capolino, voce solista gjf, domenica 10 maggio, alle ore 10,30 nell’ex chiesa di santa Chiara Nuova, in via della Orfane. Nell’ambito del Festival dei comportamenti, un’iniziativa a cadenza annuale organizzata dall’assessorato alla cultura e varie associazioni locali: quest’anno il tema è Condividere la terra, condividere risorse. Il titolo dell’intervento è Natura creata, spirito della natura. Il sottotitolo introduttivo recita: “Elementi di riflessione
sul rapporto fra uomo e natura nel pensiero cristiano occidentale e nella visione buddista orientale”. Il proposito è di parlare di come il dialogo religioso possa aiutare a osservare con sguardo nuovo ataviche concezioni, come quella narrata nel libro della Genesi, che continuano a influenzare profondamente il corso della storia umana e delle nostre vite. Con la speranza che altre voci permettano poi al monologo di evolvere in dialogo.
Ringraziamo http://grist.org/ per l’immagine
Natura creata, spirito della natura. Testo della conferenza di Lodi
99 Commenti a “A Lodi, un riverbero”
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12 Maggio 2015 alle 10:46 am
Giubilo per la partecipazione della Stella, nella persona di Giuseppe Jiso Forzani, al Festival dei Comportamenti.
È un tema che mi sta a cuore. Soprattutto da quando Renzi ha approvato lo “Sblocca Italia”, che autorizza il trivellamento a tutto spiano della Basilicata (il 77% del suo territorio). Una genialata. Chi deciderà se e dove trivellare saranno i cervelloni di Roma, perché le province non esistono più, il petrolio è un interesse strategico, e i lucani sono in tutto 500000. Poi, se si inquinano le falde acquifere, chi se ne fotte: la Lucania è solo il serbatoio dell’acqua potabile in Italia che distribuisce in Campania, Puglia e Calabria.
A parte questo, il diaologo tra istituzioni religiose e laiche procede bene: gli alti vertici della Curia lucana sono indagati dalla magistratura per il reato di occultamento di cadavere. Il caso Elisa Claps. Il corpo della ragazza fu occultato nel sottotetto della Santissima Trinità, a due passi dal Municipio, Chiesa simbolo della Città (custodiva una reliqua di San Gerardo).
En passant, il comune di Potenza è in dissesto finanziario. Il comune di Viggiano, un paesino di 3.000 anime, ha nelle casse comunali 70 milioni di euro grazie alle royalty del petrolio. In tre anni hanno rifatto i marciapiedi 5 volte!
Una volta ero pessimista, mi dichiaro apertamente disfattista.
PS: la mia malignità raggiunge vette di sublimità da far impallidire un prete. Per es., ero un po’ giù di corda, poi ho acceso la TV e ho visto Berlusconi cadere dalle scale 🙂
12 Maggio 2015 alle 10:48 am
Nello è in fissa per Sawaki, il sottoscritto legge Takeo Doi, psicoanalista giapponese: Anatomia della dipendenza, Cortina editore, 2001
In tre parole: amae (甘え), nihonjinron (日本人論) parasite single (パラサイトシングル).
Questo per dire che lastelladelmattino.org non è solo un medium per la trasmissione del Dharma, ma anche altre cose. E mym non è solo un “maestro zen”, ma anche un accademico. Per aderire alle sue tesi non è che uno deve farsi 7 anni in Tibet! Però occorre aver coraggio perché il dialogo che propone è serio. Quanti sono disposti a farsi ascolto?
12 Maggio 2015 alle 10:49 am
Per esempio, per restare on topic,
La fede Bahá’í propone l’unità spirituale di tutta l’umanità attraverso il concetto di relatività e progressività della religione. Secondo questa religione la rivelazione religiosa non è assoluta, ma relativa e progressiva. Lo scopo ultimo della religione bahá’í è l’unità del genere umano e la pace universale.
Dice Bahá’u’lláh(1817-1892) il fondatore di questa religione: : “La Terra è un solo paese e l’umanità i suoi cittadini”. La fede bahá’í mira all’instaurazione di una comunità mondiale in cui tutte le religioni, razze, credenze e classi si uniscano, non obliando tuttavia la loro peculiare genesi storica e diversità.
Bahá’u’lláh afferma che “Le risorse del sottosuolo vanno considerate come patrimonio comune dell’umanità intera, in un equilibrio sostenibile tra natura e tecnologia”, auspicando la creazione di un sistema legale federativo mondiale che conduca al benessere e alla sicurezza collettiva.
Se il messaggio è chiaro, le premesse sono errate perché poggiano sul secondo avvento di Cristo, ovvero sulla credenza di un ritorno, in carne e ossa (!), di Gesù su questa terra!
Sono disposti i cattolici ad ammettere che San Paolo avvalora l’idea che per loro possano essere infrante le leggi di natura ottenendo così una “salvezza” tutta immaginaria, e che quando sulla via di Damasco ebbe la folgorazione, con gli occhi aperti vide il nulla?
Secondariamente, a proposito della Fonte Q (cfr. Mym, Dialogo interreligioso come riconquista della propria religiosità, p.1), se si considera, per esempio, che la materia è energia, come Einstein ha dimostrato, è chiaro che noi non vediamo la realtà com’è «in sé» in quanto noi vediamo e sentiamo la materia, non l’energia. Tuttavia mi chiedo se questa energia non sia a sua volta un’altra cosa, per esempio spirito, per esempio… Dio?
12 Maggio 2015 alle 5:52 pm
Ciao Hmsx, bentornato. Proprio l’altro ieri uno dei lettori del blog mi diceva: è un po’ che Hmsx non interviene. “Ssssssh!!!” gli ho detto, “che anche i muri hanno le recchie…”. 😉
Non so se ciò che sto per dire si possa definire disfattismo, ma il famigerato punto di non ritorno, imho, è stato doppiato da un po’. In Lucania, forse, si nota di più, perché l’inizio del disastro è relativamente recente. Ci sono regioni dove è tutto talmente stravolto, la terra, le piante, gli animali, l’acqua, l’aria, le persone che solo la scomparsa immediata dell’uomo permetterebbe in due trecento anni il ricostituirsi di un ecosistema non dico pulito (per quello di anni ce ne vorrebbero almeno 500 in completa assenza di umani) ma reversibile. Non parlo della Terra dei Fuochi ma della Lombardia o della Liguria per esempio.
Mym non è né un “maestro zen” né, tantomeno, un accademico, è uno che pensa: non ci resta che sedersi. Da seduti si fa il minimo danno.
12 Maggio 2015 alle 6:02 pm
@ 2: il nihonjinron e il conseguente, o parallelo, nihonshugi sono dei pericoli per i seguaci occidentali degli zen giapponesi, difficili da comunicare. Ho cercato varie volte di mostrare di che cosa si tratta ma… Come ogni male si cura da sé: se lo conosci lo eviti. A tue spese però.
14 Maggio 2015 alle 12:34 pm
L’Arpa birmana è uno dei miei film preferiti, nel senso che ho il DVD. Non ho molti DVD. Il germanista Sossio Giametta, ne “Commento allo Zarathustra”, Mondadori, 1996, raccomanda la visione di questo film per spiegare meglio il culto dei morti, in generale, e la figura del samurai in particolare. Credo che le varie teorie sul Giappone siano tacciabili di Orientalismo. Sovente il Giappone è presentato non come una entità geografica o culturale concretamente determinabile, ma come uno stereotipo impossibile. Il caso dei parasite single (パラサイトシングル), ovvero di coloro che scelgono di vivere coi genitori anche dopo aver superato i trent’anni, per semplificarsi l’esistenza e godere di una vita agiata, pare non essere una peculiare caratteristica della mentalità giapponese.
14 Maggio 2015 alle 12:40 pm
Tornando al silenzio, e alla speculazione che parla tanto del silenzio, lo zazen si ferma dove comincia il codice penale, nel senso che la verità, invece di stare zitta, strilla. Per esempio, supponiamo che un teologo, dopo aver interpretato il silenzio zen, dica: “L’altro provoca un sentimento etico nella coscienza”. Ebbene e con ciò? Fare il teologo e poi dire quanto sopra, per questo basta il prete. Si tratta di una cosa assolutamente diversa. Il teologo maledetto direbbe: “ il prossimo mi è indifferente come una capra”. Se la teologia non può giustificare il pensiero che il prossimo può ben essere impiccato, e che chi pensa così non è un comune delinquente ma un teologo, allora la teologia è soltanto uno scherzo, e se ne conoscono di migliori. Di fronte a problemi come questi il prete parla di fanatismo o, più semplicemente, di manette. “Bisogna essere pronti a tutto” sostiene il sottoscritto. “Sì, stai fresco” risponde il prete.
Lascio immaginare che tipo di dialogo un cattolico possa instaurare con uno che è certo di non avere nulla a che fare col prossimo e che, anzi, vive nella grandezza del disprezzo di Dio. Eppure il teologo maledetto è una figura altamente contemporanea: è l’ultimo genio di un’etica impossibile nell’età in cui l’agire è diventato impossibile. E si fa il nome di Dio per necessità, perché non v’è altro nome. Se il discorso sull’“essere” si stempera nel placido dolore universale, la teologia maledetta ce l’ha proprio con Dio. Ma Dio è, per così dire, un fatto, sebbene si preferisce ancora una metafisica privata per cui si sarebbe padroni di pensare ciò che si vuole di Dio.
ps: scusa mym se ti ho dato dell’accademico, in verità mi piace il tuo curriculum extraccademico. però come prof. non sei male, eh.
14 Maggio 2015 alle 7:49 pm
Caro Hmsx, per quanto un po’ lunghetti, ma si sapeva, fai commenti compiuti in sé stessi.
Non ho curriculi (curriculà) ne extra né intra.
15 Maggio 2015 alle 8:33 am
PS: più che i parasite single (@2 e @6) sono caratteristici del giappone gli hikikomori e, lo erano, gli otaku.
15 Maggio 2015 alle 5:23 pm
Buongiorno a tutti; ho letto il test di Jf sull’ecologia (ciao Jf). Domando però: va bene mettere in discussione il modello occidentale, e l’idea di un dominio razionale sulla natura che ci sta dietro ( e che secondo me dipende più dalla riscoperta della filosofia greco-romana nell’umanesimo che dalla Genesi), ma chi sarebbe disposto a rinunciare ai benefici che esso ha portato? Ai vantaggi della tecnologia in ambito medico, nell’istruzione, nella conoscenza? Il mondo precedente alla rivoluzione industriale era un mondo in qui quasi tutti facevano i contadini, e dove un’epidemia di influenza faceva fuori anche metà della popolazione.
Io penso che la crisi ecologica sia un riflesso dello stato della società, e che dipenda soprattutto dal predominio totale dell’economia ripetto ai processi democratici. Da questo punto di vista, non mi sembra sbagliata l’idea dei Bahai’ (ciao HMSX), forse utopistica, ma che comunque porta il problema al livello delle società e delle istituzioni
15 Maggio 2015 alle 6:05 pm
scusate gli errori di stompa 🙁
16 Maggio 2015 alle 1:59 pm
Credo che jf abbiamo inquadrato bene il problema, ovvero che il modello occidentale – il dominio (ir)razionale sulla natura – origini dal cristianesimo: “Dio creò maschio e femmina a sua immagine e disse loro soggiogate la terra e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra.” (Gen. 1,27-28).
Sull’importanza del dialogo interreligioso segnalo il caso dell’Ecuador.
Il presidente Rafael Correa indisse nel 2007 un referendum per la convocazione di un’assemblea costituente finalizzata a riscrivere la Costituzione del Paese. La nuova Costituzione introduce lo “stato di diritto” per la natura, cioè vengono riconosciuti diritti alla natura stessa (a cui si fa riferimento con il nome Quechua di Pachamama).
Afferma l’articolo 71:
«La natura (o Pacha Mama) dove si riproduce e si realizza la vita ha il diritto che si rispetti integralmente la sua esistenza e il mantenimento e la rigenerazione dei suoi cicli vitali. Tutte le persone, comunità popoli … potranno esigere dall’autorità pubblica il rispetto di diritti della natura.».
Se in occidente è stato proposto di includere la salute dell’ambiente tra i diritti umani, gli Ecuadoriani si spingono ancora più in là, riconoscendo la natura stessa come soggetto di diritti e dando agli individui e alle popolazioni la possibilità di intervenire per difendere il diritto all’integrità della natura, anche quando i loro propri diritti non fossero minacciati.
È qualcosa di assolutamente inedito nella storia del diritto.
Per la prima volta un paese rivede il concetto di natura nella propria Costituzione e le conferisce lo stato di entità giuridica affrancandola dalla condizione di mera proprietà. Assegna inoltre ai governi locali il compito di difenderla dalle attività «che possono portare all’alterazione degli ecosistemi o dei cicli naturali». Le nuove leggi impediscono al diritto di proprietà sulla terra di interferire con l’esistenza delle comunità umane e delle specie animali e vegetali che lo popolano. Il governo del presidente Rafael Correa ha compiuto così un passo importante anche in difesa delle popolazioni indigene, attribuendo loro l’autorità legale di agire per conto della Pachamama, la madre terra.
Nella stessa direzione dell’Ecuador si stanno muovendo Uruguay e Brasile.
16 Maggio 2015 alle 2:00 pm
Preambolo della Costituzione della Repubblica dell’Ecuador
Noi, donne e uomini, popolo sovrano del Ecuador, riconoscendo le nostre radici millenarie, forgiate da uomini e donne di popoli diversi; celebrando la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza; invocando il nome di Dio e riconoscendo le nostre differenti forme di religiosità e spiritualità; appellandoci alla sapienza di tutte le culture che ci arricchiscono come società; come eredi delle lotte sociali di liberazione di fronte e tutte le forme di dominazione e di colonialismo; e con un profondo impegno con il presente e il futuro; decidiamo di costruire una nuova forma di convivenza cittadina, nella diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere, il sumak kawsay; una società che rispetti, in tutte le sue dimensioni, la dignità delle persone e della collettività; un paese democratico, impegnato nell’integrazione latinoamericana – sogno di Bolivar e Alfaro1 – la pace e la solidarietà con tutti i popoli della terra.”
Nota. L’invocazione alla Pacha Mama, la Terra Madre, viene prima di quella al Dio cristiano, nella nuova Costituzione ecuadoriana, e questo ha creato non poche polemiche e discussioni in fase di Assemblea costituente nonché una forte opposizione della Conferenza episcopale ecuadoriana e delle alte gerarchie ecclesiastiche del paese che hanno fortemente osteggiato il progetto di rinnovamento costituzionale ma che sono uscite sconfitte dalle urne.
La nuova Costituzione dell’Ecuador è stata approvata il 28 settembre 2008, attraverso un referendum, con il 65% dei voti a favore, il 28% di “no” e il 7% di voti annullati.
16 Maggio 2015 alle 2:17 pm
(*) Simón Bolívar (Caracas, 24 luglio 1783 – Santa Marta, 17 dicembre 1830), fu un generale, patriota e rivoluzionario venezuelano, che fu insignito del titolo onorifico di Libertador (Liberatore) in ragione del suo decisivo contributo all’indipendenza di Bolivia, Colombia, Ecuador, Panama, Perù e Venezuela.
Eloy Alfaro (1842-1912) fu Presidente dell’Ecuador, assassinato nel 1912. Fu un sostenitore della separazione sta stato e chiesa. Ha legalizzato il divorzio e istituito il matrimonio civile e le scuole pubbliche.
17 Maggio 2015 alle 6:06 pm
Cari aa e Hmsx, aspettiamo che Jf torni alla base, vi legga e volendo risponda.
18 Maggio 2015 alle 6:32 pm
Ho letto l’intervento a Lodi di Jiso e mi è piaciuto, è aperto, fermo nei punti giusti ma non statico, veramente bello, compassionevole, che fa il paio con prajna.
Nei suoi enunciati mi sembra di individuare in sintesi questo percorso:
– nessun dualismo, ovvero riconoscere la dualità ma non vivere dualisticamente;
– antropocentrico > cosmologico, da > a;
– bussho – mujo – mubussho, ovvero nessuna ipostasi;
– “un altro non è me” che riprende il sempre eterno koan tra il tenzo e Dogen in Cina.
Qust’ultimo punto è proposto e testimoniato anche da Kosho Uchiyama nella prefazione al bel testo “Opening the Hand of Thought” che ha per titolo “The Theme of My Life” specie nella parte conclusiva che dice:
“What is most crucial is to remenber to pursue the way of the self selflessly, not for any profit. Because we concretely are universal self, there is no particular value in talking about it. Yet if we don’t make every effort to manifest it, just knowing about it is useless. To concretize the eternal, that is the task before us. Even if we have a cup of cool, clean water sitting right in front of us, if we don’t actually drink it, it won’t slake our thirst. The expression of universal self is a practice that is eternal, but to the extent that we don’t walk it ourselves, it won’t be realized, it won’t be our path.
May this-the actualization of our universal self-be all our life work.”
Se i nostri amici capiscono che non hanno “fratelli maggiori” da ossequiare, probabilmente farebbero una enorme ermeneutica evolutiva, anche se resta un Dio veramente molto ingombrante…
18 Maggio 2015 alle 7:25 pm
Caro Nello, come dicevo ad aa e Hmsx, aspettiamo Jiso per una chiosa. Conosco, anche per aver respirato quell’aria, la predilezione di Uchiyama per espressioni quali “il sé (universale)” e simili. Frasi come “because we concretely are universal self” sono da prendere con delle molle molto lunghe. Si rischia di immaginare qualcosa. Solo in una radicale percezione che “il mondo nasce con me (e muore con me)” si può tentare di comprendere con la testa di che cosa sta parlando.
21 Maggio 2015 alle 10:10 am
@ HMSX: molto bella la costituzione equadoregna; io starei attento però ad idealizzare “madre natura”. Lo “stato naturale” è una condizione di precarietà, di dipendenza e di fragilità estrema.
Non sono poi molto d’accordo sul fatto che il modello occidentale attuale derivi dal Cristianesimo; nei Vangeli vi sono molti passi che vanno in direzione toralmente opposta. IMHO il Discorso della Montagna è un testo molto significativo, anche sul piano dell’ecologia, perchè unisce in un tutt’uno la pace tra gli uomini, la pace con la terra e la pace con Dio-sono i miti che erediterenno la Terra. Penso che sia davvero opportuno unire giustizia sociale e coscienza ecologica- un mondo in cui l’uno per cento della popolazione detiene tutte le risorse non sarà mai equilibrato neppure dal punto di vista ambientale.
Sono invece del tutto d’accordo sul fatto che il dominio occidentale sul mondo sia irrazionale, come scrivi, e questo IMHO è proprio il nocciolo della questione. E’ irrazionale perchè è giudato dal profitto nudo e crudo, dalla volontà di accaparramento fine a se stessa…si potrebbe parlare di trisna? E che ciò sia un male penso sia un punto su cui tutte le religioni possano convenire.
22 Maggio 2015 alle 12:51 pm
Eccomi, scusate il ritardo se ritardo c’è stato.
Trovo le considerazioni e le informazioni che HMSX offre molto interessanti: le parole del diritto sono normative, nel senso che determinano le convenzioni legislative cui si attiene il (con)vivere delle società umane. Riconoscere diritti alla natura, come fa la costituzione ecuadoregna, crea un precedente storico nella comprensione che l’uomo ha di sé come dispensatore e fruitore di diritti. Mi pare diametralmente all’opposto della visione della Genesi biblica, in cui il dominio e lo sfruttamento sulla natura sono (auto)attribuiti all’uomo per diritto divino. Il punto di partenza determina la direzione da prendere, e man mano che si procede è sempre più difficile tornare al punto base per mutare orientamento. Scrivere una costituzione è cosa assai seria, è un atto fondativo, di azzeramento e ripartenza: il modo con cui si cerca di riscrivere la costituzione in Italia oggi, o con cui si è discusso di costituzione europea ieri, rappresenta in modo lampante la pavida miseria dei tempi.
22 Maggio 2015 alle 1:46 pm
Buongiorno Nello, in questi giorni sto rileggendo il testo di Uchiyama (Seimei no jitsubustu – in it. La realtà della vita) la cui prefazione inglese citi (@16) e mi rendo conto una volta di più di quanto sia pericoloso scrivere (per non parlare di tradurre quel che altri hanno scritto). Le parole di Uchiyama che citi sgorgano da una vita dedicata a smontare (facendo zazen) le suggestioni mentali e spirituali che hanno il potere di menarci lontano da quella che Uchiyama chiama “la realtà della vita – seimei no jitsubutsu”. Eppure sembrano fatte apposta per creare suggestioni: che sarà mai “ricercare la via del sé selflessy” (non mi azzardo a tradurre), che vuol dire “l’espressione del sé universale è una pratica che è eterna” o “concretizzare l’eterno, questo è il compito di fronte a noi”? In giapponese queste espressioni suonano meno suggestive e vaghe, i termini sono più quotidiani e di atmosfera più poetica che filosofica, e soprattutto quell’orrendo e inquietante “self – sé” non è altro che “io” detto in modo un po’ aulico. Ma mi chiedo se c’è davvero bisogno di questa terminologia, riportata specularmente da una traduzione piatta, o se non sia preferibile, anche traducendo, usare un linguaggio che possa riportare all’esperienza personale diretta invece di affidarsi ai voli delle parole assolute.
22 Maggio 2015 alle 6:59 pm
Ciao jf secondo me visto il tema della conferenza poteva essere interessante portare l attenzione sul concetto di interdipendenza, che per quanto ne so non ha corrispettivi in altre religioni. A me pare un aspetto veramente chiave specie quando ci sono in gioco beni come acqua, aria, CO2, che essendo di tutti non appartengono a nessuno, per cui si pensa di poterne abusare senza conseguenze
23 Maggio 2015 alle 8:31 am
In Equador sembra che non siano solo chiacchiere
23 Maggio 2015 alle 11:20 am
Ringrazio per @17 mym e per @20 Jiso.
Le vostre considerazioni sono pertinentissime.
Tradurre e scrivere presenta sempre un limite…e spesso non basta l’intuizione per andare oltre le parole che producono,distorcono, sviano.
Come comunichiamo?
23 Maggio 2015 alle 11:26 am
Nel senso che anche le “nostre” parole possono avere lo stesso risultato…
23 Maggio 2015 alle 11:28 am
@ 23: in ogni modo lecito, possibilmente. Altrimenti, se proprio ci stiamo comunicando addosso, potremmo usare qualche modo illecito, per fare il gioco più interessante.
Basta che ci siano una buona ragnatela e un tot di elefanti.
23 Maggio 2015 alle 1:13 pm
Ciao aa, tante sono le cose su cui poteva essere (più) interessante portare l’attenzione (@21) in occasione di quella conferenza: ormai è andata come è andata. Mi tengo prudentemente lontano dal concetto di interdipendenza parlando di buddismo, se con tale termine intendi pratītyasamutpāda: è una questione assai complessa, enunciata in modi differenti dalle diverse scuole buddiste (vedi per es. http://en.wikipedia.org/wiki/Prat%C4%ABtyasamutp%C4%81da) e parlarne con nonchalance genera più confusione che chiarezza, a parer mio. Comunque, quando ho affermato che dalla concezione enunciata nella Genesi sono scaturiti effetti che tutt’ora permangono, implicando che dalla cessazione di tale concezione anche gli effetti ne sarebbero depotenziati, penso di aver detto qualcosa di molto vicino a una delle più semplici e famose definizioni Mahayana di pratītyasamutpāda: “essendoci questo c’è quello, cessando questo cessa anche quello”. Certo questo vale anche per i cosidetti beni comuni, acqua, aria ecc. come per qualsiasi altro “fenomeno”, ma non mi pare abbia un senso specificatamente ecologico: indica il valore intrinseco delle cose, non il loro valore d’uso.
23 Maggio 2015 alle 4:05 pm
Nello @23, 24: a parte le battute (@25) delle quali qualche volta potrei fare a meno, quanto dicevo in @17 è simile a quanto esplicitato da jf in @20. Non è una critica del linguaggio in toto. Piuttosto, penso che usare frasi di monaci famosi, o comunque di altri, a volte rischia di esimerci dal parlare per esperienza, con parole nostre.
23 Maggio 2015 alle 4:26 pm
Penso, caro Nello, che la domanda creativa non sia “come comunichiamo?” (lo facciamo in mille modi, necessariamente, si comunica anche con il silenzio) ma “cosa comunichiamo?” – rispondo che secondo me comunichiamo limiti in movimento, nel senso che ogni comunicazione esprime il limite della sua potenza espressiva non in forma statica, come acquisizione finale, ma in forma dialogica, aspettando un’altra comunicazione che sposti quel limite. Per questo, come fa notare mym @27, è molto più “potente” una parola detta dalla nostra esperienza personale e diretta, che una lunga dotta citazione di modi di dire altrui. Questo appare chiaro quando si legge un testo in cui si mischiano citazioni e parole “fresche”. E’ uno dei problemi della traduzione: nel caso di Uchiyama che citi, le parole forti e genuine che per lui erano la comunicazione della sua esperienza, il limite del suo poter dire, diventano mosce e smorte se ripetute da altri “perché le ha dette Lui”. Ovviamente, non si deve dire per forza: se non si ha niente da dire, conviene tacere. Anche questa è comunicazione.
23 Maggio 2015 alle 4:54 pm
Ciao jf grazie. Personalmente ho qualche dubbio sul fatto che l idea della creazione sia l elemento principale nel rapporto molto problematico tra uomo e natura in occidente. l Europa medioevale era cristiana ma considerava le risorse naturali in modo molto diverso dalla modernità. Secondo me il punto di svolta fu la nascita dal pensiero scientifico. Poi non so quanto possa essere utile sul piano pratico questo approccio al problema, visto che comunque un cristiano, un ebreo od un musulmano non possono abbandonare l idea del mondo come creazione divina. Almeno mi pare molto dura…
23 Maggio 2015 alle 6:22 pm
Caro aa (@29) se pensassi che qualcuno, chiunque sia, non possa abbandonare un’idea, qualunque essa sia, altro che dialogo: non mi resterebbe che spararmi immediatamente.
Sono duro di comprendonio, ma che tu abbia qualche dubbio “sul fatto che l’idea della creazione sia l’elemento principale nel rapporto molto problematico tra uomo e natura in occidente” l’avevo capito, stai tranquillo. E’ che nel ricercare la causa base non so risalire più indietro: sono loro, quelli del Libro, a parlare di “bereshit”, “in principio”, e perché non dovrei prenderlo per buono? Che poi le cose si siano complicate e che da un paio di secoli la questione abbia esponenzialmente accelerato è evidente: ma un’esponente, per quanto grande, senza la base non combina niente.
24 Maggio 2015 alle 10:38 am
Premetto, cari Jiso e Yushin, che apprezzo al massimo le vostre considerazioni @27 @28 e anche altre. Queste le mie.
Innanzi tutto direi che “come comunichiamo”, include anche il cosa comunichiamo in qualche modo, e comunque non era mia intenzione essere creativo ma realizzativo, concreto.
Se uno scrive un libro vuole essere letto.
Quindi, è evidente che ritiene comunicabile quello che scrive. Al lettore la sentenza sulla fruibilità o meno dello scritto. E aggiungerei, se coloro che lo traducono in altra lingua sono suoi discepoli, penso si sforzino di fare un lavoro onesto.
Se altri citano quanto letto in quel libro è evidente che a lor volta pensano che quello che citano sia comprensibile, quindi fruibile nel suo contenuto.
Se altri ancora ritengono che il citante non abbia la comprensione di quanto citato e lo usi per accreditarsi inappropriatamente, è una eventualità possibile ma andrebbe verificata.
SE poi ancora, alla luce della propria esperienza, si ritiene di evitare qualsiasi terminologia specificante preferendo una forma dialogica non connotabile come di parte, va benissimo. Questa è una modalità relazionale raffinata e sottile e probabilmente la forma meno contaminante e più libera possibile. La dottrina buddhista comprende anche di liberarsi dal Buddha e dal buddhismo (spero che le “h” non irritino nessuno) per realizzarli nella loro verità.
Quindi, voi dite sostanzialmente, permettetemi di trarre ispirazione e sintesi dall’edizione Marietti del 1990 del vostro Bendowa: meglio scrivere Doghen con la “h” che citarlo! E questo per me ha una enorme valore e vi ringrazio e riprendendo il discorso, vale a dire che, anche se l’espressione personale è sostanziata in qualche modo (e la “h” lo era), non si può prescindere da ciò, non c’è nessuna possibilità di bypass citazionale che possa esimerci dall’esprimerci quali noi siamo senza paraventi citazionali.
Questo assunto tuttavia, ancora non statuisce che il citante possa “tradire” il citato nel senso che quanto da lui (il citato) detto “diventa moscio e smorto se ripetuto da altri” @28. Se il contenuto della citazione ha una sua “verità”, tale resta indipendentemente da chi la propone, qui stiamo parlando di parole tratte da un libro e non da un teisho. E comunque, anche se uno cita inappropriatamente qualcuno ed evidenzia una sua lacuna, forse sarebbe meglio chiedergli, cosa significano per te le parole di Uchiyama?
Non pensate che sia, l’esprimersi rispetto a un enunciato o citazione, il dare forma a quella interiorità personale che io citando voi, ho sintetizzato nel termine “Doghen”? Cioè, il dire, sulla citazione o qualsiasi altra cosa, non equivale alla “h” di Doghen?
Usare un registro linguistico attiene alla propria “cultura” e formazione, personalmente, ho grande rispetto e apprezzamento per il vostro che è una modalità e comunque penso non l’unica modalità.
I traduttori dal giapponese di quella citazione, Thomas Daitsu Wright, Jisho Cary Warner, Shohaku Okumura, sono tutti discepoli di Uchiyama, lo hanno tradotto o hanno sviato? O sono io che ho fuorviato? Per me, semplice zazenista, la citazione, aldilà dei sofismi lessicali è abbastanza chiara nella sua proposizione con tutti i £pericoli” interpretativi da voi sottolineati ed estensibili a qualsiasi cosa.
Resta questo punto che non voglio occultare o eludere, voi mi dite: Questo qui (io), come tanti altri, cita, enuncia, blatera, Tizio, Caio, Sempronio…ma lui chi è? Prego dire!
Qualcosa ho provato a dire.
Personalmente, trovo più indisponente il citazionismo cristiano, chi cita continuamente Dio. Dio di qua, Dio di là, Dio ha detto…,quelli li trovo indigeribili e molto più pericolosi di Uchiyama citato da chicchesia. Tuttavia, ognuno è libero di relazionarsi con gli interlocutori che vuole o gli toccano.
Personalmente, sono per affermare la mia, magari presuntuosa, adesione al Buddhadharma. Questo può irritare, precludere, fuorviare? E’ nella natura delle cose. Le “parole proprie”, sono tutte le parole, proprio tutte, anche quelle citate di altri diventano in definitiva “proprie”.
Nella risposta alla lettera di commiato di Jiso (del thread precedente), l’amico che gli risponde dalla Germania, dimostra con le sue considerazioni che si spostano dal tema oggettivo dello scritto che Jiso poneva, a considerazioni sul soggetto (Jiso) che le pone, di non avere capito appieno il portato dello scritto in oggetto.
La parziale comprensione, quando non la travisazione, sono sempre potenzialmente reali per chiunque e comunque. Non è così?
24 Maggio 2015 alle 10:57 am
Caro Nello, concordo abbastanza globalmente su quello che scrivi. Partendo dalle acca: l’acca a “doghen” faceva parte dello stesso discorso all’interno del quale consiglio di lasciar da parte quello che diceva Uchiyama (soprattutto se lo si è compreso) per dire la nostra esperienza con parole proprie. Il sistema Hepburn che translittera i due caratteri cinesi 道元 con “dogen” per imitarne la lettura giapponese, non solo è vecchio (1867), e pazienza, ma è fatto per l’inglese. Quando traducemmo Bendowa ci illudemmo fosse possibile traslitterare secondo l’uso italiano dei caratteri latini; lasciando da parte come superato il sistema Hepburn, perché non “parla” italiano. Ora mi illudo pensando che Uchiyama, una volta compreso, sia superato, da lasciar da parte.
Il fatto che Uchiyama non “parli” italiano è un problema che riguarda la sua giapponesità. Uchiyama non può prescindere dal suo essere giapponese, ovvero da una visuale profonda, costitutiva, irrinunciabile legata ad un tipo di spiritualità che lo porta a dire quello che i suoi discepoli traducono con “we concretely are universal self”. Noi, in quanto occidentali, e quindi anche offesi dall’eccesso di teismo della nostra cultura religiosa, dovremo (dovremmo?) parlare a partire da un diverso sentire spirituale.
24 Maggio 2015 alle 7:14 pm
@jf: capisco quanto scrivi, il fatto è che la fede in Dio è il punto centrale della vita religiosa e della spiritualità delle religioni abramitiche. Non tanto come adesione intellettuale ad un dogma o ad un credo, ma come un sentire profondo, che impronta tutta la vita della persona. All incirca è come se ti dicessero che il tuo problema religioso in quanto buddista è che non credi nel Dio di Abramo! Poi segnalo un problema di metodo: mi sembra piuttosto problematico attribuire i mali della cultura occidentale alla religione cristiana e ricondurre invece gli aspetti positivi (la democrazia, la liberta d espressione, i diritti individuali ecc) ad altri fattori, legati ad un evoluzione storica successiva. Mi sembra un modo di procedere schizofrenico, in un caso si sottolinea lo continuita nel secondo l evoluzione e la rottura. Non faccio riferimento al tuo testo in particolare, ma ai binari su cui si incanala generalmente la discussione su questo blog quando si discute di monoteismo e del suo rapporto con altri aspetti della cultura occidentale.
24 Maggio 2015 alle 8:09 pm
Faccio un esempio per spiegare cosa intendo. Io penso che il disinteresse per la storicità delle religioni darmiche sia uno dei fattori-certo non l unico-che ha portato alla prevalenza del totalitarismo politico in Asia. Ma da ciò non giungerei alla conclusione che per essere persone con una mentalità democratica bisogna smettere di essere buddisti, perché capisco che c è differenza tra la cultura di un paese e le religioni che l hanno plasmata. Non vedo perché applicare questo tipo di distinzione, io penso valida e sensata, alle culture asiatiche e non applicarla a quella europea. Inoltre se fosse davvero valido il principio per cui, essendo la creazione divina uno degli elementi che hanno portato alla scarsa valorizzazione delle risorse naturali, allora è necessario rimuovere il primo per modificare il secondo, seguendo lo stesso ragionamento bisognerebbe giungere alla conclusione che bisogna credere nel Dio di Abramo per avere una forma mentis umanistica, ed avere a cuore i diritti dell duomo, visto che questi ultimi sono valori dell occidente, che dipendono, anche se in modo remoto e certo non esclusivo, dal cristianesimo
24 Maggio 2015 alle 8:11 pm
Opps diritti dell uomo non del duomo…correttore automatico:-)
25 Maggio 2015 alle 9:04 am
Eppoi, scusate i post multipli, io penso che i “loro” con cui bisogna fare i conti, non sono i monoteisti, o i cristiani in particolare, ma l’elite di sociopatici che governa le multinazionali ed il corporate business, a cui credo non importi assolutamente niente della Genesi, perchè è interessata unicamente al proprio tornaconto nel brevissimo termine, essendo disposta a mandare in vacca l’ecosistema e con esso il resto dell’umanità, inclusi i prorpi figli, pur di guadagnare il milione di dollari extra.
26 Maggio 2015 alle 4:56 pm
Buona sera Jiso,
mi chiamo carlo, sono “nuovo”.
Ho letto con grande interesse il testo della conferenza di Lodi.
Al riguardo, ti vorrei per favore chiedere dei chiarimenti: Quando scrivi “qui si annulla la sofferenza che si genera nell’attrito fra me e ciò che è fuori o dentro di me”, intendi forse sottolineare l’importanza di non attaccarsi alle cose, cioè il senso di appartenenza che genera sofferenza?
Inoltre, i lombrichi: da questa, se non sbaglio, metafora, ho pensato che una persona sta bene nel momento in cui la coscienza personale non è incentrata sull’immagine che si ha di sé stessi, ma sul bene comune di ciò che ci circonda. Ma anche, ho pensato, che la metafora si possa riferire al lombrico come essere umano che in assenza di un culto svolge normalmente il proprio lavoro (qual’è?). Invece, nel momento in cui un culto ci dice cosa fare, questo lavoro viene svolto con difficoltà… Cosa intendi dire, se il lombrico avesse un’idea di sé, rimarrebbe paralizzato da un comando “esterno”?
Chiedo scusa per l’ignoranza sull’argomento, vorrei approfondire.
Grazie,
c
27 Maggio 2015 alle 11:40 am
Buon giorno, Carlo, grazie per le tue osservazioni.
Sofferenza è una parola molto difficile da scrivere, non è un solo concetto, un problema o un tema: è esperienza di ogni essere umano, perlomeno. Penso che ogni tanto vada pronunciata, con cautela, quando si parla di buddismo, il cui primo annuncio è la realtà della sofferenza e la cui promessa è la realtà della sua fine. Come parola è un termine generico, vuol dire tante cose, dolore fisico, perdita, angoscia, gelosia… Ho provato a dire quale radice della sofferenza il buddismo individua con la parola sanscrita dukkha, che si legge nei testi antichi, esprimendone il senso, anche etimologico, secondo la mia esperienza e comprensione: l’attrito penoso e usurante che la mia idea di me, soggetto consolidato e persistente, genera nell’impatto con le cose, a loro volta concepite come oggetti consolidati e persistenti, si tratti di eventi, pensieri, sentimenti. Attaccamento e senso di appartenenza sono prodotti di quell’attrito. 1/2
27 Maggio 2015 alle 11:40 am
2/2 Quella del lombrico è una metafora cui sono affezionato, si può usare anche per riparare a un torto che gli viene fatto in un testo buddista, in cui lo si prende in considerazione da un punto di vista autoptico, tagliandolo in due a meri fini speculativi (vedi @42 e @43 del post “Bentornato alla Stella”). Come tutte le metafore (e le affezioni) porta aiuto e impaccio. L’ho usata per dire che se valutiamo il compito cui siamo messi di fronte dalla vita e dalle nostre scelte in base all’idea che ci possiamo fare delle nostre forze, ci troviamo fra gli opposti rischi della megalomania e della paralisi, fra “ghe pensi mi” e “non ce la farò mai”. Se quell’animaletto si vedesse minuscolo e vulnerabile, come noi lo vediamo, di fronte al compito immane di ossigenare la terra, lo scarto fra le due misure lo paralizzerebbe. Come lo so, dirai, che lombrico non sono? Lo so, qui sta la metafora, perché se mi pongo di fronte all’obiettivo promesso della fine della sofferenza del mondo, e accollo il compito a me come mi penso, quando mai crederò nella realtà di quella promessa? Se invece mi metto all’opera scordandomi di me, è l’inizio del compimento.
28 Maggio 2015 alle 11:13 am
Ciao jf,
chiedo scusa per il ritardo nel rispondere, anche per aver subito usato la forma del “tu”. Non è mia intenzione mancare di rispetto.
Innanzitutto, grazie per le risposte.
A volte mi sembra che la sofferenza sia anche l’unica maniera per “svilupparsi” e “spostare” la percezione dell’individualità ad una collettiva. Sofferenza come causa, ma anche come mezzo essenziale di crescita del bene, collettivo.
Imparare a lasciare andare. E’ ciò (l’unica cosa?) che si può fare per diminuire l’attrito che si interpone tra l’immagine dell’interno (me) e quella dell’esterno (il mondo)?
Inoltre, la metafora mi è sembrata molto concreta. Soprattutto le ultime parole “Se invece mi metto all’opera scordandomi di me, è l’inizio del compimento”. Però, quando leggo “scordandomi di me”, non capisco, ma provo una rara sensazione. Si può spiegare concettualmente? Oppure, è questo il frutto dello zazen?
Grazie ancora,
cp
28 Maggio 2015 alle 5:12 pm
Ciao cp,
il tu va benissimo, per quel che mi riguarda, in questa sede, e non rilevo ritardi, meglio pensare con calma a quel che si dice e scrive. La sofferenza è causa benefica quando è “usata” bene per il bene, ma può pure essere solo peso che sprofonda. Per questo è bene, secondo me, parlarne poco e lavorare molto a imparare a lasciarla andare, come usiamo dire. Non so se sia l’unica cosa che si può fare, so che si può fare e che per me lo è.
Scordarmi di me, è un’altra espressione che a dirla più che raramente diventa impudica. Spiegarla concettualmente implica non farlo, è come parlare del silenzio: si può, perché no? a patto di sapere che quando ne parlo non lo faccio. Nel momento in cui mi scordo di me, non so di star scordandomi.
28 Maggio 2015 alle 5:28 pm
Grazie jf,
Una spiegazione concettuale chiara.
Di conseguenza, mi verrebbe solo da dire (se non sbaglio, simile a come mym ha suggerito in altri momenti), alcune cose si capiscono con la pratica e con la fiducia che in essa si ripone, non in maniera logica.
Grazie ancora per le gentili e belle risposte,
c
30 Maggio 2015 alle 10:27 am
Nello Zen esistono anche l’umorismo e il ludico…Jiso è affezionato al lombrico nella suo forma non autoptica, a me piace ricordare quel burlone di Joshu (Chao chu)che si mette le scarpe in testa e avrebbe salvato il gatto tagliato in due. Ci sarà sempre “chi taglia un gatto” e ci sarà sempre “chi si mette le scarpe in testa”.
Chi non fosse edotto sulla vita del monaco Joshu se lo vada a cercare perché merita la lettura.
30 Maggio 2015 alle 6:40 pm
Come no, caro Nello, ci sono nello Zen e per fortuna anche nella vita. Però, a parer mio, perchè sia davvero umorismo giocoso, deve poter far sorgere il sorriso sulle labbra di tutti i giocatori, vermi e gatti compresi: nel caso di Nanquan, che evochi, metafora o episodio che sia, il sorriso del gatto non lo vedo.
31 Maggio 2015 alle 4:46 am
@cp, 42
Tutto ciò che capiamo lo capiamo grazie alla logica, tanto è vero che la metafora dei lombrichi l’hai capita grazie ad una spiegazione. Non è logico invece il commento 44.
Breve storia zen
Un giorno un micetto fece apparizione nel tranquillo tempio di montagna. I monaci lo catturarono e nacque una disputa tra l’ala orientale e quella occidentale del monastero. Lottarono perché ciascuna delle parti voleva fare del micetto la propria mascotte. A un certo punto, il reverendo Nansen afferrò la bestiola per il collo, e levando in alto un falcetto, disse: “Se qualcuno di voi sa darmene il motivo, risparmierò questo gattino, altrimenti l’ucciderò.”
Nessuno rispose. Allora il reverendo Nansen decapitò il micio e ne gettò via il cadaverino. A sera, fece ritorno il capo-corso dei discepoli, Joshu.
Il reverendo Nansen gli riferì l’episodio e gli chiese la sua opinione. Joshu, senza perdere un attimo, si sfilò i sandali, se li mise sul capo e se ne andò.
Disse allora Nansen con rammarico: “Se tu fossi stato qui oggi, avresti salvato la vita a quel gatto.”
Più o meno questa è la storia, famosa soprattutto per la difficoltà d’interpretare il comportamento di Joshu.
Secondo il venerabile maestro non era un problema poi tanto arduo.L’uccisione del micio da parte di Nansen simboleggia la distruzione delle illusioni del sé, e lo sradicamento di pensieri e fantasticherie fallaci. Annichilendo la propria sensibilità, il reverendo aveva mozzato il capo del gatto e insieme aveva troncato ogni contraddizione, opposizione o conflitto tra il sé e il fuori di sé, tra proprio ed altrui. Se chiamiamo l’azione di Nansen “della spada che uccide”, quella di Joshu è “della spada che dona la vita”. Dimostrando un distacco così grande da mettersi addirittura in capo i sandali – una cosa cioè insozzata dal fango e tenuta per vile dagli uomini – Joshu aveva realizzato l’illuminazione.
@jf è notorio che i gatti non sorridono.
31 Maggio 2015 alle 4:47 am
Questa storia del micio decapitato mi ispira una definizione * logica* di Dio.
Dio è l’ “annientante” e ciò perché se si esamina il concetto di Dio viene fuori che egli è ‘niente’ non davanti alla logica delle definizioni, ma perché annienta continuamente ogni determinazione, perché è l’ “annientante”. Ciò che ci è possibile stabilire è solo un diritto alla vita illimitata, un diritto alla propria conservazione, restituendo a Dio il diritto alla morte.
Se, come scrive mym ne il ‘Dialogo interreligioso come riconquista della propria religiosità’, per religione dobbiamo intendere non un culto ma “edificazione spirituale, costruzione di una limpida presenza interiore”, pag 1, allora la nostra attenzione dovrà essere rivolta alla elaborazione razionale della sfiducia. Senza diffidenza l’edificazione non regge un momento. Ma la diffidenza non è il contrario della fede, non è la fede rovesciata come un guanto.
Siccome lo stato di sfiducia in Dio appartiene allo stato di empietà, è l’empietà che diventa il sentimento fondamentale a cui si deve riportare la sfiducia. Il teologo maledetto non si fida di Dio e non si fida in maniera così assoluta che su questo “non mi fido” edifica, per così dire, la sua Chiesa.
Domandarsi che cos’è la sfiducia in Dio però non ha niente a che fare con l’ateismo. L’empio non dice “non c’è Dio”. Dice che ne diffida; per questo edifica.
31 Maggio 2015 alle 4:49 am
ps: la cosa illogica, per non dire “surreale”, è il dialogo con la chiesa cattolica. è semplicemente incredibile che, ad esempio, le alte gerarchie ecclesiastiche continuino a contrastare Rafael Correa, il quale, per la cronaca, è al suo terzo mandato presidenziale: rieletto nel 2013 con il 57% delle preferenze.
31 Maggio 2015 alle 6:48 pm
Ciao HMSX, Rafael Correa, chi era costui?
La diffidenza, ovvero il dubbio, non è obbligatorio che riguardi Dio. A meno che non ce l’abbiano inculcato come una spina così a fondo da non poter prescindere da quel pensiero. La diffidenza, il dubbio servono per sgretolare tutti gli idoli.
Il dialogo con i cattolici è possibile, quello con la chiesa cattolica è… come discutere con Equitalia.
31 Maggio 2015 alle 6:54 pm
Però.
Siamo a 50 commenti ed ancora nessuno ha chiesto a jf che cosa diamine sia “lo spirito della natura”.
Banda di tontoloni!
Invece di concionare della diffidenza, un po’ di messa in pratica…
1 Giugno 2015 alle 12:59 pm
Buon dì,
Mym, penso tu abbia ragione.
Jf, qual è, cos’è, lo spirito della natura?
Sulla base di tale domanda, vorrei comunque scrivere poche righe di riflessione.
Ho immaginato che lo spirito della natura possa essere lo spirito umano che, a partire da una base di “tabula rasa”, inizia e continua ad essere plasmato dall’educazione culturale e da altri fattori (se non ricevessimo input esterni, rimarremmo noi tabula rasa?). In particolare, ricollegandomi ai quattro verbi della narrazione biblica, ho pensato, generalizzando a dismisura, che una persona di matrice cristiana possa essere una persona legata ad una concezione comunitaria alla base (il culto che vede Dio su un piano e gli – altri? – esseri umani su un altro), ma che ha un obiettivo individuale, cioè la salvezza dell’anima propria. In questo caso, immagino una piramide. Al contrario, una piramide capovolta, il buddismo, secondo la mia concezione, cioè lo sviluppo dell’individuo in sé per il bene comune. Tale riflessione anche per mezzo della ricerca “Riding the Waves of Culture” di Trompenaars e Hampden-Turner, in cui si individua uno sviluppo della persona verso uno dei poli di un continuum, cioè individualismo, o “comunitarismo”. Seppur oggi i non credenti ed i non praticanti siano in percentuale relativamente alta all’interno della popolazione occidentale (se non sbaglio, la ricerca riporta questo risultato), la religione plasma comunque la cultura, dalla quale nasciamo e ci sviluppiamo. Invece, secondo il parere di un’amica proveniente dalla Cina, la cultura orientale è più legata alla natura. Quindi, la mia concezione dello spirito della natura riguarderebbe lo sviluppo dello spirito umano.
So di errare già dal momento, forse prima, in cui generalizzo, tuttavia spero che riportare tali parole possa essere utile a capire bene dove sbaglio.
1 Giugno 2015 alle 3:10 pm
> Cos’è lo spirito della natura?
A me pare di aver risposto al commento 3, a proposito della Fonte Q, ovvero Dio, che secondo Spinoza sarebbe la natura (Deus sive natura). Cioè, come dice jf, «“lo spirito della natura” non è una forma di animismo, di panteismo, di spiritismo… Sono le cose, ogni cosa, a essere spirito, vita materiale e spirituale: sia le cose animate, che le cose inanimate»; – giustappunto l’energia che permea la materia.
Schelling ne La filosofia della Natura, sostiene che la la Natura è prodotta da una intelligenza inconscia che si sviluppa e si manifesta in gradi sempre più alti, dalla materia al livello organico, fino a giungere all’uomo, in cui l’intelligenza raggiunge la consapevolezza. Egli sostiene che la Natura si realizza attraverso l’incontro e lo scontro tra due forze fondamentali: quella di attrazione e quella di repulsione, che danno luogo ai vari gradi della Natura, sempre più elevati. Il principio della filosofia di Shelling è che la Natura è lo Spirito visibile, lo Spirito è la Natura invisibile, intendendo dire che la Natura non può essere concepita come un meccanismo, ma come un organismo vivente. L’organismo, infatti, si presenta non come una somma meccanica di parti staccate, ma come una unità che ha in se stessa il principio di sviluppo e la necessità delle relazioni delle parti col tutto.
Siccome mi piacciono le distinzioni, torno a Spinoza che distingue la natura naturata – quella che possiamo conoscere – dalla natura naturans, eternamente inconoscibile.
1 Giugno 2015 alle 3:11 pm
@mym
È vero che la diffidenza, il dubbio servono per sgretolare tutti gli idoli. L’uomo produce credenze proprio per evitare il dubbio, che genera inquietudine. La credenza vuole evitare il dubbio mediante una approssimazione del reale che non ammette la messa in discussione.
Ora, la sfiducia è proprio la conseguenza della messa in pratica, quando l’entusiasmo etico non trova più materia e l’agire è diventato impossibile.
«Tutto ciò che faccio è lavarmi e vestirmi, uscire da casa, aprire l’ombrello quando piove, e per tutta relazione con l’altro chiedergli una sigaretta. Dov’è la prassi che doveva accudirmi?», così parla il disperato davanti all’agire.
Egli edifica in senso spirituale proprio perché non ha totalmente fiducia nell’azione.
1 Giugno 2015 alle 4:07 pm
@cp 50: davanti a uno che mi cita Trompenaars e Hampden-Turner con aria di nulla (non ci sono nemmeno sulla wiki.it, occorre espatriare per trovarli!) … la mia mano corre alla fondina 😉
Non son sicuro di aver capito tutto, però il buddismo con “lo sviluppo dell’individuo in sè per il bene comune” non ci azzecca. Sembra più un programma dell’AGESCI o dei Verdi-per-il-comunismo.
@hmsx 51: sei più teista tu di mia nonna…
2 Giugno 2015 alle 9:34 am
Non so nulla dello ‘spirito della natura’, ma – del passo di Jf – una chiave di lettura intrigante al proposito mi pare di individuarla nella frase: “Noi siamo abituati a pensare di essere nati nel mondo in un dato momento storico….e pensiamo di essere venuti a posizionarci, a occupare un posto in un mondo che era già lì, strutturato e definito, prima che noi nascessimo.” … e seguenti
“Qui, nell’esperienza diretta, nuda e cruda, io sono vivo nel mondo e il mondo vive del mio essere vivo”.
2 Giugno 2015 alle 10:42 am
Ciao Doc, qual buon vento?
jf è davvero intrigante, anche per questo non bisogna fargliela passar liscia.
Se il mondo non c’era già, chi mi ha visto nascere, dov’era?
Sarà stato nel mondo dello spirito della natura?
E gli altri?
Va a finire che c’è un via vai che neanche all’ora dello struscio…
2 Giugno 2015 alle 11:28 am
Ciao mym.
E’ il vento dello spirito, ovviamente, complice una mancata gita in montagna.
Se il mondo c’era già, dov’è adesso tutta quella gente?! avrà solo cambiato scompartimento (che ressa in ‘sto treno)? Sarà scesa? e in quale spirito della natura è finita?!
Dicono che la memoria a volte sia la cosa più reale…( ma io non ci credo)
2 Giugno 2015 alle 11:36 am
Capito.
Certo più igienico che mettersi un sandalo fangoso in testa.
Quando scompare il bersaglio nessuno si ferisce.
2 Giugno 2015 alle 4:26 pm
> @hmsx 51: sei più teista tu di mia nonna…
Questa fa molto ridere. In verità sono stato per molto tempo un aspirante deicida, nel senso che per anni ho preso sul serio le seguenti parole di Zarathustra « Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso! », però mi sa che Dio non può morire. C’è un lungo passo ne la Volontà di potenza dove Nietzsche accenna alla questione dell’empietismo, però poi non approfondisce.
Ma lo sai che Spinoza fu ostracizzato e accusato di ateismo? La ragione è che il Dio di Spinoza è un dio oggettivo e non personale. Talmente oggettivo che Einstein era solito dire: « Io credo nel Dio di Spinoza che si rivela nella ordinaria armonia di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del fatto e delle azioni degli esseri umani» .
Ad ogni modo, continuo ad indagare…
2 Giugno 2015 alle 4:35 pm
Certo che se Dio fosse in tutti i modi (e solo in quelli) in cui lo pensate, lo volete, lo odiate, lo preferite… sareste in un bel guaio.
Speriamo bene.
E continuiamo ad indagare, alla fin fine non se ne sa nulla.
2 Giugno 2015 alle 6:30 pm
Mi dichiaro apertamente ateo, così mi tolgo dai guai.
Avevo scritto altrove su questo blog: “mi chiedo se la menzogna non sia qualcosa di divino; se il valore di tutte le cose sia nel fatto che sono false. Se la disperazione non sia la più pura conseguenza di una fede nella *divinità della verità*… Se proprio il mentire e il falsificare (trasporre in falso), l’introduzione di un senso, non sia un valore, un senso, un fine; se non si debba credere a Dio, non perché è vero, ma perché è falso.”
Cioè, Dio è un errore necessario che serve a rendere pensabile ciò che non è. Il problema è che quando un autore fa il nome di Dio, ecco spuntare il prete che ci dice come lo dovremmo intendere. C’è addirittura un prete che fa i viaggi in Giappone per lo zazen, e insomma è arrivato a dire che Nietzsche era cristiano…
Invece di fare lo scettico, perché non dici apertis verbis quello che non ti convince dell’intervento di jf? O almeno dacci un indizio? Ah già, l’hai detto. Allora indago, alla fin fine ne sapremmo un po’ di più, sempre troppo poco però.
2 Giugno 2015 alle 6:58 pm
Ottima idea quella del continuare ad indagare tenendosi dalla parte del saperne poco. Che non è mai troppo, anzi: meno se ne sa …
Lo spirito della natura è una cosa di jf, qualcuno (vabbe’, sono in flagranza: ci ho messo lo zampino) lo ha interrogato (cp @50) ora, se vuole, la palla è nella sua metacampo.
Dichiararti ateo non ti salva dal teismo ed è la posizione meno conveniente: rischi l’inferno e non concorri neppure per un posto in paradiso.
Secondo chi si intende della faccenda l’unico errore necessario è impicciarsi quando qualcuno si infila in un guaio e non c’è nessun altro che possa fare (o disposto a fare) l’errore al tuo posto.
2 Giugno 2015 alle 7:08 pm
Quella storia di Nansen (pron. jap. per Nanquan) e del gatto tagliato in due che HMSX riporta (@45 e segg.) la si può leggere in più di una raccolta di kōan cinesi, è oggetto di innumerevoli commenti ed esegesi. Mi permetto di aggiungere che trovo la storia inverosimile come episodio e imbarazzante come metafora. Inverosimile la contesa fra i due gruppi di monaci, la reazione dell’abate rispetto all’incolpevole oggetto del contendere, lo svolgimento dell’assemblea plenaria, la gestualità dell’esecuzione (non è così semplice tagliare un gatto in due con un sol colpo). Ma anche prendendo in considerazione la metafora, qualcosa non torna. Pare la versione dark della storia di Salomone, il neonato e le due madri: quella andata storta. Nanquan si ficca da solo in un vicolo cieco, si mette nelle condizioni di commettere un delitto, premeditato e gratuito, per futili motivi, e non ne sa uscire. Che non sia contento di sé e di come è andata lo dimostra l’appendice della storia, quando chiede a Zhaozhou (jap. Jōshū), che non c’era, di togliergli le castagne dal fuoco, dopo che son già bruciate. Molto strano un kōan su due diversi piani temporali, il gesto di Jōshū non è congruo rispetto all’accaduto stante che sapeva già com’era andata a finire e non è messo sotto pressione dall’evento. Dōgen si occupa della vicenda (Zuimonki 1,6 nella versione corrente) e, pure lui fuori tempo massimo, fornisce alcune risposte che, tutte, salvano il gatto. Salvare capre e cavoli è una delle funzioni dei kōan… o no? Quanto alla spada che dà la vita e la morte, la lascio nel fodero: con quell’alibi troppe teste sono state tagliate nella Cina occupata dai Giapponesi nel recente passato.
I gatti, è notorio, non sorridono (a parte lo stregatto): non per questo è lecito tagliarli in due.
3 Giugno 2015 alle 1:12 am
Allora, caro cp @50, su pregevole assist di mym mi chiedi: qual’è, cos’è lo spirito della natura? La risposta sintetica è: non lo so. Mi dirai: ma allora, perché evocarlo? Ecco, assomiglia un po’, formalmente, alla storia di Nanquan alle prese col gatto, nel senso che anch’io mi son messo nei guai da solo, per futili motivi. Ho buttato giù, su richiesta, un titolo provvisorio della conferenza, facendo balenare, per attinenza con il tema del festival, l’idea di un’alternativa fra natura creata e spirito della natura e per di più suggerendo nel sottotitolo un legame fra il secondo e la “visione buddista orientale”: una leggerezza espressiva di cui mi sono reso conto man mano che scrivevo il testo, dato che la cosa in quei termini non funzionava, ma ormai era tardi per cambiare il titolo. La cosa non poteva funzionare perché quello non è un mio argomento, non sono le cose che conosco, di cui mi sta a cuore parlare e di cui credo di avere qualcosa da dire. Come avrai notato, nel discorso mi guardo bene dal dire cosa sia questo spirito della natura, da qui la tua/vostra domanda, suppongo. Certo c’è, nell’espressione “spirito della natura” l’eco spinoziana ed einsteiniana che HMSX rileva in @51 e che anch’io avevo in mente, usandola, insieme a un riflesso della concezione spirituale della natura propria della sensibilità giapponese – e va bene, ma non ne so abbastanza da poterne parlare e inoltre tutto questo con il buddismo non c’entra: il discorso quindi è rimasto lì, a mezz’aria, indefinito, ma dando adito al possibile fraintendimento che l’alternativa alla concezione della natura creata sia un non meglio definito spirito della natura, che avrebbe a che fare con il buddismo. Un errore di cui sono dispiaciuto, ringrazio dell’occasione di questo parziale chiarimento, spero che questo punto debole non infici altre parti del discorso che invece riconosco più mie.
3 Giugno 2015 alle 8:58 am
@63: grande jf!
@62: molto sensato quello che scrivi. Ma il gesto di Nansen con il buon senso non ci azzeca, per cui si rischia di buttar via l’acqua assieme al gatto. Dogen critica l’azione di Nansen sul piano del buon senso ma riconosce anche un piano diverso, parla infatti di coincidenza tra azione criminale (quella che con il buon senso si può ridicolizzare) e azione del Buddha. Zhaozhou, alias Joshu, si limita ad interpretare il caso con un’altra azione apparentemente insensata: è un altro tipaccio “capace” di tagliare gatti. E non discute l’altro piano (quello del buon senso). Come tu stesso ricordi, quella storia compare varie volte nella tradizione cinese, se fosse stata liquidabile con il solo buon senso sarebbe scomparsa. Nella non breve vita a contatto con personaggi del mondo dello zen, ho assistito più di una volta ad atti, prese di posizione apparentemente del tutto insensate e che -lì per lì- con il buon senso ho criticato. Salvo poi, sempre, riconoscere col tempo che le ragioni irragionevoli erano condivisibili, e preponderanti. In tutti quei casi c’è sempre stato (almeno) un poveraccio, un “gatto”, che fu seriamente ferito.
Non sto parlando della logica del risultato: quelle azioni non le giudicai (giudicammo?) poi valide perché portarono a buone soluzioni: alcune portarono disastri.
Ma a un certo punto si aprì l’opportunità di vedere oltre il gatto.
3 Giugno 2015 alle 10:34 am
@64: Vero, mym, so di cosa parli, ho ben presenti casi concreti di cui sono stato anch’io testimone partecipe. E, come dici, col (non)senno di poi riconosco quelle azioni come lampi di grazia. Ma non è solo buon senso quello cui mi riferisco: anche sull’altro piano, credo si debba trovare il modo di non uccidere il gatto, non per una proibizione morale o per la logica del risultato (il gatto prima o poi muore comunque e sul quel piano non è forse né vivo né morto) ma per evitare il rischio che i “caduti” possano addure la ferita ricevuta come motivo (alibi?) per allontanarsi dalla via su cui quella botta invece li avrebbe dovuti riportare. E suppongo sia anche questa la preoccupazione di Nansen nel chiedere anche a Joshu. Fra le varie “soluzioni” postume che Dōgen propone, la più intrigante 😉 a parer mio è la seguente: “Ai monaci che non trovano parola, a lungo senza risposta, avrei detto: ‘L’assemblea già così parla’. E avrei lasciato andare il micio” E aggiunge: “Un anziano [Yunmen Wenyan, alias Unmon Bun’en] dice: ‘Quando l’agire illimitato si manifesta qui, non c’è regola predeterminata’”. Insomma, anche sul “altro piano” forse si può far sempre meglio.
3 Giugno 2015 alle 10:45 am
Zì zì, tutti presi a salvare il gatto, e il lavoro sporco non lo vuol mai far nessuno.
E il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.
Non si tratta di giudicare la liceità dell’atto di Nansen.
È grazie a una cappella di quelle dimensioni che siamo ancor qui a parlarne.
3 Giugno 2015 alle 11:13 am
“È grazie a una cappella di quelle dimensioni che siamo ancor qui a parlarne”: questo è poco ma sicuro.
Ma la porta ai saccenti l’ha aperta lui, chiedendo a Joshu in seconda battuta e riaprendo la partita, fino ai giorni nostri.
3 Giugno 2015 alle 11:25 am
Vedere la cappella è facile.
Più difficile è vedere l’apparente contrario.
Quello che Dogen riconosce essere l’azione del buddha.
Nansen era -anche- un uomo e Joshu lo ha assolto, riconoscendo solo l’azione del buddha.
3 Giugno 2015 alle 11:45 am
Più difficile ancora è vedere i due apparenti contrari nello stesso agire: l’azione di buddha nella cappella e la cappella nell’azione di buddha, compresenti e separati, chiamandoli con il loro nome.
3 Giugno 2015 alle 11:51 am
Adesso pare tutto facile, anche il difficile.
Ma siamo partiti da molto distante.
3 Giugno 2015 alle 12:26 pm
🙏
3 Giugno 2015 alle 5:27 pm
@mym, 61
“L’anima che va all’inferno vuole restarci” 🙂
Il un guaio è questo: ho scoperto che l’empietismo è un’apologia del teologo maledetto, non del bonhomme che guarda Dio con occhi libidinosi. Questi è un essere lascivo. “Dio dà la parola anche ai porci” dice pieno di riconoscenza. Nell’altro c’è una grande calma, una forte risolutezza, la sicurezza che Dio non ‘esisterebbe’ se non esistesse il teologo. Chi scopre che il teologo ‘esiste’ fa sicuramente una scoperta maggiore di quella del teologo che scopre soltanto che esiste Dio. Dove per teologo deve intendersi un tipo di esistenza, non solo una professione;- diciamo un’ abitudine a pensare Dio.
Un altro guaio è Nietzsche… Sebbene sia passato alla storia come un filosofo, egli era un antifilosofo, e, soprattutto, un genio religioso. Se l’ateismo di Spinoza è freddo (fa il nome di Dio, ma era uomo del ‘600! anche Giordano Bruno e Vanini fanno il nome di Dio e sappiamo come è andata a finire…), è stato Nietzsche a portare i valori tipicamente religiosi, cioè di entusiasmo, di sublimità, di misticismo, alla laicità.
3 Giugno 2015 alle 5:28 pm
Il kōan… è esemplare. Yukio Mishima ha scritto un romanzo, Il padiglione d’oro, Mondadori, 1986, su di questo kōan. Il protagonista dapprima vuole prendere i voti monastici, poi raggiunge la “liberazione” incendiando il tempio.
Nansen ha agito secondo karma, cioè ha annullato la coscienza individuale nell’azione pura. Magari Nansen aveva avuto una brutta giornata, e non aveva pazienza di sopportare una ridicola lite. Per questo Jōshū è illuminato, perché non glie ne fotteva proprio dell’intera situazione. Ancora la costante dell’annullamento della coscienza individuale.
Esempio: “quando faccio zazen, non sono capace di non pensare a niente, ma posso pensare a cose molto sceme”… invece, quando devo tagliare la testa a un gatto, non penso a niente. Nel caso fossi affamato, infatti, non esiterei a tagliare un gatto in due.
3 Giugno 2015 alle 5:34 pm
Caro Hmsx, che bravo prete saresti stato…
😛
3 Giugno 2015 alle 5:50 pm
Scusate, ma “i due apparenti contrari nello stesso agire” @69, cosa sintetizzano? Se possibile precisare un po’ di più, grazie.
E’ evidente che da Joshu a Dogen sono passati alcuni secoli…così come nel concetto di “tempo” espresso da Nagarjuna e ripreso ed evoluto da Dogen circa 1000 anni dopo in Uji…
E’ evidente che Dogen non può che “tagliare il gatto in uno”, quindi non tagliarlo.
Anche il Cristo, mi sembra abbia incinerito un albero…
3 Giugno 2015 alle 5:59 pm
Ciao Nello.
Oggi il setaccio è stretto…
A volte jf pare che vada un filino lungo con le parole.
Sì, il Cristo ha fatto seccare un fico che non gli dava frutti fuori stagione, ha fatto cadere in mare 2000 maiali…
Se davvero si applicasse il detto “chi è senza peccato scagli la prima pietra” penso che si potrebbe dormire all’aperto nella massima tranquillità.
3 Giugno 2015 alle 6:12 pm
Quello che si evidenzia nella storia di Joshu resta, nel senso che pone quello che è necessario porre. Cosa, oggi, è rilevante di quel koan? Le letture dello stesso, come già indicato, possono essere molteplici ed avere un portato riguardante più piani.
La giusta azione è in sé un koan, oppure tutto è koan.
“Quando il monaco ebbe finito di pulire e sistemare il giardino del tempio chiese al maestro se il lavoro svolto fosse stato corretto. Il maestro rispose, non ancora, e scosse l’albero facendo cadere le foglie dove il monaco aveva pulito”,
la sintesi della storia è mia ed è più o meno quella. Quindi, giusto non giustificare l’errore…ma “c’è sempre una coda…”
E comunque, questa esegesi sul gatto e sul lombrico, mi è piaciuta.
3 Giugno 2015 alle 6:18 pm
Non so, dopo la prima volta, temo che anche tagliando la testa a un gatto si possano pensare cose molto sceme. Probabilmente l’unica testa tagliando la quale siamo sicuri di non pensare a niente è la propria.
3 Giugno 2015 alle 6:29 pm
I due apparenti contrari nello stesso agire, di cui in @69, sono il taglio del gatto come delitto (o peccato, o cappella) e come azione di buddha. Ho usato “apparente contrario” riferendomi a mym @68.
3 Giugno 2015 alle 11:11 pm
@jf, 78
> temo che… tagliando la testa a un gatto si possano pensare cose molto sceme.
No, è proibito pensare a cose sceme. Il sangue fa molta impressione.
>l’unica testa tagliando la quale siamo sicuri di non pensare a niente è la propria.
Non so, Vercingetorige, ad esempio, pensò al suo popolo.
@Nello, 77
È vero che le letture del kōan sono molteplici, ma al contrario delle interpretazioni, la spiegazione è gelosa.
4 Giugno 2015 alle 10:13 am
@hmsx: “la spiegazione è gelosa” mi perplette. La gelosia richiama conflitto, timor di perdere, afferrare, insomma tutto ciò che impedisce di poter vedere un koan con sufficiente chiarezza da darne una spiegazione. Togliere le pieghe, porre in piano, apertamente.
4 Giugno 2015 alle 11:02 am
@HSMX80
Sarà anche proibito, ma dubito, per fare un esempio, che Elia, il profeta, che scannò quattrocentocinquanta profeti di Baal di sua mano, un dopo l’altro (1Re18,40) non abbia in quel lasso di tempo pensato almeno una scemenza: l’operazione richiede svariate ore. Per tacer degli addetti alla ghigliottina ai tempi d’oro di Marianna. Il sangue non basta a lavar via i pensieri.
4 Giugno 2015 alle 11:20 am
@mym, 81
Pensare non mi ha mai spaventato. Sento però che scrivere è il mio vero problema. Mi si è formato un concetto di scrittura che è tutta una cosa con ciò su cui vado via via riflettendo. Mi sembra per la verità che ciò che vado scrivendo non sia semplicemente scrittura. Mi sembra che tuoni ma che a volte rasenti il silenzio. In realtà deve essere proprio così: un misto di silenzio che desti silenzio prima di tutto in me stesso, poi un rumore che supera il tuono. I “libro” mi spaventa, eppure lo spirito della narrazione aiuta.
4 Giugno 2015 alle 11:25 am
@hmsx, 83: quando ti libri nel tuo cielo ti perdo di vista.
4 Giugno 2015 alle 11:45 am
@jf,
Grazie.
Anche se “lo spirito della natura”, come ho inteso, non è stato concretamente definito, mi sembra comunque di capire che quest’ultimo e “natura creata” non siano due elementi in contrapposizione, ma che il primo sia l’origine dell’altro.
Intanto continuo a leggere con interesse e simpatia i commenti di tutti.
Buona giornata.
4 Giugno 2015 alle 12:35 pm
Direi che sono due diversi modi di vedere e descrivere la realtà, da cui derivano diverse concezioni del posto e del ruolo dell’uomo nella natura.
5 Giugno 2015 alle 11:22 am
Grazie jf @79.
E’ bello quanto dici perché coincide con la forma più compiuta del PDNC (principio di non contraddizione)cioè, l’affermare un “contrario” è possibile solo perché esiste appunto il “contrario”.
Per HMSX, c’è un termine “proibito” nello Zen ed è “illuminazione”.
5 Giugno 2015 alle 1:15 pm
Caro Nello, il principio di non contraddizione mi ha sempre un po’ confuso, fin dai tempi del liceo – inoltre c’è gente molto suscettibile al riguardo, un tizio ha bruscamente interrotto i rapporti perché mi ero permesso una facezia sul tema. Me ne sto.
5 Giugno 2015 alle 10:18 pm
@mym: siccome i cantanti hanno sempre ragione la dico così: “Che fai, se sbagli da solo… in due più azzurro è il tuo volo, amico è bello, amico è tutto, è l’eternità, è quello che non passa mentre tutto va … il più fico amico è chi resisterà, chi resterà, chi di noi resisterà”. (Renato Zero, Amico).
Gilles Deleuz e Feliz Guattari, in Che cos’è filosofia, Einaudi, 2002, sostengono che la grande scoperta greca non sia la filosofia ma l’amicizia. Per gli autori la Grecia classica ha superato la figura del Saggio per confrontarsi con quella dell’Amico: cioè qualcuno che non possiede il vero, ma lo ricerca pur essendo convinto della sua irraggiungibilità. ( cfr Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte prima, Dell’amico)
5 Giugno 2015 alle 10:20 pm
@ cp, 85
Ben detto. Considera che l’Ehica more geometrico è scritta in latino, dunque la “natura creata” è un prodotto tardo. Spinoza, dopo aver passato il pomeriggio ad uccidere ragni (era un po’ sadico), annota sul suo diario:
“L’uomo è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile. Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando”.
Recentemente ho letto due libri che hanno fissato un sentimento che non riuscivo a esprimere compiutamente. Il primo si intitola Critica della vittima, il secondo Stato di minorità; l’autore di entrambi è Daniele Giglioli. Si tratta di due pamphlet non troppo lunghi. Specialmente Stato di minorità, Laterza, 2015, cerca di capire come ci siamo ritrovati in una società in cui l’azione politica è “sentita come impossibile” perché “ineffettuale, senza esito, svuotata di ogni concretezza”, dove l’impotenza è tecnicamente e giuridicamente sancita.
Il disegno di legge sui reati ambientali approvata dal Senato della Repubblica italiana a marzo è un bivio importante. Inserisce nel codice penale un nuovo titolo dedicato ai delitti contro l’ambiente, cioè punisce con la reclusione “da 2 a 6 anni e la multa da 10.000 a 100.000 euro chiunque, abusivamente, cagiona una compromissione o un deterioramento, significativi e misurabili: delle acque o dell’aria o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo e di un ecosistema, della biodiversità, della flora o della fauna”. (art. 452-bis ).
È una buona legge, penso però che in tema d’ambiente dovremmo essere radicali e aderire al modello proposto da Rafael Correa.
6 Giugno 2015 alle 8:09 am
Hmsx @89-90: grazie. Però la filosofia greca arriva tardìn con la valorizzazione dell’amico, il kalyanamitta/kalyanamitra era cosa fatta dal V-IV secolo a.C. tra i buddisti e prima ancora tra i jaina.
6 Giugno 2015 alle 9:33 pm
“L’uomo è la specie più folle: venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile. Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando”.
Secondo me, belle parole.
Penso che, se si identificasse Dio e/o dio sulla vita, cioè la pianta, le scimmie – quasi – senza pelo (noi, cfr. Morris) e gli altri animali, anziché esternarlo sull’immagine, ci potrebbe essere sia nello spirito della natura, sia nella natura creata, un approccio diverso, di “rispetto reciproco”. Se non sbaglio, come scrisse y, siamo “tutti sullo stesso piano, ma omologati in maniera differente”. Tutto ciò che “contiene” il flusso vitale (Dio, dio) è come se facesse parte di un unico corpo. Questa concezione, secondo me, potrebbe essere una base per la sostenibilità della natura creata. Riconoscere lo spirito della natura nella natura creata.
6 Giugno 2015 alle 9:54 pm
Nell’ambito del tema “Condividere la terra, condividere risorse” (generalizzo scrivendo “sostenibilità ambientale e sociale”), forse è innanzitutto necessario un cambio “di mantalità”, anziché pratico. I piani di sviluppo sostenibile dovrebbero già essere stati progettati da chi di competenza all’interno dell’UE, ma non vengono messi in atto per un motivo economico. Penso, invece, che sia una questione di priorità e che alla base manchi un modo di pensare che abbia l’immagine dell’interno (io) e dell’esterno (tu, egli, NOI, voi, essi), appunto, sullo stesso piano.
7 Giugno 2015 alle 6:37 pm
Sinceramente in queste dotte disquisizioni la mia mente si perde… quello che vorrei però comunicare a margine di queste, è uno stato d’animo che ho provato e che provo, nel leggere l’ultima parte dell’intervento di JF: una sorta di ‘commozione’ nel percepire la piccolezza/grandezza dell’ essere umano che, volendo, ‘può’ vivere con serenità in questo mondo.
La strada indicata mi sembra chiara nella sua ‘semplicità’; spesso, a volte, èdifficile da mettere in pratica, forse perchè non c’è un punto di arrivo che superato faccia scomparire i problemi. Talvolta, si cerca la soluzione nelle parole espresse o meno: sembra che capire il perchè e il come di una cosa sia non solo utile ma anche risolutivo.
Il ritornare continuamente alla pratica come azione quotidiana credo permetta anche di ‘comprendere’ più profondamente gli insegnamenti di coloro che ci hanno preceduto nel seguire la via di Buddha.
Grazie
8 Giugno 2015 alle 4:31 pm
Ciao Marta, bentornata.
cp @92: il dio di Spinoza è certamente interessante. Però “usare” visioni religiose come basi per costruire una cultura, in generale, meno di rapina nel mondo del lavoro, dello studio, delle vacanze, dell’ecologia, del cibo ecc. a mio avviso è molto pericoloso. È comunque sempre una via integralista, almeno sul piano propositivo. La religione ha il suo ambito, se poi da quell’ambito, in grazia di pratica e tempo si formano uomini in grado di fornire suggerimenti per una cultura migliore: bene.
9 Giugno 2015 alle 2:06 pm
Y, condivido.
13 Giugno 2015 alle 7:45 pm
A volte è difficile capire come nel normale vivere quotidiano ‘stia’ il rapporto con le cose.
Leggendo come ha trascorso la vita chi ha praticato la via, a volte, si può intuire come ciò sia reale e possibile.
Per esempio quando un discepolo di Uchyiama ritiene che sia importante menzionare il fatto che l’ accendere una stufa a legna sia stato un dei più importanti insegnamenti che ha avuto, oppure quando lo stesso Uchyiama racconta come, nonostante non riuscisse a dormire dal freddo ( a causa della sua salute cagionevole), capiva che quella era la vita che in quel momento doveva vivere, ed altro ancora, ecco, queste cose mi permettono di interrogarmi sulla pratica al di là delle parole…
E credo che lo studio di come hanno vissuto e vivono chi sinceramente mette in pratica la via sia un elemento molto importante per vivere la pratica..
14 Giugno 2015 alle 11:10 am
Cara Marta, credo di capire quello che dici e solo in parte sono d’accordo. Farei molta attenzione a non mitizzare persone e comportamenti. Chiunque sia capace di farlo come si deve è in grado di mostrare come si accende una stufa: imparare ad accenderla, poi, è altra cosa. Chiunque faccia da un certo tempo zazen con sincerità è in grado di mostrare come ci si siede: la descrizione (di Uchiyama o di chiunque altro) è buona solo se la ritrovo e la dimentico nella mia esperienza. Le biografie dei “maestri” sono utili e mendaci, perché quasi sempre narrano solo di episodi ed eventi edificanti: la fuffa, le bassezze, le cantonate si sottacciono. Personalmente ora preferisco chi, per usare le tue parole, “sinceramente mette in pratica la via” sottraendosi al merito di divenire un esempio preclaro. Diceva un tale: le onoroficenze non basta rifiutarle, bisogna non meritarsele.
14 Giugno 2015 alle 4:28 pm
Non so se persone come Uchyiama avessero l’intenzione di essere, nel loro comportamento, di esempio per altri. Mi sembra che quello che comunichino sia un ‘modo’ di vivere all’interno della via.
Io non ho avuto e non ho contatti con persone che si ritengano ‘maestri’ ma da quello che ho sentito raccontare, non ho dubbi sul fatto che vengano sottaciute bassezze e cantonate, ma appunto perchè son tali, il conoscerle non mi serve certo a capire come la via possa essere ‘vissuta’. O meglio, in realtà (senza generalizzare), mi permettono di capire qualcosa (anche se faccio fatica ad accettarlo)e cioè che la ‘pratica’ non mi mette al riparo neanche da atteggiamenti che non si possono non definire ‘riprovevoli’.
Lasciando però ai ‘maestri’ i loro problemi, e riflettendo sulla pratica che si svolge all’interno di un gruppo, ritengo che molti aspetti del modo di vivere la pratica ‘passino’ attraverso i comportamenti che ognuno ha, e non solo nei momenti di pratica ‘formale’. E talvolta, almeno per me è così, è proprio nel momento in cui vediamo (o mostriamo i nostri)i limiti che la pratica diventa ‘viva’.