Lun, 22 Dic 2008
Louis, un amico blogger di quelli che trovano tutte le novità della Rete quasi prima ancora che siano on line, mi ha segnalato un piccolo video molto
interessante, la storia delle religioni mondiali: non ho mai visto una storia di 5 mila anni così concentrata e completa. Il file è nel formato swf, particolarmente leggero e maneggevole anche per chi ha la connessione “lenta”. Per tornare a questa pagina potete dare il comando “indietro” al vostro browser.
21 Commenti a “Storia delle religioni”
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23 Dicembre 2008 alle 11:16 am
Mah, insomma… Segue il solito ordine delle cosiddette “grandi religioni”: man mano che compaiono induismo, buddismo ecc., tutto il resto della Terra resta grigio come se non ci fosse nulla da segnalare. Il cristianesimo risulta nato “da un miracolo, la morte e la risurrezione di Gesù”: oltre al fatto che non è preciso definire “miracolo” la risurrezione, la morte “miracola” un po’ tutti…
23 Dicembre 2008 alle 11:31 am
Là, là, là. Facile criticare. Provare per credere. Però questa cosaqquà che il cristianesimo risulta nato da un miracolo mi convince anzichennò. Allora: senza morte non ha senso parlare di resurrezione quindi la dicitura “morte e resurrezione” è un compound solido. Poi: se togli la resurrezione che cosa resta del cristianesimo: le cose che diceva GC senza la Salvezza (che solo la resurrezione fa porre in maiuscolo) le dice qualsiasi saggio padre di famiglia: fate i bravi, vogliatevi bene, non fatevi abbindolare dalle sette religiose…
23 Dicembre 2008 alle 12:22 pm
non stavo affatto negando che quella fosse l’origine e la peculiarità del Xmo. dico solo che la risurrezione non è un “rollback” biologico, e che il fenomeno religioso è ben più vasto e interessante della solita tiritera da manualetto. infine, GC ha detto cose più interessanti che “vai a scuola, e attento al gatto e alla volpe” 🙂
23 Dicembre 2008 alle 12:43 pm
Vabbuò.
Mo’ viénnatale. Facimmola passà ‘sta grande festa…
Buon compleanno GC!
Ciao
y
30 Dicembre 2008 alle 11:18 am
Buongiorno, vorrei fare una domnanda che può forse risultare polemica ma che nasce solo da una mia probabile ignoranza. Premetto che il mio piccolo percorso in questo ambito è nato da un incontro personale e dallo studio di autori ai quali mi rapporto, ma che, per scelta e per necessità, non partecipo a nessun momento comunitario ( in senso stretto )per cui molte cose non le conosco proprio. Tempo fa ho letto che l’ ambito buddista e l’ ambito cristiano hanno preso, in qualche modo, delle strade differenti pur rimanendo fratelli. Ora, vorrei chiedere, pur nella diversità degli approcci, in che modo ” la verità contenuta nel vangelo” assume trasparenza e manifestazione nello zen del buddismo? Mi sembra che alcuni aspetti delle due religioni siano portatori congiunti di alcune peculiarità religiose. Orbene ( non voglio essere polemica, vorrei solo capire ) nell’ ambito cristiano del sito, trovo spesso ( anzi sempre ) riscontro dell’ incontro di due realtà ( cristiana e buddista ) mentre nell’ambito buddista questo appare molto sfumato. Al di là dell’ impostazione del vostro sito ( a dir la verità molto più dinamico e interattivo )la posizione di coloro che ” vi abitano” ha assunto caratteristiche tali da considerare il proprio cammino religioso difforme da quello cristiano? Se sì, come si colloca in questo contesto nato dal dialogo tra le due religioni? Grazie per l’ attenzione. Ciao
31 Dicembre 2008 alle 12:35 pm
Interessante osservazione, Marta. Io la vedo così, e scusa se ti sembrerò banale.
La Via che indicano Buddha e Cristo è via che porta allo stesso luogo, ovvero ‘nessun luogo’. Allo stesso risveglio. E, aggiungerei, ciò vale per moltissime altre tradizioni, anche se forse non per tutte (ma non è questo il tema).
Sia Gesù che Shakyamuni furono ‘riformatori’ di precedenti involucri religiosi dei quali evidenziarono le contraddizioni e rifiutarono le sovrastrutture dogmatiche, superstiziose ed ideologiche: per riportare alla luce l’essenziale. Quello che tu chiami ‘verità’, presumo; ma che non è ‘contenuta’ nel vangelo né nei sutra, bensì pre-esiste ad essi. Vangeli e Sutra, come mappe di un tesoro perduto che non sappiamo più ritrovare, ce la indicano ma non ‘contengono’ proprio nulla.
Nel momento in cui i due messaggi originali divennero ‘religioni’ (Cristianesimo e Buddismo) si rivestirono di un nuovo involucro dottrinale, culturale e dogmatico; ovviamente differente poiché sviluppatosi in ambiti geografico-storico-culturali differenti. Per vari motivi, nel Buddismo l’attenzione al nucleo essenziale della faccenda fu considerata questione prioritaria, ed il messaggio rimase esplicito; in particolar modo direi che ciò vale per il Buddismo Zen.
Il Cristianesimo involse velocemente in struttura gerarchica, con forti connotazioni socio-politiche, ed il messaggio originale venne ‘criptato’, reso difficilmente accessibile. Ovviamente sono necessari dei distinguo: per esempio tra l’esichia di Monte Athos e la dottrina di Comunione e liberazione mi pare ci sia una bella differenza.
Questo forse rende ragione del fatto che, qui, in ambito cristiano sia più sentita la necessità di usare pietre di paragone per ‘sfrondare’ sovrastrutture mentali-culturali particolarmente ridondanti ed ostative. Senza negare naturalmente la reciprocità di questa esigenza, laddove il Buddista troverà nell’altra parte elementi utili per correggere ‘distorsioni’ quali certa tendenza al solipsismo, al nichilismo ecc.
Quanto all’’incontro’, per i buddisti di casa nostra l’incontro con il cristianesimo preesiste a quello col buddismo. E’ già avvenuto: noi siamo cristiani ab inizio. Anche se ci volessimo dichiarare atei od agnostici, non potremmo farlo a prescindere da quelle categorie che abbiamo cominciato ad assumere col latte della mamma e poi in ogni ambito socio culturale.
Perciò a mio avviso, neppure di ‘incontro’ si tratta; ma di uso oculato e proficuo di ‘strumenti’ atti a ripulire noi stessi – la nostra piccola mente – da sovrastrutture limitanti la chiara visione delle cose. La quale ‘chiara visione’ non è, a mio avviso, né cristiana né buddista. Né altra.
Quanto al ‘dialogo’, infine, ti confesserò che è una parola che mi piace davvero poco: sembra sempre che si debba trovare un compromesso, un punto d’accordo o di sintesi tra mondi culturali (sovrastrutturali). Per quanto mi riguarda, è un altro ambito.
1 Gennaio 2009 alle 10:28 am
Buongorno, anzi buon anno, visto che ci stiamo inoltrando nel 2009. Chissà perché poi, diamo così importanza alla scansione temporale,.. quasi fosse un’entità al di fuori di noi.
Bè, tornando all’ argomento affrontato,Doc, non mi sembra affatto banale il tuo commento. Non so se ho compreso bene tutti i passaggi.., ma vorrei continuare nella riflessione ( se c’è voglia e tempo naturalmente). Se si presume che le religioni in quanto tali con, le loro istituzioni e sovrastruttute, ( più o meno gerarchizzate ) nascondino più che rivelare la realtà che pre-esiste ad esse, sarebbe possibile il mantenimento del messsaggio originale che ci permette la chiara visione delle cose? Non fosse altro per andare oltre anche a questo?
Non è quasi una necessità “imposta” dai nostri limiti, quella di usare comunque un linguaggio ( inteso in senso lato )che si manifesta come religioso-culturale, senza il quale l’ uomo avrebbe fatto (e farebbe) fatica ad assumere coscienza della sua esistenza?
Non è, per me, questo un tema puramente
teorico e intellettuale perché non ho ancora risolto la questione personale dell’appartenenza religiosa, nella considerazione, come tu dici , che non si può prescindere da quelle categorie in cui siamo stati immersi dalla nascita.
E’ possibile e come,( non so però se intendevi questo,) usare le pratiche solo come strumenti “purificatori” ?( il termine non è forse idoneo) Ma se così fosse sarebbero quindi intercambiabili con altre pratiche? Più precisamente lo stare “semplicemente seduti” dello zazen che non ha altro scopo che stare semplicemente seduti, può diventare una semplice pratica per….? Faccio fatica a pensarlo, anche se non mi sentirei di dire ( per il fatto stesso che la realtà si manifesta anche in modo diverso )che è l’unica pratica che avvicini l’ uomo all’ essenziale. Lo stesso discorso mi sentirei di fare per l’ eucarestia ( correttamente intesa ).
Un’ultimissima cosa, anzi due,se la “chiara visione” prescinde ( o può prescindere )dagli ambiti religiosi come posso , in quakche modo, definirla? E se questo non è possible, non mi troverò comunque a dover parlare ( e pensare ) attorno alle cose penultime che mi vengono offerte dalle religioni e/o culture? E se questo è in qualche modo vero, come faccio a non pormi il problema del dialogo interreligioso ( nonché intrareligioso)? Naturalmente concordo pienamente sul dialogo come compromesso, non è quello che intendo. Intanto buona giornata!!
1 Gennaio 2009 alle 2:32 pm
Cara Marta; innanzi tutto, buon anno anche a te. Un tale argomento, man mano che si tenta di approfondirlo, diviene sabbia mobile. Temo fraintendimenti, temo di dire sciocchezze. Un po’per i limiti del linguaggio – l’ambiguità delle parole! – e molto di più per i limiti alla ‘chiara visione’ determinati dalla mia persona. E tuttavia, proprio questo nostro sforzo di parlarci, di intendere cosa vogliamo dirci al di là delle mere espressioni verbali, è in qualche modo – a mio parere – cammino religioso; è dialogo. Altri più qualificati di noi potranno intervenire per puntualizzare, correggere ed indicare punti di vista più elevati.
Penso si debba dire che il senso delle religioni non sia quello di nascondere (perché mai?) ma di ‘proteggere’ il messaggio, affinché sia correttamente fruibile: se finiscono per nasconderlo, c’è qualcosa che non va in quella costruzione che chiamiamo ‘religione’. Proteggere e ‘non contaminare’. In una storiella zen i protagonisti del dialogo concludevano (cito a memoria): ‘non è che non esistano, pratica e risveglio, ma non dovremmo contaminarli’; ‘proprio così, proprio così. Non contaminare. Tu ed io siamo questo…’
I nostri limiti – dici – ci impediscono di andare oltre il linguaggio, oltre il messaggio: e restiamo ancorati alle cose ‘penultime’ offerte dalle dottrine. Vero: cosa ci impedisce di andare oltre? La paura forse, l’altra faccia di ‘attaccamento/desiderio’!? Ci siamo arrampicati in cima al palo di 100 piedi, ma non osiamo fare un ultimo passo. Fossati la dice così: ‘Difficile non è nuotare contro la corrente/ma salire nel cielo e non trovarci niente’ . Solo quando si fa quel passo, credo di poter dire, lo stare seduti dello zazen può essere semplicemente ‘stare seduti’. Ed allora lo zazen non è più uno ‘strumento purificatorio’, una pratica ‘finalizzata’ a star solo seduti: ma è proprio star solo seduti. ‘Solo inchinarsi’ dice Uchiyama. A che serve ‘definirlo’? Solo inchinarsi.
Non direi che le dottrine e le pratiche siano intercambiabili. Piuttosto, c’è una via per tutti: ci sono articoli adatti a tutti i portafogli ed a tutte le capacità. Provo a dirla in altro modo, più nostrano: Dio ha sparso sulla terra i semi di verità in innumerevoli forme, affinché ognuno possa seguire la strada che più gli si confà. Vedere la verità in ognuna delle varie forme, delle varie ‘religioni’, è chiara visione. Rimarcare le differenze per affermare o demolire – come avviene quando si nutre ed esalta il senso di ‘appartenenza’ religiosa – è Babele. Ed allora il ‘dialogo’ (correttamente inteso, l’ascolto) è medicina necessaria, è correttivo.
3 Gennaio 2009 alle 2:46 pm
Buongiorno! Sì forse hai ragione quando dici che manca il coraggio di fare l’ ultimo passo, almeno a me! Forse per arrivarci ho ancora bisogno di rimanere attorno alle cose penultime, nela speranza, forse di riuscire a vedere, almeno da un punto di vista, quella parte di verità che, come dici, sta in ognuna delle forme religiose. Rimanendo nell’ ambito di questo discorso, non trovi che la lettera di Padre Luciano, nell’ ambito cristiano, sia quasi uno specchio di quanto stavi dicendo? Da un altro versante, ma, il tema della ” gloria mundi ” con la sua necessità di transitorietà non assomiglia un po’ al’ ultimo passo?
Non è che voglia trovare per forza delle convergenze tra sistemi di credenze diverse, ma mi ha colpito questa “vicinanza”. Ciao
3 Gennaio 2009 alle 3:12 pm
Sempre io, mi è venuta in mente una cosa: non è sempre ( anzi quasi mai ) semplice “vedere” la propria strada. A volte dopo averne intrapesa una che sembrava “l’ideale” ti riscopri a dover comunque ricominciare da capo. Può essere la propria strada quella di dover “comunque ricominciare da capo”? ( e non parlo delle grandi scelte, da dello stare al mondo ogni giorno). L’ autentica adesione alla propria via è in qualche modo “verificabile”?
Mi rendo conto che la domanda è quasi assurda. Ma ogni tanto il dubbio affiora spprattutto quando ci si scopre diversi da quello che si vorrebbe essere.
Ultima riflessione: è bello però avere le parole anche se possono essere ambigue. Di nuovo arrivederci.
3 Gennaio 2009 alle 6:08 pm
Buongiorno a te, Marta.
Sì, certo: mi ritrovo piuttosto a mio agio nella visuale che propone P. Luciano. Molto bello; soprattutto l’immagine di non-dualismo tra Creatore e Creato.
Personalmente prediligo una visione ‘mistica’ del gioco della vita – e perciò mi accordo meglio con la prima parte della sua lettera – ad una visione storica, escatologica delle cose, così cara a grande parte del mondo Cristiano. Ritengo che quel famoso ’ultimo passo’ da compiere, preveda anche un salto ’oltre’ il tempo. Anche il tempo, anche quello inteso come ‘storia umana’, come successione di ere, deve essere infatti trasceso: perché il tempo siamo noi, è ‘io, e quindi non si può lasciare l’io portandosi il tempo – cioè una parte essenziale dell’io – nello zaino. L’io è, infatti, una funzione dello spazio-tempo. La nostra idea del tempo mi pare, appunto, una ‘cosa penultima’. Fa parte in qualche modo della ‘gloria mundi’.
Ma forse sto parlando di cose troppo più grandi di me. O forse è solo quel…’dover comunque ricominciare da capo’. Ogni anno, ogni giorno, ogni minuto, ogni istante. Il risveglio non è qualcosa che possiamo acquisire, metterci in tasca e non pensarci più perché tanto ormai ce lo abbiamo. Appena ci pare di averlo intravisto … ecco, non c’è più e siamo di nuovo nella c…. (Pardon!) …per chissà quanto ‘tempo’.
Ed anche la strada non è sempre la stessa, ma cambia in continuazione.
Forse l’unica cosa che permane è proprio – come tu dici – quel ‘dover ricominciare da capo’. E per questo dover sempre ricominciare – mi pare dica Uchiyama – abbiamo, in modo del tutto naturale, il ‘voto’ ed il ‘pentimento’. Ed infine, l’aprire le mani del pensiero.
Un ultima cosa. Non so se sia ‘verificabile’: e soprattutto non so cosa sia una ‘autentica adesione alla propria via’. Se è la mia propria via, me la sono fatta io, sono io! Più aderente di così! La questione non mi pare posta in modo da poter avere risposte. Penso vada riformulata. O sono ’io’ che non capisco cosa intendi dire.
Ciao
4 Gennaio 2009 alle 12:23 pm
Buongiorno. Rileggendo quanto è stato detto finora e lasciando un po’ scorrere il pensiero mi accorgo che ci sono tantissime cose su cui vorrei ritornare per poi ripartire. A proposito di parlare delle cose troppo grandi, credo che l’ atteggiamento faccia proprio la differenza. ( Neanche Panikkar, in una sua intervista diceva di essere originale ma solo di interpretare quanto sapeva alla luce della sua propria esperienza ).
Sono andata a rileggere l’ intervista di Uchiyama in Addio ad Antaiji, dove forte è il richiamo ad andare oltre e altrettanto al non sprecare la propria vita. Per fortuna ha ribadito che pochi capiscono il vero signifiato di dharma e ciò che ne consegue, così mi sento meno sola. Paradossalmente sembra molto semplice nella teoria ma appare decisamente complesso nella realtà.
E’ proprio questo che spesso mi mette in crisi e a cui forse facevo riferimento con la necessità che appare ralvolta di ” verificare”. Lo lego al ” pentimanto” a cui hai accennato assieme al “voto”.
Vorrei togliere di mezzo alcuni possibili fraintendimenti: non mi riferisco alle azioni che palesemente sono errate o a peccati che hanno bisogno di chiara (?) conversione. Penso all’ atteggiamento ( che comunque provoca azione ) che talvolta ( o quasi semore ) esula dalla volontà personale. Come posso esimermi dall’ analisi di ciò che sono, attraverso l’analisi di ciò che faccio? Se fossi saggia forse questa domanda non avrebbe senso, ma siccome non lo sono dovrei sapere o capire o intuire da dove e come sorge il pentimento che pure avverto come necessario? Può essere un pentimento tout cout? Non mi viene da dare questa riposta, anche se mi posso rendere conto che in realtà molte delle cose che faccio possono avere conseguenze che io non avverto e non conosco ( anzi probabilmente è proprio così ma non mi sembra possa essere “esaustivo”.)
Potrebbe essere non importante o comunque non necessario per seguire la propria via, ma mi sembrebbe disarticolare una parte dell’io dal tutto.
Tra un po’ le vacanze natalizie saranno finite, se per caso ci sarà meno tempo per dialogare dimmelo così ti saluto. Ciao
4 Gennaio 2009 alle 7:56 pm
Ciao Marta,
credo che tu possa sentirti davvero in buona compagnia.
Abbiamo messo molta carne al fuoco, forse troppa, in questo dialogo pubblico. Sperare di arrivare a qualche conclusione convincente sarebbe quantomeno presuntuoso.
Mi permetto tuttavia di comunicarti le riflessioni che hai stimolato in me rispetto alla parola pentimento, così come la usa Uchiyama. Dovremmo tutti riflettere attentamente sul significato di certi termini. Non credo personalmente che l’accezione corrente del termine ‘pentimento’ sia la migliore, per interpretare quel messaggio. In genere pensiamo di doverci pentire di azioni cattive, di pensieri malvagi e via dicendo. Il pentimento – per noi di matrice cattolica – presume senso di colpa, macerazione ed autopunizione redentrice. Mi ha sempre colpito vedere un certo atteggiamento di preghiera o compunzione dei fedeli nelle chiese, inginocchiati con il viso tra le mani, con aria sofferente ed implorante, dopo la Confessione o la Comunione. Ricordo mio padre. Ricordo il fastidio, il disappunto nel vedere lui e tantissimi altri in quell’atteggiamento che non mi pareva sincero né opportuno, che profumava di ipocrisia e di ostentazione, perché sapevo che cinque minuti dopo tutto sarebbe stato come prima. Perché potevo capire: ma anche capivo che, anziché rappacificarsi direttamente con coloro che avevano offeso o ferito – cosa che avrebbe comportato un atto di sottomissione e di umiltà – chiedevano ad un ‘Altro’ di intercedere, di perdonare. Ed in pegno, in pagamento di questo perdono, offrivano una scena di macerazione, di autopunizione, di sacrificio, una esibizione.
Mi ricordo la statua del pensatore di Rodin, ripiegato su se stesso, così lontana dalla postura del loto. Certo che posso capire: ci sono situazioni in cui non c’è più modo di chiedere perdono, di riappacificarsi, ed allora non resta che affidarsi alla misericordia divina. Ma sono casi eccezionali, non ordinari..
E questo è un aspetto della faccenda.
Ma poi, ‘in realtà molte delle cose che faccio possono avere conseguenze che io non avverto e non conosco’. E’ una tua espressione. La condivido, certamente. Ma, giustamente osservi, non è tutto qui. C’è anche tutto ciò che penso e che faccio con ‘intenzione’, più o meno lucida, più o meno consapevole. Quello e questo significano comunque che interferisco col corso delle cose, per lo più per ottenere vantaggio personale: guadagnare; sapere. Questo mi allontana dal ‘voto’, dal modo ‘impersonale’ di essere. Qui, a mio avviso, si genera dukkha; il disagio, la sofferenza (anche stavolta si impone una riflessione profonda sul termine). C’è un io che spadroneggia, e dukkha compare.
Il mio stesso vivere come individuo ‘separato’, mi allontana dal voto: di questo mi ‘pento’, pur sapendo che è inevitabile. Questa sorta di ‘pentimento’ è a sua volta un ritornare al voto, alla non intenzione di nuocere, di arraffare. E’ una sorta di denuncia del mio limite, come individuo. E’ un affidarsi, in qualche modo, ad una forza che mi trascende. E’ quello che facciamo in zazen, quando lasciamo andare i pensieri e cerchiamo di affidarci a… mente-corpo; qui ed ora; né mente né corpo. Non-guadagnare non-sapere. Il buddhadharma, come lo definisce Uchiyama col koan di Sekito.
Quante espressioni! Usando le parole si può costruire un discorso; tutto può sembrare facile e chiaro. Ma poi, nel vivere quotidiano, i nodi della nostra superficialità e distrazione, vengono inesorabilmente al pettine. La ‘verifica’ è spietata.
Per fortuna è caduta dal cielo la gemma del Sangha, per cui siamo in buona compagnia. Nel tuo disagio, non sei sola. Non sono solo.
5 Gennaio 2009 alle 5:12 pm
Caro Doc, è vero che abbbiamo messo tanta carne al fuoco, ma, a volte credo sia importante ( almeno per me )rivisitare il “contenitore”, magari con chi ha la pazienza (e ti ringrazio per questo)di condividere l’avvvicendarsi dei pensieri e delle riflessioni. Non sono sicuramente un’esperta nel campo del buddismo e ho bisogno veramente di ” ricostruire “continuamente il signoficato di concetti, termini affinché non rimangano o scivolino verso l’essere concetti. Però c’è una cosa che sta a monte di tutto questo e che mi è “balzata” alla mente leggendo i tuoi ricordi relativamente al ” pentimento cattolico”.
Parto da lontano: quando ho visto l’immagine del propagarsi della religione cristiana nel video iniziale mi ha fatto sorgere immediatamente due pensieri: quanto “rompiscatole” ( per usare un eufemismo ) siamo stati per arrivare dappertutto e cosa c’è del messaggio originario in questo cristianesimo dilagante? La mia esperienza deli’istituzione chiesa cattolica è stata abbastanza devastante, tanto da generare un rifiuto molto forte verso questa religione.
Però, per farla breve, un giorno per caso, ho incontrato il buddismo e mi sono avvicinata ( con molta diffidenza devo dire ) all’ esperienza di persone come Forzani, Mazzocchi, e poi Doghen e poi
Panikkar… e paradossalmente attraverso di loro ( le loro opere intendo e scritti )ho cominciato a vedere prima e ad “aderire” ( non è la parola adatta forse ) poi ad una religiosità cristiana completamente diversa da quella in cui sono stata sempre immersa. Sono rimasta “ostile” ( almeno è così per il momento ) ad una partecipazioe comunitaria, semplicemente perché in momenti assembleari di questo tipo ( anche fosse nel silenzio dello zazen )mi creano notevole disagio e incapacità di condivisione. Perché ti racconto questo? Perché una domanda di senso mi sorge spontanea ( forse anche più d’una ): cosa può voler significare ” l’adesione ad un esperienza religiosa?” Qualcuno dice che in realtà non possiamo capire e condividere realmente l’esperienza del buddismo se non si “partecipa con immersione quasi ” alla cultura che l’ha generata. Una cosa similare potrei dire dell’ esperienza cristiana: cioé pur immersa nella cultura che l’ha generata ( volendo sottilizzare forse sarebbe da rivedere anche questo )si può dire che si aderisce a questa esperienza non partecipando a ciò che caratterizza la pratica comune? E’ realmente possibile prescindere dall’ appartenza religiosa per “fare” esperienza religiosa?
E poi, è pur vero che il linguaggio dell’ “occidente” mi risulta più semplice da capire, ma per coglierlo “veramente” devo continuamente faticare per togliere tutta la polvere dei condizionamenti che mi è depositata sopra ( e non sempre ci riesco ). Nell’esperienza zen “sembra” più semplice coglierne l’essenza ma forse questo è dovuto alla “scrematura” e all’ interpretazione già effettuate da chi l’ha portata in occidente.
Mi rendo conto che la non appartenza mi genera continuamente dubbi, ma l’accettazione di un’appartenenza con la “presunta certezza” che da questa può derivare mi spaventa ( troppo spesso vedo l’arroganza di chi pensa di essere nella verità).
Ehm, mi sorge un dubbio: può essere questo uno dei tanti modi dello spadroneggiare dell’io?
Ti saluto. Quando hai voglia, mi racconti della gemma del Sangha?
6 Gennaio 2009 alle 1:20 pm
Ciao Marta,
quando parlavo di ‘tanta carne al fuoco’ intendevo sia l’accavallarsi di temi piuttosto impegnativi che la lunghezza dei nostri interventi, cose che mi pare rendano faticoso seguire il filo del discorso. Non credo che qualcun altro ci sia venuto dietro con attenzione fin qui, infatti nessuno è intervenuto: trattandosi di un blog ‘pubblico’, non dovremmo dimenticarci della sua ‘funzione’.
Questo è il motivo per cui divido la mia risposta in tre parti.
6 Gennaio 2009 alle 1:23 pm
Quello che più mi ha colpito, nelle tue parole, è la costante preoccupazione della adesione/appartenenza. Mi pare un problema tipicamente occidentale: non credo che in oriente il cambiare religione – è questo il tema, no? – sia vissuto come un tradimento della casa dei padri e sia accompagnato da sensi di colpa così come capita sovente agli occidentali; a noi italiani in particolare.
Forse non guasterebbe mettere noi stessi al primo posto, al centro del quadrato, nell’osservare questo aspetto. Noi sentiamo il disagio di una separazione: tra noi e il modo; tra il nostro fuori e il nostro dentro; tra verità ed illusione. A partire da questo disagio, iniziamo a sentire la necessità di un percorso di riunificazione, di ri-legamento della nostra schizofrenia esistenziale. Cerchiamo di costruirci una ‘Via’, e di solito partiamo attingendo dalla Via tradizionale che la nostra cultura offre. Per noi, il Cattolicesimo; ma solo perché siamo nati qui, in questo tempo. Nulla vieta, tuttavia, di esplorare altri campi, altri percorsi, altre culture od esperienze. Cosa ritenuta normale e positiva in tutti i campi del sapere e della ricerca…tranne che in quello religioso. Personalmente ho smesso di sentirmi un ‘traditorte di Gesù’ tanto tempo fa, ma capisco. (In fondo in fondo, forse, mi gioca ancora un sottile disagio…). Per di più l’aver studiato altre proposte culturali – segnatamente lo zen – mi ha permesso di rileggere a suo tempo i Vangeli con occhi del tutto nuovi, evidenziandone aspetti e significati che prima mi sfuggivano completamente.
Ma non per questo mi sento di ‘appartenere’ al Buddha, al Tao o a Shiva. Casomai sono loro, le dottrine, le scritture, che appartengono a me. Che mi si offrono amorevolmente affinché ne faccia buon uso. Affinché io contribuisca a renderle nuovamente ‘vive’ ed utili anche per altri.
La famosa zattera, che serve ad attraversare il fiume della sofferenza ed approdare all’altra sponda: non è che io appartenga al veicolo che mi traghetta. Uso quel veicolo, poi posso – in teoria – anche lasciarlo. Oppure posso caricarmelo in spalla e tenerlo ben pulito ed in ordine casomai qualcun altro volesse servirsene.
Proteggere e non contaminare. E’ ben diverso dall’appartenere, no?
Io appartengo al Milan; io alla Juve. Io appartingo al partito…Cosa c’è dietro questo continuo bisogno di ‘appartenenza’?
6 Gennaio 2009 alle 1:26 pm
Quanto al Sangha, che dire? Conosci il termine: in origine la comunità dei monaci. Sempre di più, per estensione in un mondo ‘laico’, la comunità virtuale di tutti coloro che sono sinceramente impegnati in un cammino.
Tu: io sono. Io: io sono.
A partire da questa identità, possiamo farci coraggio e compagnia, aumentare la nostra determinazione ed energia praticando, studiando e discutendo insieme. Come ora. Tu ed io siamo sangha, in questo momento-blog. Esponiamo i nostri dubbi e cerchiamo un punto di vista più elevato attraverso la sinergia degli intenti. Lo saremmo altrettanto se ci sedessimo insieme in silenzio. Nello stesso tempo, col confronto e l’emulazione, ridimensioniamo il nostro io e ci scrolliamo di dosso un po’ delle nostre idee fisse. Ci accorgiamo poco a poco di essere ‘interdipendenti’. Tra esseri umani; con gli animali e le piante; con tutte le cose; aria, acqua, terra fuoco e vento. Non è una gemma di grande valore, il Sangha?!
6 Gennaio 2009 alle 4:58 pm
Ciao, hai ragione, mi ero parzialmente dimenticata di essere in un blog pubblico che ha una sua funzione. ( Mi scuso, forse non ne sono molto avezza.) E’ che, a volte, ci sono momenti in cui il dialogare è particolarmente pregnante e significato per un cammino e poter trovare un “tu”, in questo senso, non è così facile ( almeno per me ). Un tempo non vale un altro. E questo tempo in cui ho potuto confrontarmi con te è stato un bel tempo. E tutto sommato personalmente non ritengo importante che non sia intervenuto nessun’altro. Lo spazio c’è in ogni momento, grazie a questo sito molto aperto e stimolante: sia per ascoltare che per comunicare. Un grazie di cuore a tutti. Marta
6 Gennaio 2009 alle 5:05 pm
No, non è intervenuto nessun altro, ma siete molto seguiti (ieri vi hanno “ascoltati” in più di 800), con una media di 500 al dì. Effettivamente se riuscite a ridurre un poco la lunghezza è più agevole seguirvi, però siete interessanti comunque. Vi ho mandato una mail, potete controllare la posta? Grazie. Un saluto
6 Gennaio 2009 alle 6:01 pm
Grazie a te, Marta. E’ stato un bel tempo.
Possiamo ponderare con calma l’idea di mym.
Essere stati così ‘seguiti’ è sorprendente. Ciao.
9 Gennaio 2009 alle 1:57 am
Sottoscrivo gli interventi n. 16 e 17 di doc, tuttavia il vulnus del discorso è proprio il senso di appartenenza.Vivo nel profondo sud italia e l’unico linguaggio religioso in acto è quello cristiano per cui, contro voglia, penso e agisco da cristiano. Dunque sono cristiano?Sì, nella misura in cui appartengo a qui vili e miserabili ‘confratelli’ corresppnsabili di molte delle sciagure umane.Persino l’amore, per i cristiani, è una tortura che deve far soffrire, deve far sentire in colpa. Per fortuna i cristiani non sono l’Umanità.Un caro saluto.