Vi sono libri che nel “nostro ambiente” cadono come sassolini in uno stagno e sollevano onde che, raggiunte le sponde, tornano varie volte a manifestare quell’emergere del pensiero che chiamiamo interesse. Il libro di Paul Knitter Senza Buddha non potrei essere cristiano è uno di questi. Lo dimostra lo spazio che si è conquistato tra queste pagine, con le centinaia di commenti -anche aspri- che ha suscitato ed ora anche

con questo nuovo scritto che vi propongo, ad opera di aa. Dove però commentare il testo di Knitter è anche l’inizio di un percorso personale, la testimonianza di un cristianesimo che trova ossigeno nel buddismo, in particolare nello zazen. Aa evidenzia una differenza tra cristianesimo e buddismo da un punto di vista insolito. Di Gotama, dice aa, almeno a livello di leggenda agiografica, si conosce, si sa come e perché secondo quale percorso sia “diventato” (le virgolette son mie…) il Buddha. Invece non sappiamo secondo quale percorso Gesù divenne il Cristo.
Qui sotto, a seguire, trovate il testo completo di aa, che in pdf trovate anche qui

Di non solo Zazen

Il titolo del libro di Knitter Senza Buddha non potrei essere Cristiano (ed. Fazi, Roma, 2011) è forte, provocatorio, forse anche paradossale. Colpisce soprattutto l’accostamento tra il Buddha

ed il Cristianesimo, ed il fatto che il primo possa essere posto al servizio del secondo. Tuttavia, l’aspetto secondo me essenziale, addirittura a mio modo di vedere la cifra fondamentale del percorso tracciato da Knitter, sta piuttosto nel riconoscimento di “non poter essere”. Ossia l’incapacità, anzi l’impossibilità della fede, l’esperienza sconfortante di chi, pur desiderando seguire un percorso religioso, si scopre incapace di aderirvi fino in fondo e seriamente. L’incredulità, il dubbio, non la certezza e la saldezza della fede sono certamente il vero punto di partenza spirituale del libro. In ciò non vi è nulla di sbagliato, perché la fede ed il dubbio sono intimamente legati, la prima non vive veramente senza il secondo, ed il dubbio, se affrontato seriamente e se ascoltato fino in fondo, pur nel suo essere angoscioso, può essere la fonte di un rinnovamento religioso. Ho sentito una forte vicinanza con l’autore nel corso della lettura perché anch’io, pur con modalità differenti ed in una diversa fase della vita, ho attraversato difficoltà analoghe e mi sono dovuto confrontare con interrogativi simili. Penso che, più che un’analisi od una valutazione critica o teologica del lavoro di Knitter, che è al di là delle mie capacità, possa essere interessante un raffronto tra il suo percorso ed il mio; credo che in un certo senso possa dimostrare la validità dello sforzo dell’autore e il valore della sua proposta, almeno all’interno dell’universo cristiano, che è quello al quale, in prima istanza, egli si rivolge.
Dopo un’infanzia segnata da un’educazione cattolica, identica credo a quella di tanti altri, nel periodo formativo compreso tra la fine della fanciullezza e l’inizio dell’adolescenza la mia religiosità cristiana affrontò una profonda crisi alla quale, si può dire, essa non sopravvisse. I motivi furono ovviamente molteplici e non si trattò di un fatto subitaneo ma, come sempre accade, di una lenta presa di coscienza. Forse il motivo principale fu però che la mia vita religiosa cristiana mancava, per così dire, di una risonanza interna, di un’esperienza diretta ed interiore. Le parole della liturgia, i riti, le narrazioni evangeliche, mi sembravano vuote e morte, perché prive di un corrispettivo interiore con il quale potessero relazionarsi. Una delle conseguenze era la perenne sensazione che ci fosse qualcosa in me di fuori posto o di inadeguato il che generava un costante senso di colpa, che, alla lunga, risultò insopportabile. Un secondo fattore fu poi la forte presenza nel territorio dove crebbi e mi formai di gruppi religiosi cristiani fortemente identitari e caratterizzati da una visione integralista, direi, della fede. Queste frange del cattolicesimo, pur non maggioritarie dal punto di vista numerico, esercitavano ed esercitano tuttora una fortissima influenza in molti ambiti della società, dalla scuola alla politica al mondo del lavoro ed occupavano di fatto tutti gli spazi di interesse generale. Attualmente ho preso una certa distanza emotiva da tutto ciò, ma in quegli anni provavo per questi gruppi un forte sentimento di avversione, direi un autentico odio, verso quelli che per me allora rappresentavano il modello archetipico di tutta la Cristianità. Essere non credente mi pareva addirittura necessario per conservare una certa integrità morale. Questa può sembrare un’esagerazione, ma vorrei citare un esempio secondo me emblematico di un certo tipo di mentalità. Qualche tempo fa un primario dell’ospedale ove attualmente lavoro mi fece presente che, dal momento che il suo era un reparto Cattolico integralista, non valeva la pena di perdere troppo tempo per discutere le sorti di un paziente, in stato di coma, di religione musulmana. E, quel che è peggio, ebbi l’impressione che dicesse questo seriamente, e spinto da quello che per lui è un vero zelo religioso.
Negli stessi anni in cui la mia fede Cattolica entrava in crisi, scoprivo il buddismo, non solo attraverso lo studio teorico, ma anche attraverso delle esperienza di meditazione. Mi parve che mi desse l’opportunità di entrare direttamente e con tutto me stesso, senza mediazioni e senza appesantimenti rituali, in una dimensione ultimativa della realtà che ritenevo potesse essere la fonte autentica dell’esperienza religiosa. Per una serie di fattori, tuttavia, principalmente per l’assenza di una guida valida che potesse costituire un punto di riferimento e di raffronto, e forse anche per la mia giovane età, queste esperienze si interruppero nella fase successiva della mia vita, con l’inizio degli studi universitari. Per molti anni, accantonai qualunque interesse per la religione e smisi di praticare la meditazione, concentrandomi su quelli che allora mi parevano problemi di maggiore urgenza; avevo molte cose da fare, molti obiettivi da realizzare, molte esperienze nuove da tentare.
Quando le acque si calmarono però, cominciai ad avvertire un senso di insoddisfazione per il mondo che mi ero costruito, come un senso di inquietudine e di precarietà, che in qualche modo mi rimandava alle esperienze di meditazione della mia adolescenza. Queste costituivano una sorta di elemento misterioso del mio passato, che non cessava di interrogare la mia coscienza. Cos’erano stati quei momenti nei quali per qualche momento il flusso dei pensieri era cessato? Che cosa significavano? Come potevo integrare nella mia vita di uomo adulto quelle esperienze, che sembravano così distanti dal normale svolgersi della vita e impossibili da descriversi verbalmente? Sorse in me il desiderio di riprendere il filo di quel percorso interrotto; di riaprire per così dire, il dialogo con una parte di me e del mio passato. A questo punto però accadde qualcosa di imprevisto e di non ricercato: nel riprendere, spero con maggiore serietà e dedizione, la meditazione Zen e lo studio non solo formale ed accademico del buddismo, mi resi conto di acquisire, mediante quello stesso processo, una nuova capacità di lettura e di comprensione della religiosità di matrice Cristiana. I testi neotestamentari cominciavano a dirmi qualcosa, a far risuonare in me una nota profonda, che invece negli anni precedenti era mancata. Per riprendere una metafora usata da Mym nel suo libro sul Sutra del Diamante, fu un po’ come guardare uno stereogramma che si era avuto davanti agli occhi chissà quante volte vedendo solo noiose ed insignificanti immagini bidimensionali, e riuscire per la prima volta a cogliere una terza dimensione, la profondità, che consente di scorgere un disegno mai visto prima e portatore di un significato. Io penso che sia questo il senso del passo del Vangelo nel quale si dice che il Signore aprì negli apostoli “l’intelligenza delle scritture”: non si fa riferimento ad un fatto puramente intellettuale, ad una conoscenza formale, ma alla comprensione di un significato profondo e personale. Per utilizzare una metafora che Knitter utilizza a ripetizione, significa passare dal guardare il dito al vedere la luna (o forse per meglio dire, un lato della luna). Perché questo si sia verificato, in me come in altre persone di provenienza cristiana, non sono in grado nemmeno io di dirlo, ma sospetto che abbia a che vedere con il passaggio da un punto di vista centrato sull’ego ad uno diverso, nel quale è invece preponderante la percezione dell’unità tra se stessi e gli altri, del legame che lega tutte le cose. Io penso che sia questo, insieme con lo sgretolarsi di visioni preconcette e semplicistiche (nel mio caso direi una sorta di scientismo materialista), che permette di avvertire la potenza della parola evangelica e di presagire la profondità dalla quale essa si leva. In ogni caso, mi convinsi della necessità di tornare ad esplorare la fede cristiana, nella luce di una sensibilità diversa, non ancorata a schemi predefiniti. Mi sembrò un’occasione importante, che non bisognava assolutamente lasciarsi scappare. Con il tempo giunsi a maturare un modo di vedere ed una sensibilità religiosa molto vicina a quella espressa da Knitter. Per me però, il meccanismo dell’attraversamento della frontiera ha un significato molto diverso, dal momento che non si da un punto di partenza identificabile con una religiosità “cristiana” più convenzionale, a meno di non voler considerare le esperienze di un bambino.
Credo sia ovvio, da quanto ho scritto, come per me il percorso tracciato da Knitter non abbia minimamente dei risvolti provocatori o destabilizzanti e perché non vi trovi nulla di paradossale. Potrei riformulare il titolo del libro dicendo che senza il buddismo, o per lo meno senza l’apporto dello Zazen, ho verificato la mia personale impossibilità ad “essere cristiano”. Per questo la mia prima reazione alla lettura del libro è stata che il timore dell’autore di non essere più percepito come un autentico membro della comunità cristiana dopo il suo excursus sul versante buddista, sia privo di ragion d’essere. Voglio dire che, personalmente, penso che il punto di partenza metaforico precedente all’attraversamento della “frontiera” sia semplicemente non difendibile, non più in sintonia con la visione del cosmo e con la sensibilità della contemporaneità. E’ inutile perciò preoccuparsi di mantenere un’aderenza all’ortodossia: è quest’ultima ad essere datata, è diventata un problema aggiuntivo anziché una risorsa ed un punto di riferimento. Questo è stato chiaramente evidenziato da diversi teologi cristiani, che hanno tentato l’impresa di un rinnovamento concettuale in modo forse più radicale di Knitter pur senza partire dall’esperienza di un dialogo con un’altra religione (penso soprattutto a T. de Chardin).
Non nutro quindi dubbi sul fatto che l’intento di Knitter sia giusto, dal momento che ritengo che una rifondazione della fede cristiana sia necessaria. Entrando più nel merito dei risultati conseguiti, credo che sia opportuno distinguere tra la prima metà del testo (grosso modo i primi 4 capitoli), di carattere più marcatamente teoretico, e la seconda (capitolo 5, 6 e 7) con un taglio più pratico e volto ad un confronto tra le concrete esperienze religiose buddiste e quelle cristiane. A mio avviso la prima parte risente di una certa tendenza alla semplificazione tanto del versante buddista che di quello cristiano, credo in parte voluta, al fine di rende più agevole un’operazione di confronto. Al di là di questo aspetto, il grosso problema di questi capitoli secondo me è che più che con il buddismo, l’interlocutore con il quale si stabilisce il dialogo è una sorta di metafisica taoista filtrata dal buddismo. Tutti i malintesi relativi al modo di intendere la vacuità, abbondantemente sviscerati nella discussione sul sito web, mi pare siano riconducibili a questo malinteso, peraltro molto frequente. Mi è già capitato di osservare che quando noi occidentali cerchiamo di confrontarci con il buddismo su di un piano teoretico e filosofico, in realtà manchiamo il bersaglio, perché il buddismo propriamente inteso non offre un appiglio ad una discussione impostata in questi termini. Direi anzi che questo è esattamente un criterio per distinguere la matrice buddista di una cultura: è quello che ti sfugge tra le dita quando tenti una comparazione sul piano intellettuale con i tuoi schemi di riferimento. E’ possibile coglierla solo grazie ad uno sguardo molto obliquo. In questa sezione del libro, Knitter fa però una constatazione se vogliamo elementare, ma di fondamentale importanza, laddove enfatizza l’importanza del valore simbolico del linguaggio cristiano, in particolare quello liturgico. Dico che è fondamentale perché un’interpretazione letterale dei dogmi cristiani porta a dedurre che si tratta di un susseguirsi di affermazioni illogiche, antistoriche o in palese contrasto con qualsiasi criterio di verosimiglianza. Essi vanno invece considerati alla stregua di simboli, cioè di parole od espressioni in un certo senso anfibie, alla stregua di Giani bifronte, con una lato radicato nella sfera linguistica ed un altro che allude, in modo metaforico ed analogico, a ciò che sta oltre che non può essere espresso verbalmente. Se non si riesce a percepire questa dimensione profonda, che costituisce l’altra metà del simbolo, non si comprende il cristianesimo. Ha perfettamente ragione Panikkar quando dice che il superamento dell’ambito linguistico, e del concepire se stessi essenzialmente in funzione del pensiero, è un passo fondamentale per entrare nella vita religiosa cristiana.
La seconda metà del libro, quella incentrata prevalentemente su di un confronto nel territorio della prassi, è quella in cui secondo me l’autore entra più autenticamente in un confronto con il buddismo su di un terreno dove lo scambio reciproco è più vero e fecondo. A mio parere l’intuizione più interessante che propone è la proposta di un Cristo in primo luogo maestro, e solo (o principalmente) in quanto tale, in grado di essere salvatore. Si tratta di un punto importante, perché ovviamente la Cristologia è il punto centrale, direi il cardine, attorno al quale ruota il cristianesimo. Io credo che questo modo di vedere, che certamente può anche sovrapporsi a quello più tradizionale che vede in Cristo principalmente un redentore, presenti vari vantaggi e risolva molti problemi. In primo luogo evita che i cristiani debbano rinchiudersi in una sorta di recinto spirituale che, più che escludere gli altri, tende ad ingabbiarli entro limiti angusti rendendo difficile qualsiasi rapporto di scambio o interrelazione. Questo modo di vedere, che enfatizza maggiormente la partecipazione diretta alla vita spirituale tendendo invece a ridurre gli elementi di mediazione tra l’umano ed il sacro, presenta però un problema: mentre nel caso del buddismo si può delineare il percorso personale che Gautama seguì per diventare il Buddha, lo stesso non si dà nel caso del cristianesimo. Non sappiamo cioè come, secondo quale processo, Gesù di Nazaret divenne il Cristo. Conosciamo, per così dire, il prodotto finito, che costituisce un obiettivo altissimo ed inspiratore e contribuisce a dare una forte spinta ideale al cristianesimo, ma ignoriamo il percorso attraverso il quale esso si è generato. Anche Knitter accenna a questo problema, anche se piuttosto di sfuggita, notando la scarsità di informazioni fornite dai Vangeli relative alla formazione personale e spirituale di Gesù, la cosiddetta “vita nascosta”. Io penso che non sia un’esagerazione affermare che è proprio per via di questa mancanza che nel cristianesimo si avverte una certa carenza di strumenti pratici, una certa qual povertà metodologica nello sviluppo della contemplazione, un aspetto invece che il buddismo ha grandemente sviluppato. Sono convinto che, benché non abbiamo alcun informazione diretta dell’esperienza interiore di Gesù essa sia stata all’insegna della non dualità. Per Gesù, Dio non era il totalmente altro della tradizione abramitica, ma un Padre amorevole e vicino all’uomo. In modo ancora più forte e diretto, nel testo giovanneo si giunge all’affermazione che Dio è Amore. L’amore, ovviamente nel senso cristiano dell’agape, è una relazione di non dualità: non io e l’altro ma io con l’altro in un rapporto unitivo che tuttavia non porta alla fusione, alla perdita di individualità. Percepire tutte le cose come legate da questo tipo di relazione unitiva, che è vista come il movimento più intimo dello Spirito, credo implichi il superamento di una posizione dualista. Se non si considera ciò, non si spiega che il suo messaggio sia stato contrassegnato da un sentimento di amore universale e dall’accoglimento anche del nemico come di un fratello.
C’è infine un ultimo aspetto che Knitter coglie molto bene nell’ultimo capitolo del suo libro ma che a mio parere si potrebbe approfondire ulteriormente. E’ la percezione cristiana del tempo come un già-non ancora. Per il Cristianesimo la storia ha un senso profondo, perché è diretta verso un fine ultimo, che tuttavia è già presente nello svolgimento stesso del processo storico. Questo è un elemento di grande importanza nell’esperienza religiosa cristiana. I cristiani percepiscono l’umanità intera come in cammino verso l’unificazione e l’integrazione con il divino. Si può dire, credo, che alla base di questa visione ci sia la percezione che il momento presente sia incomprensibile e privo di significato se non viene posto in relazione con il suo destino futuro, del quale è già permeato. Più che un presagio od una prefigurazione di ciò che sarà, è la percezione dell’azione dello Spirito nel mondo. L’azione dell’uomo, sia del singolo che della società, si inscrive in quest’ottica di processo ed evoluzione continua, che è un movimento di unificazione e spiritualizzazione di tutto il cosmo in Cristo. Aggiungo che tutto questo non è una mera utopia od un’illusione: un mondo differente, un diverso modo di intendere i rapporti tra le persone è possibile già oggi. Ho avuto la fortuna di poter trascorrere un breve periodo nelle missioni cattoliche in Sud America, e posso testimoniare di aver conosciuto un mondo diverso, fondato sulla fratellanza, l’amore e la solidarietà reciproca, nel quale le persone trovano la loro gratificazione non nella soddisfazione del proprio egoismo, ma nella gioia della condivisione, e dove l’attenzione per i più bisognosi, i poveri e gli ammalati è posta al centro della vita religiosa. E tutto ciò si realizzava non perché le singole persone fossero dei santi, si trattava anzi di persone comunissime, ma in virtù dello spirito che permeava le relazioni e che entrava nei cuori di chi vi giungeva. Non ho il minimo dubbio che anche in altre religioni possa esistere un forte senso di appartenenza comunitaria ed un grande slancio idealistico, ma ciò penso si declini con modalità differenti.
Sono d’accordo in definitiva con quanto scrive fra Matteo (cfr. http://www.lastelladelmattino.org/wp-content/uploads/2011/06/Matteo.pdf) nel suo commento, cioè che buddismo e cristianesimo colgono due diversi lati della luna. Cambiando angolo di visuale ci si rende conto in effetti di riuscire a vedere aspetti che prima ci sfuggivano, ma allo stesso tempo si avverte di perderne di vista altri che in precedenza potevamo cogliere. Una visione totale del mistero non è accessibile per l’uomo, perché non esiste alcun punto di vista esterno o neutrale. Neppure è possibile una visione contemporanea da più punti di vista. Tenendo presente questo, concludo facendo a me stesso la domanda posta da Mym sul sito web: che bisogno c’è di essere cristiani se si fa Zazen (http://www.lastelladelmattino.org/6701)? Alla domanda complementare, perché fare Zazen se si è cristiani, ho tentato di rispondere nelle pagine precedenti: per me questa è stata una constatazione esistenziale più che un problema teorico o una questione astratta. Ma perché non solo Zazen? Certamente esso costituisce di per se una via di salvezza perfettamente autosufficiente, completa in se stessa e coerente. A questo risponderei che, in effetti, non si tratta di una necessità. E’ piuttosto un’opportunità ed una libera scelta. Non si tratta però di una scelta di comodo. Ruppi già con il cristianesimo a suo tempo: tutti i miei rapporti sociali più stretti, gran parte della mia rete di relazioni, si è costituita quando ero non credente. Non sono uno che ha costruito la sua vita nella chiesa e che ha in quel contesto tutte le sue radici affettive ed identitaria, al contrario. Forse il modo più semplice e diretto in cui posso esprimermi è che quando tento di mettere in pratica la Via, è essa stessa a condurmi verso l’esempio di Cristo. Per i cristiani, Cristo è la Via, e io credo che ciò possa intendersi nel senso che egli ne è l’incarnazione e l’esempio. Questo non è certo un punto d’arrivo (ne esistono?) quanto piuttosto un’ipotesi di partenza, la premessa per un’avventura. Dove essa mi condurrà, non lo so ancora.